La radice (Silloge dedicata a Isabella Morra di Emanuela Sica)
La silloge che qui si pubblica, dedicata alla figura di Isabella Morra è apparsa nella Antologia Rosso VDG-O, curata dalla stessa autrice, Emanuela Sica.
Tale antologia raccoglie gli scritti di ottanta autrici tra cui Dacia Maraini. La prima parte del libro è di mano di Emanuela Sica, mentre nella seconda sono raccolte poesie, racconti, saggi delle altre autrici.
Nei passi notturni dei timidi sogni, rubati dalle mani della paura
io corro libera dai pesi del giorno.
Come il petalo di una violetta, il mio piè si muove leggero e non affonda.
Nel respiro si abbraccia alle amorevoli stelle, sarte di storie incantate
che mi sottraggono al dolor che m’affligge persecutore.
Mareggiano negli occhi gemme perlescenti
stupore liquefatto nel sentiero della quiete
lacrime filosofali e melodia di inerpicati sospiri.
Mi inebriano le assopite guance, le rosee carezze del primo sole
eppure avviluppata al desiderato dormiveglia
prego che Morfeo mi doni altro smarrimento e soave letizia.
Nei suoi labirinti sono l’aquila che trafigge l’opposto vento
la puledra ostinata che risale serrata la montagna
la libellula a crogiolarsi nella frescura dello stagno
la capinera melodiosa nel purpureo tramonto.
L’anima trova comoda dimora in realtà inumane
appartiene alla selvaggia vita senza padroni.
Ma il bussar feroce della realtà m’inchioda all’umido muro
nel recinto costruito dal mio stesso sangue
torno raminga e limitata al perimetro dell’infelice.
Il mio nome e il suo castigo, nel palmo della mano, scrivo a singhiozzo.
Allora Isabella appare come lucciola
esce di sotterfugio all’alba e nel piccolo specchio d’acqua
che cola dal tetto come goccia di castigo
rimira trasformata il suo profilo.
Sono io quella donna che deglutisce utopie nella bocca orfana di sorrisi
arida di buon vino e affamata di dolcezza.
Acqua putrida e arroganza ho bevuto dai calici di novelli Caini.
Legando pensieri e ricci pettino leggende e poesie senza eco
aspirazioni ricamate nella polvere
di giorni uguali alle finestre cigolanti di solitudine.
La porta chiusa a chiave, severa mi dileggia:
<<Non uscirai viva a respirare il mondo>>
Eppure m’ingegno nei versi a spezzar catene
a trovare vie di fughe nel bosco degli affanni.
Nella “valle inferna” nel Feudo di Favale
vissi circondata da “ruinati sassi” e odore di bieca sventura
nel contendersi Francia e Spagna il potere nel Regno.
Mio padre perduta la guerra, vincolato all’esilio in Francia
non tornerà a impedire questo calvario.
La verdicante valle s’apre nell’iride allo sbadiglio del giorno,
abitata da genti prive “di ingegno”, attraversata da un “fiume alpestre”
delle mie lacrime affamato adulatore.
Avvolta dall’appiccicosa tela della matrigna “Fortuna”
piango sino all’asfissia il mio iniquo alito di vita
nella disperata contezza di non riveder il mio Signore
tornare a liberarmi dai morsi dell’oblio e dell’ingiusta morale.
io corro libera dai pesi del giorno.
Come il petalo di una violetta, il mio piè si muove leggero e non affonda.
Nel respiro si abbraccia alle amorevoli stelle, sarte di storie incantate
che mi sottraggono al dolor che m’affligge persecutore.
Mareggiano negli occhi gemme perlescenti
stupore liquefatto nel sentiero della quiete
lacrime filosofali e melodia di inerpicati sospiri.
Mi inebriano le assopite guance, le rosee carezze del primo sole
eppure avviluppata al desiderato dormiveglia
prego che Morfeo mi doni altro smarrimento e soave letizia.
