Piano Sonata in Re maggiore di Joseph Haydn (Glenn Gould)
Andante con espressione
Ci ho provato, Glenn, ad appoggiare le mie mani sui miei lemmi come fai tu sui tasti del piano che suoni. Ci ho provato davvero.
Ho persino alzato la mano, in un lungo gesto di sospensione ad ogni pausa prolungata, come se fosse una pausa del pensiero mio, scrivendo poi senza sapere cosa volevo dire.
Ho provato ad inseguire le lettere come fossero fughe barocche, canticchiando, come fai tu, mentre la nera tastiera del mio computer mi osservava come si guarda divertiti un buffo personaggio.
Ho rincorso, ascoltandoti, la scrittura gestuale, istintiva, senza scopo, né significato, in cui i pesi dei polpastrelli sulla tastiera e la postura eretta della schiena hanno più valore di ogni chiasmo, enjambement, metafora, sineddoche.
Cercavo, abbandonando ogni ricerca, una figura retorica diversa. Una similitudine dell'anima a cui appoggiare i miei intenti...assenti.
Ed ero talmente rapito, Glenn, dal mio scrivere senza senso, che tutti gli anni di faticoso esercizio, di osservazione dei limiti di un foglio bianco da riempire delle mie emozioni mi parevano confluire in quell'istante. Unico, piccolo, infinitamente sottile, quasi vuoto.
Certo il significato, ogni tanto faceva cucù nel mio cuore, strappandomi un sorriso, più raramente una lacrima, ma mai un senso.
Si pratica, Glenn, per saper poi abbandonare la pratica, seguendo un flusso che inizia molto prima di noi ed è destinato a durare molto più del nostro respiro.
E poco importa, Glenn, se in una pausa tra due lettere ho visualizzato quel volto senza nome.
E' stato assorbito dall'appoggio del mio dito medio sul tasto “C” pochi istanti dopo.
Viviamo, Glenn, la nostra vita come se fosse una costante pratica, un allenamento, un esercizio preparatorio.
A cosa? Non è dato saperlo.
Poco conta, dicevo, Glenn, se, inseguendo una virgola, ho rivisto me bambino, con dei sassolini in mano giocare con gli amici sulla riva di un ruscello di montagna.
Sono i fumi della caduta delle intenzioni.
Lasciano sempre spazio ai ricordi, quelli più antichi e profondi.
E ci vuole molta leggerezza nel tocco sui tasti, per lasciarli sorgere, osservarli e permettergli poi di andare via; una leggerezza costruita dalla pratica dolorosa della mancanza d'intenzione, dalla scrittura sofferta, studiata.
Sì, Glenn, la scrittura, almeno la mia, è spesso sofferenza, costruzione di mondi alternativi a quelli vissuti, sogno e progetto capace di realizzazione lenta, faticosa e inesorabile di un futuro.
La scrittura per me, Glenn, dai miei dieci anni ad oggi, è sempre stata questione di sopravvivenza.
Ma ogni fiume sotterraneo, sposta sì sassi, radici, terra, per emergere, scavare faticosamente il suo gretto, ma è con lieve e delicata e morbida assenza di intenzione che si riversa infine nel mare.
Questo mi è successo oggi, Glenn, mentre scrivevo senza rincorrere alcun lemma, alcun significato, ascoltando il tuo tocco fatato al piano, di cui il mio sulla tastiera non può che essere che una ben più limitata imago.
E poco importa se ieri con mio figlio abbiamo ripassato assieme Foscolo; e quella parola “imago” e la sera e la fatal quiete e lo “spirto guerrier che entro mi rugge” e tutto ciò che sono stato, sono e sarò...
Vivace Assai (col dito fasciato)
Quando suoni così Glenn, e le mie mani cercano di imitare le tue in leggerezza, velocità, precisione ed espressione, il dito che chiusi l'altro giorno dentro una porta e che, gonfio come un tordo in primavera inoltrata, pulsa per la ferita, mi indica il suo desiderio di partecipare alla creazione.
Allora lo appoggio piano al tasto di una lettera. E' dolente ma vuole partecipare alla costruzione della leggerezza.
E' come se mi dicesse forte: “Ehi faccio parte dell'orchestra anch'io, non puoi fare a meno di me”.
Io sorrido e gli permetto qualche appoggio, perchè non si senta escluso.
Lui, dolente e pulsante, sorride ad ogni mio permesso di partecipazione alla scrittura.
Così siamo noi, Glenn. Ci facciamo rapire dal ritmo vivace di una fuga o di una sonata tutti interi, con i nostri limiti e le nostre zavorre.
Noi non siamo diafane ed esili danzatrici classiche.
Ci facciamo trasportare con tutti i nostri pesi, danzando come danzano le ballerine di Botero o Lubarov sulle tele.
Pesanti nel corpo e leggere nello sguardo.
Già, lo sguardo. Se il peso, il limite, ci tengono giù, è nel nostro sguardo che si deve cercare la luce che danza.
Ci si accetta o ci si rifiuta tutti interi non per porzioni, particelle, sezioni.
Non è oggi, con un dito schiacciato da una porta, che i miei lemmi balzeranno in cielo come Nureyev nel lago dei cigni, o la prosa alta di Goethe. Troppo legata al corpo è la mia scrittura. E se il corpo soffre anche la scrittura ne risente.
Eppure, conscio di questo limite di oggi, io faccio danzare le mie dita sulla tastiera, in assenza di intenzione, perché gioiscano tutte, anche dei pochi di centimetri di stacco da terra e avvicinamento al cielo che possono esprimere. Oggi, ora.
Allora Glenn che altro posso dirti? Ho il dito medio fasciato che partecipa all'ensemble come può, e limita la mia esecuzione.
Ma allo stesso tempo la rafforza perché è proprio il suo limite ad indicarmi una verità banale e dimenticata.
Verticalità è portare tutto se stesso in cielo; foss'anche per un solo centimetro di stacco il balzo va fatto lo stesso perché non vogliam negare l'esperienza e consideriam la semenza e fatti non fummo a viver come bruti e la virtute e la canoscenza...
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