Danza e Bulli


 

Pyotr Ilyich Tchaikovsky - Swan Lake (Hauser · London Symphony Orchestra · Robert Ziegler)


“Credi di aver danzato sinora?

Invece hai girato su te stesso, costretto come una vite in un tassello.

E scambiato i limiti del muro per il tuo palcoscenico e le polveri dei calcinacci per plausi.

Hai scambiato per Danza la più antica delle schiavitù.”



Il ragazzo non capiva e si perdeva nello sguardo duro del maestro.

Dopotutto non era sempre stato lui il più bravo della classe?

Ogni ruolo principale gli era sempre stato assegnato e le critiche sui giornali del settore erano sempre state entusiaste.



“Ho avuto un allievo tanti anni fa”, continuava il maestro, “lui sì che danzava. Lui il muro sapeva cos'era, e lo sgretolava coi suoi passetti da pulcino e lo sguardo perso nell'orizzonte.

Tu sei una vite cromata, grossa e lucente, ma nel muro ci entri troppo volentieri.

Ti ci adegui come se fosse un palazzo dorato e tu il Re.

E, così facendo, ti trovi poi bloccato al muro, costretto a sostenere pesi, invece di volare alto.

Il mio allievo era una vitina minuscola, arrugginita, incapace di sostenere niente.

Nemmeno se stesso.

Eppure, mentre danzava, rideva, rideva forte, e allargava il buco del muro, millimetro dopo millimetro.

Non c'erano plausi per lui.

Solo Danza e un buco che si allarga.

Non hai più nulla da imparare da me. Vattene.”



Io, invitato speciale a quelle prove, assistevo a quella straziante scena in silenzio, ammutolito.

E il mio sguardo andava al ragazzo, al maestro, a me stesso. Poi si posava sul muro.



“Esecuzione perfetta! (Bene, bravo, bis) Ora puoi infilarti nel muro e starci per sempre”, insisteva il maestro ad ogni tentativo del ragazzo di cambiare passo.



Il ragazzo cercava di fare l'impossibile; volava alto, alto, che sembrava non tornare mai giù.

Poi alzava uno sguardo rigato di lacrime al cielo. Non capiva.



Io sì, però. Capivo. E il mio sguardo andava a terra, per compensare quello del ragazzo.

Le lacrime però erano le stesse. E vedevo un giovane adolescente con una penna in mano.

Lo vedevo, vitina arrugginita, scrivere i suoi primi pensieri.

Pieni di rabbia; non ancora sostenuti dalla forza della vita.

E sentivo quei pensierini fare cric cric nel muro dei silenzi della sua famiglia.

Non era un martello pneumatico la penna in mano a quel ragazzo.

Era una limetta per unghie, con cui grattava lento e inesorabile un muro di cemento.



Il ragazzo volava alto, sempre più alto, e il maestro lo derideva, gli girava le spalle e, più i movimenti del ragazzo si avvicinavano alla perfezione, più il maestro lo guardava con sdegno.



Mi mettevo le mani sul volto e ricordavo quella frase sul foglio bianco.

“Mi vogliono soffocare col silenzio. E io voglio vivere”.

Un limetta per unghie di tredici anni contro un muro di cemento duro.



Il ragazzo fece un salto avvitato, sembrava sollevarsi metri dal terreno e toccare le nuvole.

Arrivato all'apice del balzo in aria sentì la voce del maestro urlare: “Cadi, per Dio, cadi ora a terra!”

I suoi piedi persero l'appoggio e si trovò rovinosamente a terra.



Gli istanti che impiegò a rialzarsi, sembravano ere geologiche.

Il maestro osservava ogni suo movimento.

L'appoggio delle mani sul terreno, i singulti della schiena, le spalle forti pulsanti di rabbia.

Era in piedi e guardava il maestro dritto negli occhi.

Le sue pupille erano due vitine arrugginite nelle sue orbite.



Io li guardavo e vedevo un quindicenne con la cartella sulla schiena guardare dritto negli occhi quei tre bulli. I “suoi” bulli.

“Vai a casetta, sporco ebreo”, gli dicevano da mesi ogni giorno sulla via del ritorno a casa.

E a casa c'era il muro, queste cose non si potevano raccontare.

“Con quello che abbiamo vissuto noi alla tua età, cosa ci vieni a scocciare con queste cose”, avrebbero risposto.

Lo vedevo appoggiare la cartella a terra, due vitine arrugginite negli occhi, e colpire con tutta la forza che aveva il naso del più grosso e sporcarsi le mani del suo sangue.

E vedevo i bulli scappare via impauriti e scomparire per sempre.

E vedevo il ragazzo tornare a casa e lavarsi le mani di nascosto, che a casa c'era il muro e certe cose non si potevano raccontare.

“Un ebreo non usa la violenza per difendersi. Hai sbagliato.”, avrebbero detto.

Ma lui aveva visto un gran pezzo di muro cadere in quel momento e le vitine tornare silenziose al loro posto nelle pupille.



“Finalmente!”, diceva il maestro mentre il mio ricordo si diluiva e io tornavo al presente.

“Vai a casa, domani ci sono le prove generali”.
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