Nei suoi labirinti sono l’aquila che trafigge l’opposto vento
la puledra ostinata che risale serrata la montagna
la libellula a crogiolarsi nella frescura dello stagno
la capinera melodiosa nel purpureo tramonto.
L’anima trova comoda dimora in realtà inumane
appartiene alla selvaggia vita senza padroni.
Ma il bussar feroce della realtà m’inchioda all’umido muro
nel recinto costruito dal mio stesso sangue
torno raminga e limitata al perimetro dell’infelice.
Il mio nome e il suo castigo, nel palmo della mano, scrivo a singhiozzo.
Allora Isabella appare come lucciola
esce di sotterfugio all’alba e nel piccolo specchio d’acqua
che cola dal tetto come goccia di castigo
rimira trasformata il suo profilo.
Sono io quella donna che deglutisce utopie nella bocca orfana di sorrisi
arida di buon vino e affamata di dolcezza.
Acqua putrida e arroganza ho bevuto dai calici di novelli Caini.
Legando pensieri e ricci pettino leggende e poesie senza eco
aspirazioni ricamate nella polvere
di giorni uguali alle finestre cigolanti di solitudine.
La porta chiusa a chiave, severa mi dileggia:
<<Non uscirai viva a respirare il mondo>>
Eppure m’ingegno nei versi a spezzar catene
a trovare vie di fughe nel bosco degli affanni.
Nella “valle inferna” nel Feudo di Favale
vissi circondata da “ruinati sassi” e odore di bieca sventura
nel contendersi Francia e Spagna il potere nel Regno.
Mio padre perduta la guerra, vincolato all’esilio in Francia
non tornerà a impedire questo calvario.
La verdicante valle s’apre nell’iride allo sbadiglio del giorno,
abitata da genti prive “di ingegno”, attraversata da un “fiume alpestre”
delle mie lacrime affamato adulatore.
Avvolta dall’appiccicosa tela della matrigna “Fortuna”
piango sino all’asfissia il mio iniquo alito di vita
nella disperata contezza di non riveder il mio Signore
tornare a liberarmi dai morsi dell’oblio e dell’ingiusta morale.
II
Negli intricati rovi il mio sanguigno fiore
alza lievemente il capo alla vita che è poesia
nutrito dalla coraggiosa rugiada si lega all’umano sospiro
di un ramingo verseggiatore: Diego Sandoval De Castro.
Al suo indirizzo incido note di dolore, rassegnazione
delicata bellezza e ardimento senza macchia
rivoli di chiarore e sentinelle di grazia.
Nel tratto epistolare s’aprono le ali nel fianco
volo in notturna al riparo dai bracconieri
fin all’altezza di quella valle d’armonia e serena pace.
Librato estensore nel tratto d’inchiostro il cuor si acquieta.
È pane gustoso saper che vi è uno spirito gemello
che della poesia si ciba affamato.
Dai fili di racconti legati al nostro dialogare senza voce
le emozioni ricamano ovattate risposte d’amicizia.
Tessere una tela tra uomo e donna senz’aghi
è un’impresa da titani eppur conseguibile.
Della brillante luna, dello scirocco che muove i mari
dello spirito mutevole che anima il mondo
avemmo a conversare con animo liliale
e delle Parche che filano tesori e regni, sventure e distruzione.
Tesse l’esistenza la prima, la seconda dispensa destini
l'inesorabile terza taglia il filo e si interrompe l’essere
senza il soccorso degli Dei a mutarne il finale.
Ma nelle riposte preghiere mi avvolgo al flagello di Cristo
deposto alla barbarie del mondo sempre più feroce
da quell’amore salvifico vorrei essere benedetta
dalla Vergine anelo essere sollevata nel tribolo
i miei palmi giunti nell’eremo sudario
chiedo misericordia senza ottener replica.
Percuotono le pupille queste cascate d’affanno
mi rigano il volto e non le trattengo.
Piange la donna del Sud reietta alla felicità della cultura
che è lontana dal talamo di sventura, mio malgrado.
