(Redazione) - Dissolvenze - 06 - Chewing Punk
di Arianna Bonino
Ho cercato sul
mio vocabolario etimologico – sempre a portata di mano – la voce
“punk”, ma non l’ho trovata e allora ho ripiegato su “punch”
che però, essendo, come ricordo dai tempi della nonna - che
oltretutto lo chiamava “punch” con la “u” – essendo,
dicevamo, una bevanda preparata con acqua bollente, rhum o altro
liquore, zucchero e scorza di limone – la nonna lo faceva col
Mandarinetto Isolabella e lo serviva in quei terribili bicchierini di
vetro con manico in ferro, di una scomodità crudele - essendo il
punch, dicevamo tale torturante pozione, a differenza del termine
“punk”, la cui etimologia al momento rimane ignota, il “punch”
affonda invece le sue origini linguistiche nel “puncho”, che
compare, a quanto pare, per la prima volta come “ponchio” nel
1745, a sua volta rifacendosi all’inglese che lo sfodera già nel
1632, avendolo mutuato e tramutato in britannico dall’hindi pāñc,
che poi è un numero e quindi indica con onesta
franchezza che servono cinque ingredienti per preparare la
crepuscolare mistura (crepuscolare in senso più gozzaniano che
altro, anche perché non esiste un orario esatto per servirla, tanto
che forse non andrebbe servita a nessuno orario, ma questa è
un’opinione sfacciatamente personale, probabilmente inficiata dal
ricordo di quei micidiali bicchierini col manico a esse). Ma la
parola “punch” in inglese si rintraccia anche nel glossario
pugilistico, laddove indica un pugno secco di notevole potenza e con
ciò si rifà alla pungolosità di un colpo del genere, la stessa che
evidentemente ha lo strumento appuntito indicato dal sostantivo
“ponchon”, che poi, gira che ti rigira, va a risalire al latino,
tanto per cambiare, e precisamente al termine “punctione”, a sua
volta derivata da “punctus”. Ecco, questa presenza di “punch”
all’interno dell’ambito della boxe mi fa venir voglia di
fantasticare e decidere che, tutto sommato, almeno nella mia
immaginazione, anche “punk” (questo è l’argomento del pezzo,
nonostante Pindaro si sia impossessato del mio corpo ancora una volta
in questo incipit sicuramente selettivo) possa in qualche modo avere
a che fare col tirare pugni, col picchiare duro, col colpire, con il
pungere.
Adesso che ho inventato l’etimologia di “punk” (a
cui prometto di restituire autenticità nel corso del pezzo in
oggetto), posso confessare che stavo cercando le origini di tale
termine perché, in qualche modo, un po’ punk lo sono di sicuro
anch’io, almeno nella misura in cui “punk” vuol dire qualcosa
di scarsa qualità, di scarto, anche marginale, e fuori dagli schemi.
Non sto facendo outing di un inconfessabile complesso d’inferiorità
o del desiderio irrefrenabile di vandalismo, piuttosto sto dicendo
che il punk mi si addice, è un humus ribollente di colori fluo ed
eccessi scomposti che c’è poco da ridere, ecco cosa. Una pedata
con l’impronta. Nasce nella musica, dalla stanchezza del bon ton e
dei sorrisi stampati, ma anche e più profondamente come disturbo
manifestato, disagio, rottura, uno strappo a forma di sette dato con
un coccio di bottiglia nel gran telo del perbenismo. È chiaro,
doveroso, desiderabile e voluto a questo punto dire un nome, uno su
tutti (uno, altrimenti l’elenco non si ferma più e finisce che
scrivo non questo pezzo, ma un altro, cosa non proibita, ma non
vorrei giocarmi i tre lettori – definitivamente punk - giunti fin
qui proprio perché punk). Il nome in questione è Ramones,
i primi a sfoggiare l’aggettivo punk, anche se erano quasi dieci
anni che serpeggiava già sotto le mentite spoglie di altre
nomenclature, questa musica grezza, senza raffinatezze, distorta,
piena di rumori in mezzo ai suoni, una prototipazione a volte anche
solo parziale di quel mix di elementi che poi sarebbe esploso senza
ritegno e senza grazia, come il punk alla sua massima potenza
Senza
ritegno e senza regno, contro il regno, nella voglia teppista di
scardinare l’ordine e gli ordini e di rompere, corrompere, sbavare
e sputare di nero sulle cose pulite. Musica che ha un padre e una
madre, con tanto di nomi e cognomi e che a tali nomi rispondono
ancora oggi forte e chiaro: Velvet
Underground da una parte e
Stooges dall’altra.
