(Redazione) - Figuracce retoriche - 06 - Paronomasia, Parole Omografe e Omonimia
PARANOMASIA
Paronomasia
dal greco
παρονομασία paronomasía
ovvero ‘mutamento di nome’ παρά pará
(presso) e ὀνoμασία onomasía
(designazione,denominazione).
Alcuni
testi (Treccani, Garavaglia) e molti siti la riportano anche con il
nome di annominazione, noi, considereremo quest’ultima, un
particolare tipo di paronomasia, che vedremo poi negli esempi. Si
chiamano paronimi, due parole che hanno suono simile ma significato
diverso.
La
paronomasia
quindi è una figura retorica che consiste nell'accostare due o
più paronimi, e si differenzia dalla figura
etimologica (si veda l'articolo su LE PAORLE DI FEDRO qui) in quanto la prima, ha parole di suono simile ma con radici
etimologiche differenti, mentre la seconda, mette in sequenza parole
con la stessa radice (es. sognare un sogno).
Abbiamo
due tipi di paronomasia:
Paronomasia
apofonica relativa alla differenza
vocale tonica (vocale dove cade l’accento) nella radice del
termine:
risica
rosica
stelle
stalle
amaro
amore
Paronomasia
isofonica relativa alla differenza
di una vocale non tonica o di una consonante mantenendo l’uguaglianza
dei suoni su cui cade l’accento:
tempo
tempio
traduttore
traditore
luce
lume
Angelo
Marchese nel suo Dizionario di
retorica e stilistica, inoltre
scrive che:
La
paronomasia si può avere con un semplice mutamento vocalico: sedendo
e mirando
(Leopardi); (…) Altre forme di paronomasia si ottengono mediante
più liberi accostamenti fonologici.
Ci
spiega poi, che nel mottetto montaliano Non
recidere,forbice, quel volto (di cui
segue il testo integrale), si possono
considerare paronomasìe gli accostamenti l'acacia-cicala, recidere-forbice
(gruppi / r.e.c.i/ /r.i.c.e./), freddo-duro
(gruppi /r.d.o./
/d.r.o./)
Non
recidere,
forbice,
quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del suo
grande viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo
cala… Duro
il colpo svetta.
E l’acacia
ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella
prima belletta di Novembre.
Non
poteva mancare l’esempio del Sommo Poeta, dove termini quasi
identici (volte e volto) hanno significati lontanissimi:
ch'i' fui per ritornar più volte volto
(Dante Inferno I, 36)
Questo ultimo esempio riguarda il caso di paronomasia definita più precisamente annominazione. Nei versi che seguono di Sanguineti, abbiamo invece, differenti tipi di paronomasia: nel primo caso (versi perversi), una paronomasia isofonica, nel secondo (fiale e fiele) una paronomasia apofonica e infine (tra fiele e miele) nuovamente isofonica. Possiamo inoltre, definire fiale fiele e miele un’annominazione
ma succhiami, tu almeno, questi versi perversi, queste fiale d’inchiostro / bestiale, di fiele e di miele...
La paronomasia (come le altre figure retoriche) non si usa esclusivamente nella nostra lingua. Per esempio, nella letteratura inglese, la paronomasia si chiama pun ed è stata molto popolare nel teatro elisabettiano (1558 -1625).
Thou mastering me
God! giver of breath and bread
(Gerard Manley Hopkins The Wreck of the Deutschland)
La paronomasia è chiamata anche bisticcio, la stessa Treccani, dalla quale ho tratto gli esempi che seguono, la definisce infatti tale:
(…) e sbuffan beffe con ischerno e scorno (doppio bisticcio; Luigi Pulci, Morgante 1460-1462)
(…) Mi sferza, e sforza ogn’hor l’amaro Amore (doppio bisticcio; Luigi Groto Rime 1541-1585)
(…) la nostra prole, i nostri polli molli, che ti ballano e ti bollono, al sole soli (triplo bisticcio; Edoardo Sanguineti L’ultima passeggiata, 1982)
Ma ora, altro che doppi e tripli! Li superiamo tutti con un bisticcio lunghissimo:
Il pazzo toglie dalla pezza
un pezzo di pizza che
cade nel pozzo che puzza!