III
Della felicità, il sentiero soleggiato, si schiude alle tenebre.
Maligni fendenti di carne affilati d’ignoranza
le lingue del volgo disperdono onta nel mio onore.
L’ingiusta diceria di un apocrifo amplesso
decretò condanne a marziale sorte per mano della barbarica fratellanza.
Decio, Fabio e Cesare, col sangue vollero lavar la vergogna
dell’infamante quanto calunnioso disonore.
Colsero l’esile piuma e ne fecero lapide.
Macchiarono, il luminescente candore, di pece e sterpaglie.
Dissanguarono la verità per farne menzogna di decoro.
Diego era sì sposato ma l’odio verso lo spagnolo
della guerra vincitore e del Regno padrone fece il resto.
Alla dipartita delle prime foglie, orrore venne a richiamar sangue.
Ai piedi del castello strangolarono Torquato, il mio pedagogo.
Diego troverà agonia nel bosco di Noia con l’archibugio.
Madre morte mi vinse nella sala delle armi
il pugnale a recidere il bocciolo, già appassito, dallo stelo.
Ad un passo delle dighe la chiusa, nell’ultimo afflato dello scempio
<<Vi perdono…>> sussurrai e il tempo marcì col suo acerbo frutto.
Seguirono fughe e intricati inganni per salvar la pelle alle fiere.
Nessuno pagò l’orrore e la miseria di quei reati.
Eppure ogni notte io canto, scalza
libera dal rozzo cilicio che mi legò al tormento.
Nelle pieghe del tempo per le strade del borgo
rimiro quella prigione di ingiusta sepoltura
senza il corpo che mai venne alla luce.
Di me rimase la radice che nella fredda terra
un cunicolo di salvezza decise di scavare.
Lì mi presi la libertà che la malvagità depredò.
Germoglio ancora nei versi che odiai e amai in vita
nelle leggende di pellegrini e cantastorie
in quel fantasma che qualcuno mira trapassar le mura.
Nel palpito di chi mi rammenta s’ode ancora il profumo
di quel fiore che la cattiveria dell’uomo aveva reciso.
Io, Isabella, son la prova
che la vera bellezza non muore ma si rinnova.
Negli intricati rovi il mio sanguigno fiore
alza lievemente il capo alla vita che è poesia
nutrito dalla coraggiosa rugiada si lega all’umano sospiro
di un ramingo verseggiatore: Diego Sandoval De Castro.
Al suo indirizzo incido note di dolore, rassegnazione
delicata bellezza e ardimento senza macchia
rivoli di chiarore e sentinelle di grazia.
Nel tratto epistolare s’aprono le ali nel fianco
volo in notturna al riparo dai bracconieri
fin all’altezza di quella valle d’armonia e serena pace.
Librato estensore nel tratto d’inchiostro il cuor si acquieta.
È pane gustoso saper che vi è uno spirito gemello
che della poesia si ciba affamato.
Dai fili di racconti legati al nostro dialogare senza voce
le emozioni ricamano ovattate risposte d’amicizia.
Tessere una tela tra uomo e donna senz’aghi
è un’impresa da titani eppur conseguibile.
Della brillante luna, dello scirocco che muove i mari
dello spirito mutevole che anima il mondo
avemmo a conversare con animo liliale
e delle Parche che filano tesori e regni, sventure e distruzione.
Tesse l’esistenza la prima, la seconda dispensa destini
l'inesorabile terza taglia il filo e si interrompe l’essere
senza il soccorso degli Dei a mutarne il finale.
Ma nelle riposte preghiere mi avvolgo al flagello di Cristo
deposto alla barbarie del mondo sempre più feroce
da quell’amore salvifico vorrei essere benedetta
dalla Vergine anelo essere sollevata nel tribolo
i miei palmi giunti nell’eremo sudario
chiedo misericordia senza ottener replica.
Percuotono le pupille queste cascate d’affanno
mi rigano il volto e non le trattengo.