È
la fine dei Sessanta, il termine di un decennio che musicalmente
coincide con l’apice di una parabola fatta di virtuosismi sempre
più estremi, traboccante di ricerche sonore al limite del
fantascientifico, autocelebranti e compiaciutissime performance colme
di sofisticatezza, senza con ciò voler screditare di un diesis
nessuno. Band che riempivano stadi sconfinati, su palchi chilometrici
a forma di scranno, di trono, no, di altare su cui esibire la propria
divina e talentuosa unicità, in esecuzioni dall’estensione
volutamente e voluttuosamente interminabile, con strumentazione da
budget stratosferici, inclusa la prenotazione di interi loft e attici
rivestiti in moquette alta un palmo negli Hotel che dire di lusso è
fare metafora. Il punk ha la forza di non avere niente se non la sua
dichiarata momentaneità: non cerca trionfi, è periferia, è
margine, non ha talenti. È punk chiunque ci si senta punk, dall’altra
parte del jet-set, nelle strade, nei posti ad alta densità d’asfalto
e appartamenti occupati. Quindi fa rima con anarchia, certo, ma con
la coscienza e la maturità critica di avere e volere un’identità
transitoria che, paradossalmente, in quanto dichiarata e definitiva
nella sua corruzione da scarto, diventa perdurante eternità
momentanea, come accade del resto ai resti rintracciati
dall’archeologia industriale. E tanto da passare - non indenne, è
perché mai?- a rinnovarsi plasticamente come salamandra in molta
musica contemporanea, e qui chiamo all’appello gli
Einstürzende Neubauten
che forse più di ogni altro contemporaneo rappresentano quel
meccanismo di ribaltamento centro-periferia che è l’anima stessa
del punk, riassunto perfettamente in quell’incitamento ironico - ma
serissimo – “sei Schlau, klau beim Bau”* che si dichiara
altrettanto apertamente nella scelta iconografica fatta per la cover
del bellissimo Kollaps
(1981),
che con la sua ferrosa elementarità fatta di sbarre, trapani e ferri
rubati e quindi recuperati da qualche industria abbandonata fa il
verso all’opulenza strumentale sfoggiata dai Pink Floyd per quella
pietra miliare che è Ummagumma
(1969),
dove un campo lungo è l’unico formato fotografico in grado di
accogliere il dispiegamento di mezzi sfoderato.
Il punk arriva proprio al climax del manierismo musicale di molte pregevoli band e ci mette la faccia sporca di chi non la può più vedere quella linea verticale che separa chi sta sul palco da chi il palco lo guarda. Non è una serata a ubriacarsi o un nastro impresso di brani rumorosi e dall’acustica tra l’acido e la ruggine, di metallo e trucco pesante: il punk è una grammatica genetica e non ha bisogno per forza delle Dr Martens o degli allarmi che partono nella notte come soundstrack di vetrine infrante. Anche perché – e questo è il sacrosanto paradosso punk – il topos del punk è rompere coi topoi, tutti, anche contro se stesso, rigurgitarsi, espellersi e non digerirsi, rifiutare un po’ tutto, anche il rifiuto stesso, se diventa costruzione e costrizione. In questo scenario allestito con scarti metalli cartacce scritte senza form, sostanze coloranti e chimiche, pallori, schegge, metropolitane percorse in fuga, foto segnaletiche, sputi, sesso anonimo, risvegli irriconoscibili, metto a fuoco un volto, il volto di uno che si volta se sente qualcuno che lo chiama Jim Jocoy. Jim è nato in Corea del Sud negli anni in cui in Corea c’era la guerra. Madre coreana, padre americano, soldato, che si porta via la famiglia nel 1968. Da quel momento Jim vive nella Baia di San Francisco, che vede per la prima volta a sette anni. La fotografia fa parte della sua vita da sempre, da quando gioca con la Polaroid del padre, ascoltando i suoi LP e nutrendosi di ottima musica, tra cui anche quella dei Ramones, che proprio a San Francisco tengono il loro primo concerto, a cui Jim naturalmente non manca. Scatta foto senza la pretesa di dirsi un tecnico dell’immagine, cosa che infatti non è, e per il puro piacere di farlo e ricordare cose, volti, momenti con gli amici e la sua famiglia. Jim fotografa anche la musica in cui si immerge, i concerti, le band, ma anche e forse prima ancora il pubblico, accorgendosi che quella famosa distanza tra palco e platea si sta sgretolando sotto le note distorte e disarmoniche dei The Germs.