Abbiamo vinto qualche cosa? Purtroppo no, ma ci premiamo da soli rispondendo a una domanda che nasce spontanea: noi, comuni mortali, della paronomasia, cosa ce ne facciamo?
Andiamo
a vedere quindi, quante volte ne facciamo uso nel gergo quotidiano.
Immagino vi siano familiari, le espressioni carta
canta, fare la fame, capire fischi per fiaschi, dalle stelle alle
stalle, sesto senso, senza arte né parte, volente o nolente.
E
chi di noi non conosce i seguenti proverbi?
Sopra la panca la capra campa, trentatré trentini, chi non risica
non rosica…
Inoltre,
molto spesso incontriamo la paronomasia anche nel linguaggio
pubblicitario e in marchi commerciali, come quello celeberrimo di
Coca-Cola
Siccome
vogliamo qui strafare e farci del male, volendo ulteriormente
puntualizzare, al bisticcio
affianchiamo l’asticcio
che la stessa Treccani indica
come termine rarissimo, e che noi, compiaciuti, andiamo a ripescare.
L’asticcio
non è altro che un’omofonia imperfetta, cioè non omografa che ha
come particolarità l’utilizzo di un termine eliso (abbiamo parlato
di elisione nella seconda puntata di figuracce retoriche qui), il quale, affiancato a un altro termine, diventa omofono a un terzo
termine con radice differente, oppure l’uso di due parole che unite
ne formano una terza con diverso significato. Ma che pasticcio questo
asticcio!
Ora cercherò di essere più chiara facendo degli esempi:
Monte,
che ’n alto sali, eo vegio mo’
n te [...]
Ponte
di gran valenza, il mi’ cor pon
te [...]
Conte,
le tue parole voria con te
[...]
Nave,
di cui lo mar sospetto n’ave.
(Maestro
Rinuccino, fine del XIII secolo)
Uhhhh, il XIII secolo, che cosa antica! Invece no, e lo dimostra il gruppo
musicale Elio e le Storie Tese: Su
di ciò la critica è
concorde / nel ritenermi sudicio.
E
ora caccia all’asticcio sia!
Passami un
cioccolatino, ma non confonderti con un ciocco latino.
La bottegaia
battezzò la botte del vino in Botte Gaia
Ora tocca a
voi. Trovatene altri!
E
passiamo alla figuraccia del giorno numero 1
Alticcio
bisticcio con l’astuccio e pasticcio con l’asticcio.
Ora
vorrei andare a nascondermi ma ho altre cose da condividere, quindi
sfoggerò la mia faccia di bronzo, e voi dovrete sopportare le mie
elucubrazioni mentali ancora un po’.
OMONIMIE
E OMOFONIE
C’è una combinazione di parole (da alcuni studiosi considerata
poliptoto) che noi, invece, andiamo a inserire nei casi di
paronomasia, in quanto i termini che si usano, pur avendo lo stesso
suono, provengono da radici etimologiche differenti (o quasi, nel
caso di mutamento d’accento).
Parlo
del caso in cui, si usano parole omonime e/o omografe.
Mi
sembra fondamentale quindi, aprire una parentesi dedicando loro uno
spazio.
Vengono
chiamate omonime (dal
greco φωνή homós,uguale
e ὄνυμα, ónyma nome)
le parole identiche con significato diverso. In questi frangenti,
sarà il contesto della frase a farci capire quale accezione
attribuire alla parola.
A volte i
vocaboli omografi (cioè che
si scrivono allo stesso modo φωνή homós
uguale e γράφω graphò
scrivere) sono anche omofoni (φωνή
homós uguale, e
φωνή phoné suono)
hanno quindi anche la stessa identica pronuncia. Questo tipo di
omonimia, viene definita omonimia
perfetta.
Un esempio di
omonimia perfetta:
se scrivessi su
un foglio la parola Tasso, senza aggiungere altri riferimenti, questa
potrebbe significare molte cose:
1) Mammifero
plantigrado dei mustelidi
2) Albero
sempreverde
3) Valore
ottenuto dal rapporto tra due grandezze (come il tasso di natalità)
4) Misura
dell’interesse e dello sconto in un periodo determinato (ahimè,
chi ha un mutuo in corso, sa di cosa parlo!)
