L'avvocato è stanco (nature boy)
Il colloquio col giudice era stato stimolante e proficuo. Avevo usato ogni arma a mia disposizione per far passare come sostenibile quell'assurda mia linea difensiva.
E, dallo sguardo che la dottoressa aveva posato nei miei occhi, avevo intuito che un qualche barlume di dubbio ero riuscito a seminarlo.
Ma lei continuava a guardarmi, anche quando avevo smesso di parlare.
Uno sguardo enigmatico, di chi ne ha viste tante, forse troppe.
Solo i giudici, anzi solo i migliori tra loro, sanno tenere quello sguardo.
E io, nonostante i miei trent'anni di arti marziali, i miei discorsi sullo sguardo del samurai e sulla capacità di chiudere gli occhi quando necessita, mi ero sentito nudo e inerme di fronte ai suoi occhi. Mi ero limitato a tacere, guardandola come un bimbo guarda una mamma arrabbiata dopo aver commesso qualche marachella.
"Avvocato, ho capito", aveva detto, "e le prometto di valutare con attenzione le sue parole. Non tema. Ci sono ancora dei punti che devo chiarirmi ma il suo discorso sulla inesistenza del fatto non è privo di fondamento. Ne possiamo riparlare a settembre qualche giorno prima dell'udienza, le dispiace?"
“Ora però esco dal mio ruolo, avvocato, e le dico una cosa che forse non dovrei dirle”, aveva aggiunto, “d'altronde ci conosciamo da qualche tempo ormai e sono certo che lei capirà perché lo faccio”.
“Mi dica, mi dica pure senza remore”, avevo risposto titubante ma incuriosito.
“Lei è stanco avvocato, molto stanco, lo vedo nel suo sguardo”.
Dopo averla ringraziata per l'attenzione e borbottato qualche assurda parola di spiegazione mi ero alzato per andare via. Mentre aprivo la porta mi aveva raggiunto un'ultima frase “Si prenda cura di se stesso. Al Tribunale dei Minori abbiamo bisogno di gente come lei”.
Mi ero girato col desiderio di abbracciarla, di abbracciare la sua immensità.
“Grazie davvero, dottoressa; certe cose a volte bisogna sentirsele dire”, erano state invece le uniche stentate parole che ero riuscito a dirle.
Tornando verso lo studio pensavo tra me e me che la dottoressa aveva ragione.
Sono stanco, profondamente stanco. E più cerco di nasconderlo a me stesso, più la gente attorno a me lo percepisce.
Sono stanco di assistere alle rovine autolesioniste di adolescenti incapaci di raccogliere la mano d'aiuto loro tesa; sono stanco delle parole dei Pubblici Ministeri privi di quell'empatia minima che il loro ruolo istituzionale richiede. Stanco della mia voce nasale spesso inadatta a dire ciò che andrebbe detto e tacere ciò che andrebbe taciuto. Stanco dei miei limiti umani.
Stanco di percepire l'indicibile accanto a me a ogni passo e di cercare di dargli una forma nella parola, sapendo che, moderno e ridicolo cavaliere della Mancia, l'esito sarà sempre e solo uno: il fallimento.
E poi stanco dei silenzi che pesano e delle parole che ti sfuggono di mano come granelli di sabbia. Stanco di dovermi chinare ogni giorno a raccogliere frammenti miei e altrui cercando (testa dura che ho, maledizione) di ricostruirne il puzzle. Perché, stupido che sono, io aspiro alla completezza e all'armonia e sono stanco di non saper accettare il caos. Stanco di ricordare con amore le parole e la presenza di un Maestro che rimpiango in ogni istante, sapendo di essere del tutto inadatto a quelle altezze.
“L'avvocato è stanco”, dicevo tra me e me, “il samurai ha rotto la spada e se chiude gli occhi è per non vedere più”. “Ho scavato troppo a lungo la terra con le mani cercando delle gemme: mi sono scorticato la pelle e le nocche. Sono stanco e sporco e pieno ferite urticanti”
Solo una piccola folata di vento caldo aveva risposto a quel mio sfogo interiore.
