Sbagli
"Sali o scendi?" foto di Sergio Daniele Donati |
Ciò che nasce storto non si raddrizza certo solo perché un raggio di sole lo illumina.
Questo pensava mentre aspettava l'autobus alla fermata.
E di tutte le sensazioni di rinascita della sera prima non rimanevano che tracce mendaci.
Del vuoto che si colma, del vaso - da sempre crepato - che trattiene finalmente liquidi d'oro, e si colora di nuova vita non restavano che cocci e teste; a terra.
Ciò che nasce storto non si raddrizza certo perché un raggio di sole lo illumina.
E i suoni ovattati della città, le risate dei bambini per strada, i colori e i profumi di una Milano dalla bellezza crudele, che in altri momenti gli avevano riempito di senso la vita, diventavano opachi e grigi.
Nulla – ma nulla davvero – lo distoglieva da quel pensiero.
La pelle, maledetta pelle, trattiene odori estranei e li mescola ai propri desideri.
La sua pelle era ormai l'unica testimone di una notte di oblio, in cui tutto sembrava poter prendere un nuovo corso.
Cadiamo come angeli e ci rompiamo le ossa sull'asfalto, pensava quasi senza emozione.
Perché non c'è emozione in un volto che scolora; il telefono ancora in mano, e quel dono ormai inutile in tasca.
Non c'è emozione nel sogno che di colpo svanisce.
Non c'è emozione in una voce amata, che ti aspetti calda e accogliente e ancora profumata d'amore, quando ti dice l'indicibile (l'irricevibile, il troppo che esonda).
"Ma hai capito cosa sto dicendo?", gli aveva chiesto dall'altra parte della città (del mondo, della galassia), senza che l'occhio che abbandona si posasse su quello che lacrima.
Glielo diceva evitando che il respiro affannoso di chi parla si mescolasse con quello di chi crolla.
Glielo diceva di là, dall'altra parte dell'etere, come se un addio senza pelle avesse meno peso.
Nemmeno il coraggio di guardare negli occhi Ettore che cade, piè veloce?, aveva pensato lui mentre chiudeva il telefono.
Era restato immobile col telefono in mano e un dono, scelto con cura per chi non avrebbe mai potuto riceverlo, in tasca.
E, mentre si aprivano varchi e solchi nella sua mente, inadatta a coprire di veli sacri quello strazio, mentre franavano massi dai suoi crinali e la bocca si chiudeva e gli occhi entravano nel sogno opaco, per non vedere, la mendicante gli aveva chiesto qualche spicciolo.
Si era messo la mano in tasca senza trovare monete, solo un pacchetto che gli bruciava i palmi delle mani.
“Tienili”, aveva detto, “questi orecchini staranno divinamente sul tuo viso”.
“Tienili”, aveva detto, “questi orecchini staranno divinamente sul tuo viso”.
La mendicante lo guardava in silenzio, gli occhi color smeraldo.
Un dialogo silenzioso tra due dolori; tra due vite fracassate sugli asfalti milanesi.
“Non li hai presi per me”, aveva risposto lei, “Sbagli a darmeli, non li voglio.”.
“Abbine cura”, le diceva, “sono molto più preziosi di quanto li ho pagati”.
“Sbagli”, ripeteva lei con accento slavo o albanese.
“Sì, io sbaglio”, aveva sussurrato, “sbaglio sempre. Ma questa è la miglior cosa che posso fare, ora”.
Se ne era andato poi, senza altro aggiungere, strascicando i piedi come chi sa che non ci sarebbe stato nessun Priamo a reclamare la sua salma.
Un dialogo silenzioso tra due dolori; tra due vite fracassate sugli asfalti milanesi.
“Non li hai presi per me”, aveva risposto lei, “Sbagli a darmeli, non li voglio.”.
“Abbine cura”, le diceva, “sono molto più preziosi di quanto li ho pagati”.
“Sbagli”, ripeteva lei con accento slavo o albanese.
“Sì, io sbaglio”, aveva sussurrato, “sbaglio sempre. Ma questa è la miglior cosa che posso fare, ora”.
Se ne era andato poi, senza altro aggiungere, strascicando i piedi come chi sa che non ci sarebbe stato nessun Priamo a reclamare la sua salma.
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