Jim punta l’obiettivo sulla gente, la trova bella, su quel popolo colorato e chiassoso che si colora e colora e che non è più sotto il palco, ma prima del palco.
Jim
vive in un momento e in un luogo che proliferano di nuovi bisogni di
affermazione, di ribellione. Inizia ad esporre con una certa
ritrosia, l’insicurezza di chi capisce che quello che propone non è
“bello”, esattamente come è il punk, non bello, ma soprattutto
perché non si è mai considerato un fotografo professionista e forse
è proprio per questo che il suo lavoro ha un’autenticità e una
schiettezza del tutto peculiari.
La prima esposizione fu a San
Francisco, seguì una mostra in Germania, per approdare al momento
emotivamente decisivo per Jim, quello della proiezione di diapositive
dei suoi scatti nell’ambito dei festeggiamenti del settantesimo
compleanno di William Burroughs.
Jocoy
scatta molto, ritrae persone, artisti, cose comuni, la moda, la
musica, gli eventi punk, ma non lo fa mai diventare un mestiere (fino
al momento della pensione lavora presso il San Francisco Medical
Center). La sua fotografia, a differenza di altre valide
testimonianze del mondo punk (penso adesso al lavoro di Sheila Rock),
ha il pregio di non essere solo documentazione ricca e multiforme di
un mondo che ha segnato un prima e dopo storico e culturale, ma forse
anche politico. Quello che si coglie immediatamente guardando il
lavoro di Jocoy è che non solo ritrae il punk, ma è lui stesso
punk: foto sgranate, senza ricerca estetica, prospettive distorte,
visuali parziali, luci fredde.
A
fine Anni Novanta Jocoy realizza più per sé che con velleità di
pubblicazione un libro dei suoi scatti e il destino lo fa capitare
sotto gli occhi di Thurston Moore, frontman dei Sonic
Youth che, dopo una prima occhiata,
si prende la briga di cercare un editore, cogliendo al volo
l’importanza del lavoro di Jocoy. Il volume viene dato alle stampe
nell’ottobre del 2002 con il significativo titolo di “We’re
Desperate: The Punk Rock Photography of Jim Jocoy SF/LA 1978-1980”
Jocoy ha fotografato un’epoca, un pensiero, un mondo intero. Tra gli altri, sono celebri i suoi ritratti di Andy Warhol, William Burroughs, Jhon Waters, Sid Vicious, Michael Jackson, Iggy Pop, Courtney Love, Ru Paul, Johnny Thunders, Darby Crash.
Continua
a scattare Jim, sempre senza prendersi troppo sul serio. La macchina
ideale era e sarebbe la Polaroid, così low tech, proprio come il
punk, senza lussi, un po’ sfigato, con gli anfibi slacciati, la
metropolitana delle 5 per tornare a casa e la testa piena di fracasso
e fumi.
Il sogno delle Polaroid (e non solo) vede la sua
realizzazione nel 2017, anno in cui esce il bellissimo “In
order of appearance”,
che raccoglie un’altra ricca panoramica di scatti colorati:
Sono foto che,
tutto sommano, avrei potuto fare anch’io. Questo viene da pensare.
Perché un po’ c'ero e la Polaroid girava per casa…ce ne sono
ancora di quegli scatti in formato quadrato che girano per casa, in
qualche cassetto, a ingiallire, a perdere definizione tanto quanta
aumenta il ricordo di quegli anni. Ma sì, alla fine l’etimologia
non c’entra niente e nemmeno le fotografie: è la nostalgia, questo
è, credere di pensare che le cose si possano ancora cambiare, che si
possa interrompere quello che non mi piace, che i mattoni si possano
tirare giù, fino all’ultimo. Che ci sia il tempo di farlo, che ci
sia la giovinezza, con tutto il dopo davanti, per quanto poco o tanto
sarà.
L’infanzia era finita, lei e il suo punch della nonna in
quelle tazzine brutte da rovesciare sul tavolo sporcando il centrino
all’uncinetto, sbattendo la porta per andare da nessuna parte,
scoppiando un pallone di chewing gum tra le labbra azzurre, a
camminare senza grazia, col volume al massimo nelle orecchie, da
sentire forte, forte da far male. E se le labbra azzurre non ci sono
più, beh, pazienza. Le calze viola ci sono e ci saranno sempre.
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