Tornato in studio avevo acceso il computer e, come sempre, messo della musica.
Una playlist che uso solo in momenti particolari, quando sento la necessità di raccogliere i miei cocci. Una playlist che non perdona, come mai perdona la voce di Nina Simone se canta Nature Boy.
Gli occhi chiusi, velati di lacrime calde e salate che parevano rivoli di sangue, pensavo tra me e me (anzi tra me e lui) desiderando di non pensare più.
“Tranquillo, nature boy”, dissi poi tra me e me, “domani saprai dare nuovamente spazio alla tua voce. Ora riposa, e lascia che sia. È solo un'onda, calda e rilassante. Piangi e non aprire gli occhi per lungo tempo. Sei lo stesso di sempre eppure diverso. Hai gli strumenti per riforgiare i frammenti della tua spada. Li hai tutti. Ma ora piangi e riposa. Verrà il tempo”.
Mi ero girato col desiderio di abbracciarla, di abbracciare la sua immensità.
“Grazie davvero, dottoressa; certe cose a volte bisogna sentirsele dire”, erano state invece le uniche stentate parole che ero riuscito a dirle.
Tornando verso lo studio pensavo tra me e me che la dottoressa aveva ragione.
Sono stanco, profondamente stanco. E più cerco di nasconderlo a me stesso, più la gente attorno a me lo percepisce.
Sono stanco di assistere alle rovine autolesioniste di adolescenti incapaci di raccogliere la mano d'aiuto loro tesa; sono stanco delle parole dei Pubblici Ministeri privi di quell'empatia minima che il loro ruolo istituzionale richiede. Stanco della mia voce nasale spesso inadatta a dire ciò che andrebbe detto e tacere ciò che andrebbe taciuto. Stanco dei miei limiti umani.
Stanco di percepire l'indicibile accanto a me a ogni passo e di cercare di dargli una forma nella parola, sapendo che, moderno e ridicolo cavaliere della Mancia, l'esito sarà sempre e solo uno: il fallimento.
E poi stanco dei silenzi che pesano e delle parole che ti sfuggono di mano come granelli di sabbia. Stanco di dovermi chinare ogni giorno a raccogliere frammenti miei e altrui cercando (testa dura che ho, maledizione) di ricostruirne il puzzle. Perché, stupido che sono, io aspiro alla completezza e all'armonia e sono stanco di non saper accettare il caos. Stanco di ricordare con amore le parole e la presenza di un Maestro che rimpiango in ogni istante, sapendo di essere del tutto inadatto a quelle altezze.
“L'avvocato è stanco”, dicevo tra me e me, “il samurai ha rotto la spada e se chiude gli occhi è per non vedere più”. “Ho scavato troppo a lungo la terra con le mani cercando delle gemme: mi sono scorticato la pelle e le nocche. Sono stanco e sporco e pieno ferite urticanti”
Solo una piccola folata di vento caldo aveva risposto a quel mio sfogo interiore.
Tornato in studio avevo acceso il computer e, come sempre, messo della musica.
Una playlist che uso solo in momenti particolari, quando sento la necessità di raccogliere i miei cocci. Una playlist che non perdona, come mai perdona la voce di Nina Simone se canta Nature Boy.
Gli occhi chiusi, velati di lacrime calde e salate che parevano rivoli di sangue, pensavo tra me e me (anzi tra me e lui) desiderando di non pensare più.
“Tranquillo, nature boy”, dissi poi tra me e me, “domani saprai dare nuovamente spazio alla tua voce. Ora riposa, e lascia che sia. È solo un'onda, calda e rilassante. Piangi e non aprire gli occhi per lungo tempo. Sei lo stesso di sempre eppure diverso. Hai gli strumenti per riforgiare i frammenti della tua spada. Li hai tutti. Ma ora piangi e riposa. Verrà il tempo”.
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