Piange la donna del Sud reietta alla felicità della cultura
che è lontana dal talamo di sventura, mio malgrado.
III
Della felicità, il sentiero soleggiato, si schiude alle tenebre.
Maligni fendenti di carne affilati d’ignoranza
le lingue del volgo disperdono onta nel mio onore.
L’ingiusta diceria di un apocrifo amplesso
decretò condanne a marziale sorte per mano della barbarica fratellanza.
Decio, Fabio e Cesare, col sangue vollero lavar la vergogna
dell’infamante quanto calunnioso disonore.
Colsero l’esile piuma e ne fecero lapide.
Macchiarono, il luminescente candore, di pece e sterpaglie.
Dissanguarono la verità per farne menzogna di decoro.
Diego era sì sposato ma l’odio verso lo spagnolo
della guerra vincitore e del Regno padrone fece il resto.
Alla dipartita delle prime foglie, orrore venne a richiamar sangue.
Ai piedi del castello strangolarono Torquato, il mio pedagogo.
Diego troverà agonia nel bosco di Noia con l’archibugio.
Madre morte mi vinse nella sala delle armi
il pugnale a recidere il bocciolo, già appassito, dallo stelo.
Ad un passo delle dighe la chiusa, nell’ultimo afflato dello scempio
<<Vi perdono…>> sussurrai e il tempo marcì col suo acerbo frutto.
Seguirono fughe e intricati inganni per salvar la pelle alle fiere.
Nessuno pagò l’orrore e la miseria di quei reati.
Eppure ogni notte io canto, scalza
libera dal rozzo cilicio che mi legò al tormento.
Nelle pieghe del tempo per le strade del borgo
rimiro quella prigione di ingiusta sepoltura
senza il corpo che mai venne alla luce.
Di me rimase la radice che nella fredda terra
un cunicolo di salvezza decise di scavare.
Lì mi presi la libertà che la malvagità depredò.
Germoglio ancora nei versi che odiai e amai in vita
nelle leggende di pellegrini e cantastorie
in quel fantasma che qualcuno mira trapassar le mura.
Nel palpito di chi mi rammenta s’ode ancora il profumo
di quel fiore che la cattiveria dell’uomo aveva reciso.
Io, Isabella, son la prova
che la vera bellezza non muore ma si rinnova.
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
Emanuela Sica, avvocato cassazionista, giornalista pubblicista, attivista per i diritti delle donne contro la violenza di genere. Dirige l’Area Anti-Violenza di genere del Corpo Internazionale di Soccorso Costantiniano. Pubblicazioni d'esordio: Uccelli di carta (Racconti); Un angelo all'improvviso (Poesie). Prose scelte per: Le strade della poesia; Il Giglio di grano; Pietre Vive. Narrativa: Assolo; Anatomia di anime; Cairano: Relazioni Felicitanti; La ragazza di Vizzini (coautrice con M. Vespasiano); Fotofilastrocche Guardiesisinasce& sidiventa; L'Ultima Luna; Il caso Antigone (coautrice con L. Anzalone); Una storia senza fine; Il sogno di Edipo e mitici amori, Storia di una violetta. Raccolta antologica: ROSSO - Vdg-0 - Antologia sulla violenza di genere (curatrice); Canne al vento (curatrice, insieme a Luigi Anzalone) [Grazia Deledda-2021].
Insignita di numerosi premi/riconoscimenti (nazionali ed internazionali) per la narrativa, poesia e per l'impegno sociale in favore delle donne vittime di violenza. Racconti scelti per le antologie/raccolte: Irpini per sempre; L'Irpinia nei giorni dell'emergenza; Fiori d'inverno; Irpinia 1980-2020 Memorie di un terremoto durato 40 anni. Autrice e interprete di canzoni di rilievo sociale. Poetessa della comunità Versipelle. Collabora con: Franco Genzale Blog; Irpinia TV; Cassa Forense; Il Quotidiano del sud; Lo Spazio di Athena; Il nuovo Meridionalismo.
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