Simmetrie
Seduto, la schiena dritta, solo al tavolo, tace.
La simmetria delle sue posate trasmette un senso di immutabilità o di disturbo possibile.
Nessun gesto di nutrimento può avvenire senza che quella simmetria venga interrotta, spezzata, distrutta.
Il bicchiere di vino rosso, non viene toccato e il suo livello di riempimento corrisponde esattamente ad un terzo di quello della caraffa d'acqua frizzante al suo fianco.
Guarda nel vuoto.
Pensa? Ricorda? Progetta? Non so dire.
La simmetria dei suoi silenzi non può essere spezzata da una interpretazione esterna.
Semplicemente tace e, forse, ricava, da quel silenzio il senso profondo del suo vivere.
Il vociare del locale – ne sono certo – non è per lui di nessun disturbo.
Sono su un altro piano le sue riflessioni. Un piano inclinato, obliquo, ruvido e tenace.
Lui ci si aggrappa, come lo scalatore su una parte verticale quasi liscia, approfittando di ogni minima asperità del muro per tenersi nel vuoto.
Per non cadere nell'abisso che, da sotto, lo richiama.
Lento, prende la forchetta in mano. Un gesto studiato, anche nel suo ritmo. Calcolato. Maniacale.
Mescola la pasta perché il sugo si amalgami meglio ai maccheroni.
Il coltello sulla destra del piatto è dritto e verticale che sembra una sentinella di piombo.
Uno di quei giocattoli che a fine ottocento erano il sogno di tutti i bambini.
Lui lo guarda, quasi fosse un generale che passa in rassegna le sue armate.
Con finta nonchalance, ma sotto un giudizio severo, irreprensibile, irrevocabile.
“Bravo soldato”, sembra dirgli. “Hai lucidato bene i bottoni della divisa e la canna del tuo fucile”.
E poi mastica lentamente, boccone dopo boccone, la sua pasta.
Sempre la stessa. Sempre con la stessa salsa.
Vorrei avvicinarmi a lui, cercare d'iniziare una conversazione.
Ma ci sono simmetrie che vanno rispettate.
Simmetrie che una parola esterna spezza.
Allora resto spettatore dei suoi gesti lenti, e di quello spettacolo che, sicuramente senza saperlo, sta inscenando.
La parola – è vero - prima di creare spezza. Sempre.
O quantomeno si divide, per quasi osmosi, in due entità.
La parola emessa, con tutte le sue intenzioni e carichi di non detti.
E quella percepita, con tutte le sue impurità creative.
La parola spezza ogni simmetria. Sempre.
E nel varco che crea tra il detto e il percepito deposita ogni significato possibile.
La parola, sempre, è tutto (ma tutto davvero) meno che simmetrica.
È l'invasione – o l'emersione - di ogni significato possibile nella simmetria del silenzio.
Per questo taccio e osservo, e lui tace e mangia.
Verbo, congiunzione, verbo - Verbo, congiunzione, verbo.
Silenzio su silenzio, silenzio contro silenzio, silenzio per il silenzio.
Vedrete voi in che relazione mettere i nostri silenzi.
La relazione non appartiene mai a chi de-scrive, appartiene alle persone libere.
Ai lettori liberi di libri.
Lo scrittore è schiavo. Sempre. Magari schiavo felice, ma mai libero.
Prende il bicchiere di vino. Lo guarda.
Beve due sorsi esatti, misurati, con la precisione di un chimico quando mette un pericoloso solvente in una fumosa provetta.
Si ha l'impressione che un sorso di vino in più a questo turno e l'intero locale possa esplodere.
E infatti, due - e solo due - sono i sorsi di vino che beve.
Poi posa il bicchiere esattamente dove si trovava prima.
Lo guarda, sempre con lo sguardo del generale in rassegna delle milizie.
Si pulisce la bocca col fazzoletto. Si gira nella mia direzione. Mi guarda.
Non c'è nessuna intenzione in quello sguardo.
Mi guarda come si guarda fuori dalla finestra al mattino, appena svegli.
Senza volontà, senza giudizio. Senza intervento.
Ricambio il suo sguardo.
Lo sguardo (il mio) di uno scrittore, di un affabulatore, d'un prestidigitatore della parola, d'un inventore di storie.
Due sguardi opposti i nostri, uniti forse solamente dal silenzio e dal rispetto.
Se c'è una simmetria tra i nostri sguardi, un equilibrio invincibile, è data da una nostra opposta polarizzazione.
Siamo il più e il meno di un magnete, e ne siamo coscienti.
Ci guardiamo in modo neutro (o neutralizzato dall'altro), attratti reciprocamente dalle nostre opposte nature.
Tutto resta fermo. Perché nulla deve o può mutare.
“Vorrebbe raccontare la mia storia lei?”, mi chiede.
“Vorrebbe che la raccontassi?”, rispondo all'ebraica (con una domanda).
Si crea un altro silenzio potente e simpatico tra di noi.
Un silenzio che nessuno spezza.
E dura, come dura da sempre la seduzione più antica.
Il gioco uterino (e fallico) che unisce un personaggio a chi ne descrive il respiro.
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