Alef-Bet e Perdono - Ayin (ע) e Pe (פ)
Foto di Sergio Daniele Donati |
Se rivolgiamo uno sguardo adulto al mondo ( soprattutto delle relazioni ) il primo elemento che risalta, luminoso e terrificante, è la sua imperfezione.
Le sue crepe e intoppi e faglie sono così grandi che il solo osservarle rischia di farci cadere in un abisso senza fondo.
Ma qualcuno ci ha donato un occhio mobile e un cervello capace di rielaborazione.
E allora la seconda cosa che notiamo del mondo (sopratutto delle relazioni) è la sua tenuta.
Faglie e crepe e varchi profondi come ferite non impediscono all'uomo di continuare a trasmettere speranza.
Se ci avessero donato occhi e bocca (le Ayin ע e le Pe פ dell'alfabeto ebraico) solo per descrivere il mondo come è, ci sarebbe bastata una vista monoculare, da ciclopi.
E la nostra funzione nel mondo sarebbe stata ben triste.
Scribacchini, magari eruditi e colti, del limite, nostro e dei nostri simili.
Nella tradizione ebraica l'uomo non crea, ma gli è data la facoltà di nominare le cose e soprattutto di trasformazione.
E gli sono stati dati due occhi (altre tradizioni parlano anche del terzo) perché ogni visione profonda deve contemplare il mondo per come è ma anche per come dovrebbe e potrebbe essere.
È il superuomo nietzschiano, che considera l'umano un "troppo".
È, ancora una volta, il superuomo nazista che, tempo dopo il filosofo coi baffoni, considera la vita altrui un troppo e i suoi limiti un intoppo alla evoluzione della razza.
Allo stesso tempo, secondo molte tradizioni di pensiero: l'uomo che non percepisce nei suoi limiti il terreno fertile della sua crescita non ha visione.
È un essere costretto da una visione monoculare, incapace di evoluzione proprio perché, come Polifemo, incapace di cogliere l'elemento creativo dell'intoppo della parola.
"Qual è il tuo nome?", chiede a Odisseo.
"Nessuno", risponde Odisseo.
E Nessuno diventa per Polifemo la trappola in cui cede il passo alla visione di Ulisse, capace (lui sì) di trarre dal limite espressivo l'elemento di liberazione.
Abbiamo bisogno di due occhi per vedere le cose come sono e come potrebbero divenire.
E ogni giorno la nostra vita ci pone davanti alla sfida tra Polifemo e Odisseo.
La scelta è nostra. Sempre.
Allora la faglia, la crepa, la ferita che certo nessuno di noi vorrebbe vivere, possono divenire un elemento di comprensione profonda dei nostri meccanismi, solo se sappiamo vestire i panni del sovrano di Itaca.
Altrimenti rischiamo di rimanere schiavi di una visione limitata, di una descrizione dell'esistente come se fosse eterno e come se fosse impossibile accedere a ciò che la filosofia ebraica pone al centro del suo pensiero: la rimediazione, l'emendazione.
Questo percorso, possibile e sacro nel pensiero ebraico, è scritto in binomio centrale dello Alef-Bet.
La coppia di lettere Ayin (ע) e Pe (פ), che si susseguono nello Alef Bet ci parla del corretto rapporto col limite, nostro, di visione e parola.
ע (Ayin) significa occhio in ebraico ed anche graficamente la lettera rappresenta due occhi uniti dai nervi ottici (o canali lacrimali secondo altri).
פ (Pe) significa in ebraico bocca, e la lettera graficamente rappresenta una bocca aperta con un dente solo, lo vedete?
La visione di Ayin è in parte strabica. L'occhio davanti (quello a sinistra, nella direzione della narrazione *) guarda in basso verso destra e quello dietro (a destra) guarda in alto e davanti a sé.
Su questo si sono spesi fiumi di ricche interpretazioni da parte di pensatori di eccelso livello; e non sarò certo io poter aggiungere alcunché di nuovo.
Dico solo che questa struttura grafica ci esorta a tener conto del limite della visione.
Dell'inciampo delle nostre interpretazioni del mondo e della vita più in generale, come se fossero elementi costitutivi di una nostra crescita possibile.
Abbiamo bisogno di due occhi (simbolici) per osservare nel profondo i nostri respiri.
Uno che si proietta al passato, che descrive, abbassando il capo in segno di concentrazione e pudore, le faglie e i crinali di cui parlavo sopra.