5) Incudine
quadrata, usata dai fabbri per lavorare il metallo: udendo
ad or ad or fracasso Di ferro ... e il maglio rimbombar
sul tasso (Primi
poemetti, G. Pascoli)
6) E, dulcis in
fundo, Torquato Tasso (Poeta scrittore e drammaturgo 1544-1595)
Se a tal
proposito vi racconTassi una
storia?
Storia di
omografi tassi (figuraccia
del giorno n.2)
Quando
ero ragazzo, il nonno era il vecchio fabbro del paese. Allora, nel
suo giardino c’era (e c’è tuttora) quello che era il mio
rifugio: la casa sull’albero costruita da mio padre su un enorme e
frondoso tasso.
Il
giorno in cui vidi per l’ultima volta il giardino del mio adorato
vecchio, notai con divertimento che sotto l’albero, un tasso aveva
fatto la sua tana. Pochi giorni prima avevo letto sul giornale che
quell’anno, il tasso di mortalità di questi mammiferi era molto
alto, così come stava diventando troppo alto per me, il tasso
d’interesse sul mio appartamento, tanto che pensai, sarei morto di
fame prima di diventarne proprietario a tutti gli effetti. La
gestione del denaro doveva essere un problema di famiglia, giacché,
l’abitazione del nonno, era finita all’asta per pagare i suoi
debiti.
Il
giorno in cui andai a dire addio alla sua vecchia casa, rimuginavo su
tutte queste cose, e, più precisamente, rimuginavo mentre i miei
piedi (come se vivessero di vita propria) scendevano le scale
portandomi a piano terra in una stanza buia e polverosa, dove, da una
piccola finestra, ci si poteva affacciare sul sempreverde. Era la
vecchia bottega del nonno. Sul tavolo da lavoro mi attendeva la sua
eredità: il pesante tasso. Senza quasi rendermene conto, presi il
martello posato sul bancone e cominciai a battere una lastra di ferro
trovata tra le lamiere accatastate in un angolo. L’idea assurda,
era quella di forgiare un’insegna da posare sulla mia tomba, o,
ancora più assurda, sulle piccole lapidi dei tassi defunti in
giardino. Stordito dal dolore e dal rumore del tempo scandito dai
colpi sul metallo, a ogni schianto sentivo come una eco lontana e
cara, la voce del nonno, che continuava (come quando ero bambino) a
recitare Torquato Tasso: “Perdona a l'alme ormai di luce prive: non
dée guerra co' morti aver chi vive.
Invece,
le parole omografe non
omofone sono quelle le coppie di
parole omonime che hanno l'accento
tonico in diverse posizioni. Pare
che la faccenda pare si complichi, in realtà è molto semplice,
pensiamo per esempio ad àncora e
ancòra,
prìncipi e princìpi,
còmpito e compìto.
Omografe
non omofone sono anche le parole che cambiano significato mutando il
suono della vocale, cambiando cioè l’accento
fonico, come ad esempio vènti
(e aperta, plurale di vento) e vénti
(e chiusa, numero), pèsca (e
aperta, frutto)
e pésca (e chiusa, verbo pescare).
In entrambi questi casi, abbiamo un’omonimia imperfetta.
Perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto.
(Dante, Paradiso canto III)
Gli accenti sono
importanti. Dobbiamo stare attenti. Potremmo per esempio essere
fraintesi discutendo, senza usare il giusto accento fonico dicessimo:
È ora di far
basta! Accettalo!
Accèttalo:
imperativo del verbo accèttare, consentire ad accogliere, a ricevere
quanto viene offerto o proposto.
Accéttalo:
imperativo del verbo accéttare, recidere violentemente con
l’accétta.
Vi saluto con la
terza e ultima figuraccia del giorno:
Colgo
e porgo
ciò
che posseggo.
Passeggio
in questo campo
e
sarà un lampo
l’attesa
d’un tempo
che
non mi troverà arresa.
Annalisa
Mercurio
È suonata la
campana! Alla prossima!
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