La danza del pugile
Abbasso la guardia, ancora una volta, e lo prendo in pieno volto.
E cado a terra col pubblico che grida e il viso preoccupato dell'arbitro a pochi centimetri dal mio.
Conta fino a dieci. Urla. Ma dieci cosa?
Non sono certo secondi quelli che scorrono lenti tra i miei occhi gonfi.
Uno, due , tre.
Nemmeno il tempo di capire dove sono. Respirare mi fa male.
Erano tre i fratelli maschi che mi hanno portato via.
E danzo sul ring e picchio forte il sacco per dimenticare, per perdonarmi di essere sopravvissuto, io, il più piccolo, unico nella mia famiglia, a quello scempio.
E certo che ho dovuto imparare a danzare, e non so se sia più difficile schivare i montanti di Jo, il mio istruttore, o i ricordi.
So che muovo i piedi leggero come un danzatore classico e la gente in palestra si ferma a guardarmi estasiata.
Ma, se il nome dei miei fratelli compare da qualche angolo della mia mente, mi fermo abbasso la guardia e guardo Jo. Vorrei che mi colpisse in mezzo al viso, che mi fracassasse il cranio. Vorrei non esistere più.
Jo mi guarda, con il suo sguardo all'ingiù, da cane bastonato.
“Ancora loro, vero, Ruben?” dice.
“Alza la guardia e picchia. Vendicali. Li ho uccisi io. Picchia”.
Allora il mio sguardo si inietta di sangue e danzo, un passo indietro e uno in avanti. Pugno d'incontro. Jo schiva. Appoggio il peso sulla gamba anteriore e il primo diretto va a segno, poi il secondo, poi il terzo. Poi con una torsione del busto comincio a portare una serie di montanti al corpo che nemmeno il campione del mondo sarebbe stato capace di concludere.
“Fermati Ruben”, urlano da fuori il ring “lo stai massacrando, fermati”.
“Non ascoltarli”, dice Jo, “li ho uccisi io quei tre sporchi ebrei dei tuoi fratelli. Vendicali”.
Allora io danzo. Danzo, danzo. Attorno al corpo di Jo e la granaglia dei miei pugni non ha fine, mentre Jo ride e urla “Bravo Ruben, bravo, solo così ne uscirai. Questa è la tua via”.
Quattro.
Leah mia madre era bella. Una donna di sogno.
L'ultima volta che l'ho vista teneva per mano mia sorella Miriam.
Aveva uno sguardo impaurito in quella fila ordinata e disperata di persone.
Non era la mia fila e non capirò mai perché.
Il cuore è pesante e non bastano le mie costole incrinate a spiegare una cosa simile.
So solo che il nome di mia madre ogni tanto compare tra un gancio e un montante e mi toglie il fiato più di una serie di Monzon al corpo.
Cinque sei sette
Quando ci liberarono pesavo poco più di venti chili.
Venti chili di rabbia.
Poi il ritorno a casa. Vuota. Distrutta.
La gente evitava il mio sguardo. Era lo sguardo di un sopravvissuto. Anzi di un morto vivente, finché non entrai nella palestra di Jo e l'odore del sudore e il tam tam dei colpi sul sacco e delle corde che toccavano il parquet veloci non cominciò a lavorarmi dentro.
Jo mi mise a pulire il ring e mi nutrì. La sera dormivo in palestra e alle cinque di mattino, quando ancora era vuota, cercavo di imitare ciò che avevo visto fare dai campioni che la frequentavano.
Fu così che imparai a danzare. Solo. Di notte. I miei piedi volavano leggeri.
Otto
Appoggio i pugni a terra e mi alzo. L'arbitro mi guarda preoccupato.
Perdo troppo sangue dal ciglio destro e ho due costole rotte. Sta per alzare la mano e interrompere l'incontro.
Bully, il mio avversario, scuote la testa mentre urlo: “noooo posso continuare, devo continuare”.
L'incontro riprende.
Bully incalza. Jo urla. “Vendicali, danza attorno al tuo dolore, Ruben, ce la puoi fare”.
Il diretto di Bully va a vuoto.
Sono già altrove. Sono stato per tre anni nel più terribile degli altrove. E sono tornato.
Per vendicarmi.
Bully riprova con un gancio.
Paro. Un montante. Incasso e le costole si incrinano di più. Bully attacca.
Io schivo, paro, incontro e danzo, sopratutto danzo.
Come si danzava ai matrimoni prima della grande tragedia e mio padre sudato e felice, benedetto uomo, mi diceva: “dai Ruben, non essere timido. La vita è danza. La vita è danza.
L'ultima volta che l'ho visto dal reticolato andare verso le docce si è girato verso di me e ha annuito e, senza emettere suono, ha detto “danza”.
E io ho danzato in mezzo all'orrore per sopravvivere, e ho danzato dopo l'orrore per dirmi vivo e ora danzo su questo ring (col volto che è una maschera di sangue) per … non lo so nemmeno io perché, ma danzo.
Bully prova col diretto destro, ma si scopre. E io danzo dentro quel varco e mi spiace, Bully, ma devo farlo.
I miei ganci, i miei montanti pesano. Pesano sei milioni di volte venti chili di rabbia.
E fanno male, lo so Bully.
Tu non c'entri.
Ma io devo vivere, danzando attorno a questo mio dolore, fino al mio ultimo respiro.
Quando vai a terra Bully ti invidio. Vorrei perderli io i sensi al posto tuo. Vorrei perdere questa straziante ricerca di senso.
Sono Ruben, il danzatore del ring, e non posso smettere di danzare perché sotto i miei piedi c'è un abisso, un vortice che risucchia per sempre.
Il pubblico grida. Io vedo pigiami a strisce e non capisco.
Non capisco nemmeno la mano di Jo sulla mia spalla, né perché piange mentre mi chiama “figlio mio”, e mi dice “vieni, andiamo via di qui”.
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