Strange fruit



Scrivere racconti accompagnandosi a degli standard jazz è un'impresa titanica. Uno sforzo disumano che ti strappa gli occhi dalle orbite.
Bisogna saper armonizzare le parole con la musica, diminuire di mezzo tono, almeno, il suono dello scritto, perché non si sovrapponga al testo del brano, aggiungere i contenuti del racconto poco alla volta perché seguano vie sottili e non rompano l'armonia musicale ma la rafforzino.

Tessiture da alchimisti, da chi si diletta a immaginare che battere sulla tastiera del computer sia come suonare il pianoforte. Viola questo lo sapeva bene. Ne aveva già scritti più di trenta. Si accese una sigaretta. Fumare affacciati alla finestra, nell'afa notturna di un luglio milanese ti porta veloce verso atmosfere jazz.

“Forse ho sbagliato”, pensò, “dovrei chiamarlo”.

Chiuse immediatamente gli occhi. Lo faceva sempre quando voleva scacciare una sensazione sgradevole. Spense la sigaretta mentre la Simone lasciava cadere lenta come un foglia morta la sua voce disarmante sulle parole “twisted mouth”.
“Certo, Billy è un'interprete spettacolare”, pensò, “ma Nina in Strange fruit è insuperabile”.
Chiuse gli occhi di nuovo.

Viola, le parole a volte sono soffi nel vento. Se proprio vuoi giudicarmi, guardarmi negli occhi”, le aveva detto.
"Here is a strange and bitter crop" ,mormorava la Simone e Viola continuava a tenere gli occhi chiusi.

“Parole appese, sanguinanti, senza vita, con le radici coperte di sangue”, pensò rabbiosa.
Chiuse gli occhi di nuovo. Faceva male, troppo male. “Io con le parole ci lavoro, sono il mio sostentamento”. Gli aveva risposto. Lui l'aveva guardata a lungo. Uno sguardo indecifrabile. Poi, senza dire nulla, si era alzato e era uscito. In gola le era rimasto un nodo antico, una smorfia che le faceva contorcere la bocca.

“Nina è così commovente nel suo pronunciare sweet and fresh”, pensò chiudendo di nuovo gli occhi. La notte milanese sembrava schiacciare tutto in un senso di vuoto ovattato. In lontananza un ubriaco cantava in una lingua a lei sconosciuta, sicuramente dell'est. A quell'ora passavano poche macchine.
Si sedette di nuovo davanti al computer. Chiuse il file del racconto e aprì sull'elaboratore di testi un nuovo file. Lo aveva fatto milioni di volte: Parole come balsami, come nenie antiche che rassicurano. Parole immense, eppure piccole, capaci di lenire le sue ferite. Parole come baci sensuali tra amanti. Parole che elevano l'esistenza a Vita. Le aveva usate da sempre come un caldo maglione islandese da indossare nelle notti di gelo, scrivendole di getto, senza pensare a altro che al pianoforte immaginario che le sembrava di suonare ogni volta che si abbandonava al flusso della sua scrittura improvvisata con la maestria di un jazzista. Parole pizzicate con la genialità di Segovia, vibrate come un violoncello. Scale musicali, intervalli, accordi, fatti di lettere e suoni che ti lasciano spossati come dopo una notte d'amore.

“No Dani”, pensava mentre le sue dita leggere sembravano suonare sulla tastiera del computer la partita numero due di Bach, “nessuno sguardo può contenere il valore di una parola, di una lettera.”

Poi, chiudendo ancora una volta gli occhi, si ricordò di come lui l'aveva guardata la prima volta, come se l'avesse conosciuta da sempre, silenzioso e teso come ragazzino al primo appuntamento.
Tienili chiusi ancora, si disse, ancora qualche secondo. Fa male, fa troppo male.

"Here is a strange and bitter crop" - cantava Nina e sembrava che su quel verso il cielo si chiudesse su se stesso. Nemmeno più l'ubriaco dell'est si sentiva cantare. Silenzio. Viola immobile, gli occhi chiusi, le mani appoggiate sulla tastiera senza più scrivere.
"Tienili chiusi ancora", ripeteva a se stessa, "passerà come tutte le altre volte".

Seduto davanti a lei Dani le sussurrò piano “apri gli occhi, Viola; sono tornato, per restare”.


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