È l'occhio che ci dice come la nostra vita è, come le nostre ferite sono.
Da che terreno si sono generate.
È l'occhio del ritorno a sé, della presa di coscienza del nostro ruolo nella causazione sia del bene che del male.
L'altro occhio invece ci narra del nostro dovere di integrare questa visone dell'esistente con un progetto di trasformazione.
È l'occhio che, dal passato, guarda al futuro e ci indica il cammino verso lo spirituale (punta a cielo infatti), partendo proprio da quegli inciampi e faglie e ferite.
È l'occhio che ci indica la via della rimediazione al male (nostro e altrui) e riabilitazione del sé attraverso la trasformazione.
Quando queste due visioni si congiungono in modo armonico, solo allora, passiamo alla bocca, a פ.
Diciassettesima lettera dello Alef-Bet, la Pe ci ricorda che la parola di rimediazione, di riparazione non può che seguire un retta visione, un ritorno a sé e una capacità forte di fare del cambiamento un progetto di vita.
Allora (solo allora) possiamo parlare. Ma come deve essere la nostra prima parola?
Dovremmo sempre tener conto che anche la parola ha un limite strutturale, è balbuziente, inciampa...in altri termini è sdentata, inizialmente.
Pe è bocca con un dente solo da lasciar cadere perché, dice la tradizione, torni ad essere Caf כ, la lettera dell'asserzione, dell'atto di presenza a sé.
Allo stesso tempo un dente solo ci ricorda che anche la via della parola ha una sua infanzia; che iniziamo tutti con inciampi e balbuzie il più ricco viaggio dell'Uomo: quello nel linguaggio.
La lallazione e le prime parole sono emesse da bocche infanti con denti caduchi.
E questo, che potrebbe essere visto dal Ciclope come un limite sempiterno, è destinato a trasformarsi in una dentazione forte e radicata.
32 denti come 32 sono i cammini della sapienza della Cabala.
Come i denti trasformano l'alimento in bolo digeribile e nutriente per il nostro corpo, così la parola ci permette di trasformare il veleno in nutrimento, l'indigeribile in assimilabile, se abbiamo visto bene prima.
E il perdono?
Il perdono non è né il fine né la fine di questo percorso.
Tuttavia ne è un frutto molto dolce.
Un percorso, una salita per gradini, una via che si compone di parole in un certo senso sacre.
In elenco stretto: ritorno, osservazione profonda, consapevolezza di ciò che è (stato), progetto di trasformazione, verbalizzazione, limite come luogo di semina, parola, elaborazione, assimilazione, trasformazione.
Non sai perdonare (perdonarti)? Non importa. Davvero non importa.
Ricorda solo che c'è chi ha saputo far crescere erba dal deserto e un alfabeto antico che rende sacro ogni limite e lo trasforma nella parola che eleva.
Non sai perdonare (perdonarti)? Non importa. Davvero. Non importa.
Ricorda solo che hai (abbiamo tutti) cantato per mesi, che sembravano secoli, le nostre lallazioni prima di dire la prima stentata (sdentata) parola.
E siamo tutti caduti milioni di volte cercando di fare il primo passo.
Il mondo è crepato, ha faglie e crinali scoscesi coperti di rocce aguzze ovunque.
Ma tiene, dall'inizio dei tempi; e si (man)tiene su una promessa, una visione di trasformazione, scritta in due delicate lettere di una lingua strana che ci ricorda senza sosta una cosa.
Tutto è come ora è. Tutto allo stesso tempo è già ora come riesci ad immaginare che possa diventare.
Che interessante Sergio. È il tipo di speculazione che più mi attrae. E a proposito delle connessioni della vista monoculare o con i due occhi, ti ricordi quella canzone di Vecchioni:
RispondiElimina" Laggiù conobbi pure un vecchio aedo
Che si accecò per rimaner nel sogno
Con l'occhio azzurro invece ho visto e vedo
Con l'occhio blu mi volto e ti ricordo…"
Secondo me anche lui aveva ragionato sullo stesso materiale speculativo
Quella canzone di Vecchioni che, se ricordo bene, ha titolo "l'ultimo spettacolo", è portatrice , è vero, di simboli che potrebbero essere molto utili allo sviluppo di questo mio piccolo contributo.
EliminaGrazie davvero per avermelo ricordato.