Su "Primo levi e la coscienza poetica" (Elisa Occhipinti - Divergenze ed. 2021) - recensione di Sergio Daniele Donati
Per un ebreo parlare di Shoah è essenzialmente parlare di pelle e viscere; e interrogarsi sul rapporto e sulla possibilità di convivenza tra Shoah e Poesia è interrogarsi su un'ulcerazione profonda.
Elisa Occhipinti nel suo magnifico libro Primo Levi e la coscienza poetica (Divergenze ed. - 2021) è capace di percorrere quei crinali con delicatezza e profondità impareggiabili.
Fa bene l'autrice, ad esempio, a delineare con chiarezza il punto di divergenza tra Levi e Celan sulla possibilità di poetare dopo Auschwitz.
E per me, che del libro di Elisa Occhipinti sono stato appassionato lettore, il cenno a quella questione diviene altro da una mera discettazione accademica.
Per chi scrive, specie se ebreo e specie se scrive poesia, i lager sono un limite, un confine o, quantomeno, sono un luogo di fermata e attesa.
Chi scrive poesia dopo Auschwitz, sa che quel cancello è allo stesso tempo limite e monito alla parola e, soprattutto, richiamo alla ricerca d'una parola altra.
Davanti alla memoria di quei cancelli chi scrive deve abbandonare il suo linguaggio e cercare tra le pieghe dolorose di quella pietra una parola diversa, nuova o, forse, la più antica.
Questo Elisa Occhipinti lo sottende benissimo come benissimo fa a ricordare, ad esempio, quanto la conosciutissima poesia di Levi Shemà si richiami - non solo nel titolo – al ritmo della narrazione biblica.
Shemà in ebraico è un un imperativo: Ascolta.
E Levi lo sa bene, come lo sa chi conosce l'antica battaglia tra sacralità della parola e la barbarie umana.
Poetare è sempre un contro-dire senza contraddire; un richiamare all'ascolto profondo prima della parola, un interrogarsi sulle motivazioni della propria impellenza a dire.
I cancelli dei lager sono il luogo dove questo questionarsi si amplifica, dove ogni orpello e vezzo poetico cade nel fango e la parola cerca vie melmose per riemergere rinnovata: il nuovo inizio che l'autrice rimarca assieme a Levi(?).
Per me che scrivo poesia e sono ebreo, leggere Elisa Occhipinti ha rappresentato un viaggio dentro al mio pennino (sì scrivo ancora a mano con stilografiche).
Ne sono riemerso? Non so dirlo, davvero. So però che è un viaggio per me necessario che ciclicamente si ripresenta, stimolato in questo caso da un testo che è molto più di un bel saggio sulla poetica leviana; molto più davvero.
Il libro poi è corredato della magnifica postfazione di Demetrio Paolin a titolo Il canto di Ulisse: una lettura da vicino.
Se volete un consiglio, leggetela dopo il testo della Occhipinti.
Poi rileggetela prima di rileggere lo stesso testo.
È caporedattrice del sito «Il Club del Libro» e cura il blog letterario «Marginalia».
Fa parte del direttivo della Società Dante Alighieri di Dortmund.
Ha pubblicato il romanzo E lucevan le stelle (Miraggi, 2018).
Per chi scrive, specie se ebreo e specie se scrive poesia, i lager sono un limite, un confine o, quantomeno, sono un luogo di fermata e attesa.
Chi scrive poesia dopo Auschwitz, sa che quel cancello è allo stesso tempo limite e monito alla parola e, soprattutto, richiamo alla ricerca d'una parola altra.
Davanti alla memoria di quei cancelli chi scrive deve abbandonare il suo linguaggio e cercare tra le pieghe dolorose di quella pietra una parola diversa, nuova o, forse, la più antica.
Questo Elisa Occhipinti lo sottende benissimo come benissimo fa a ricordare, ad esempio, quanto la conosciutissima poesia di Levi Shemà si richiami - non solo nel titolo – al ritmo della narrazione biblica.
Shemà in ebraico è un un imperativo: Ascolta.
E Levi lo sa bene, come lo sa chi conosce l'antica battaglia tra sacralità della parola e la barbarie umana.
Poetare è sempre un contro-dire senza contraddire; un richiamare all'ascolto profondo prima della parola, un interrogarsi sulle motivazioni della propria impellenza a dire.
I cancelli dei lager sono il luogo dove questo questionarsi si amplifica, dove ogni orpello e vezzo poetico cade nel fango e la parola cerca vie melmose per riemergere rinnovata: il nuovo inizio che l'autrice rimarca assieme a Levi(?).
Per me che scrivo poesia e sono ebreo, leggere Elisa Occhipinti ha rappresentato un viaggio dentro al mio pennino (sì scrivo ancora a mano con stilografiche).
Ne sono riemerso? Non so dirlo, davvero. So però che è un viaggio per me necessario che ciclicamente si ripresenta, stimolato in questo caso da un testo che è molto più di un bel saggio sulla poetica leviana; molto più davvero.
Il libro poi è corredato della magnifica postfazione di Demetrio Paolin a titolo Il canto di Ulisse: una lettura da vicino.
Se volete un consiglio, leggetela dopo il testo della Occhipinti.
Poi rileggetela prima di rileggere lo stesso testo.
Se c'è qualcosa di tremendamente ebraico è la percezione della circolarità del tempo.
Se c'è qualcosa di terribilmente umano è il futile tentativo di ignorare il tempo.
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Elisa Occhipinti è nata a Torino nel 1988 e vive da diversi anni in Germania.B.A. in italianistica e comparatistica, studia e lavora presso la Ruhr-Universität Bochum. È caporedattrice del sito «Il Club del Libro» e cura il blog letterario «Marginalia».
Fa parte del direttivo della Società Dante Alighieri di Dortmund.
Ha pubblicato il romanzo E lucevan le stelle (Miraggi, 2018).
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