(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 10 - Nota di lettura alla silloge "Nuda" di Doris Bellomusto (Giuliano Ladolfi Editore, 2022)
di Sergio Daniele Donati
Cosa sia la nudità lo sa la vita, che ai suoi esordi sempre senza veli si presenta.
Lo sa l'essere umano che in quel lemma così breve mette ogni sua fragilità ed esigenza di ritorno alla sorgente di un dire non filtrato.
E lo sa il poeta che, in tanto si sente attraversato da fenomeni più grandi di lui e costretto da limiti creativi, in quanto riesce a trasformare i suoni provenienti dalla sua balbuzie nel valore comunicativo di un inciampo prezioso.
Quando un poeta dichiara la propria nudità davanti al mondo, tutto il creato sensibile dovrebbe vivere un attimo di sospensione, denso di ascolto profondo, perché tale dichiarazione ha valore universale e riguarda la condizione esistenziale dell'uomo.
Cosa sia la nudità sa sicuramente Doris Bellomusto, poeta che è stata capace di mettere nella sua silloge Nuda (Giuliano Ladolfi Editore, 2022) ogni delicato passaggio che la descrizione di un essere umano privo di filtri necessita.
La scrittura della poeta è atto meditato e istintivo allo stesso tempo e sorge dall'osservazione di un sé che si srotola sulla carta col procedere delle poesie; un sé che in tanto vale in quanto è capace di parlare all'identità di ognuno di noi lettori, che in quelle parole ci specchiamo come sulle acque di un lago calmo e senza creste.
La silloge esordisce con un poesia che potrebbe da sé stessa assurgere a dichiarazione universale dello stato del poetare. Ne riportiamo sotto il testo.
Nudi e senza pudore
i poeti lasciano in eredità
solo la vergogna che non hanno.
La mia poesia è un ridicolo reato:
un atto impuro in luogo privato.
Avido il mio cuore
cede al dolce inganno
anche stasera
e scrivo versi maldestri
ché dei poeti io non ho la purezza.
Io nasco bastarda.
i poeti lasciano in eredità
solo la vergogna che non hanno.
La mia poesia è un ridicolo reato:
un atto impuro in luogo privato.
Avido il mio cuore
cede al dolce inganno
anche stasera
e scrivo versi maldestri
ché dei poeti io non ho la purezza.
Io nasco bastarda.
Siamo di fronte a un gioco astuto di contraddizioni in cui l'autrice rivela la sua condizione di un disagio maldestro davanti al foglio bianco, di un'assenza di purezza che, in quanto dichiarata, diviene obiettivo della scrittura. La parola diviene contravvenzione, reato, atto impuro, crepa nella completezza di un silenzio che si percepisce pulsare tra le parole.
È la parola che spezza una unità silenziosa, la parola bastarda, impura, avida, ingannata e ingannevole.
Eppure - e qui sta il gioco - l'autrice dichiara la sua scrittura (e scrivo versi maldestri) quasi fosse un atto dovuto, benché se ne conoscano i limiti strutturali e la fonte fragile.
In altre parole viene qui espressa una fragilità che, benché conosciuta da chi scrive, si trasforma in parola, reazionaria a sé stessa.
Un parola, infatti, che è reazione ad uno zittimento del poeta di fronte ai suoi limiti, un dirsi, e dire, della necessità di scrivere; comunque.
La parola bastarda ci parla dell'inganno delle radici, dei falsi miti che ci fanno credere figli di una sola tradizione poetica, dell'inganno di chi vive la scrittura come figlia di un sangue solo.
Nascere bastardi, e saperlo dire, significa dichiarare la tenacia della vita che non nasce pura, ma mescolata, immatura, sporca...eppure (o forse proprio per questo) nasce.
Altrove i tempi e i ritmi della poesia di Doris Bellomusto si fanno calmi e riflessivi, nella valutazione dell'esistenza di un altro da sé che è stimolo alla crescita. È il caso della poesia il cui testo sotto riportiamo.
Nel muto amplesso
della mia gola
arsa
stasera
cedo il passo
falso
al canto libero
di chi non conosce
menzogna né verità
Canto libero potrebbe essere l'emblema del titolo della rubrica che ospita questa nota di lettura.
È talmente forte il richiamo di ciò che la poeta non dice in questa sua, dello spazio vuoto tra le lettere, che le sue parole sembrano divenire un dorato accompagnamento, contorno di ciò che pesa.
E questo è sempre indice di una poesia cosciente delle proprie pause e valori non detti.
Doris Bellomusto qui cede il passo a ciò che sembra essere l'archetipo del poeta, il portatore di un canto libero, senza limiti, sfuggevoli ai limiti del giudizio sul vero sul menzognero.
Tuttavia lo fa scrivendo, non cedendo allo zittimento, dichiarando l'arsura di una gola che non trova parola in un amoreggiare con la scrittura.
Sembra dirci che è necessario farsi da parte e che la libertà della scrittura consiste nell'incoscienza del bene e del male (del vero e del falso): ma lo dichiara e, così facendo, crea poesia sulla necessità che la poesia si ritiri.
Forse senza esserne cosciente l'autrice si richiama al mito di Adamo ed Eva prima della cacciata dall'Eden e degli eventi che l'hanno causata.
Viene descritta (scusate il gioco di parole) dall'autrice la necessità di essere coscienti che la vera coscienza è assenza di coscienza, per poter scrivere poesia.
E, badate bene, viene descritta con una poesia di alto valore l'inutilità della poesia, di ogni parola che non sia portatrice del vero.
Con Il tempo, poi, si conclude la silloge. Ne riportiamo sotto il testo.
Il tempo
sul mio corpo
è neve sulla strada,
esige obbedienza,
tiranneggia i sensi.
Fumo negli occhi,
impietoso,
acceca.
Sono materia
che si corrompe.
Neve sporca.
Frutto maturo
che teme il sole.
Ad avviso di chi qui vi scrive non poteva che essere questa la poesia di chiusura della raccolta ed è qui che viene descritta una riflessione importante per chiunque percorra il sentiero della conoscenza di sé nella poesia.
Non è forse vero che siamo tutti accecati dal fluire del tempo?
Non è forse vero che ogni atto di scrittura è atto di per sé distopico e dispotico (tiranno) che ci impone di vivere fuori dal ritmo naturale delle stagioni?
Non è forse vero che la diluizione, lo scioglimento delle nostre fresche nevi, si amplifica quando diamo alla scrittura la funzione di rendere eterno ciò che eterno non può essere?
Questo Doris Bellomusto lo dice, senza dirlo, in una poesia di chiusura della raccolta che nulla chiude.
Anzi, ci lascia accecati dal desiderio di continuare la lettura di ciò che è detto tra le parole di un dire sapientemente celato in ciò che non dice.
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NOTA BIOBIBLIGRAFICA
Doris Bellomusto si è laureata in lettere classiche presso l’Università della Calabria, insegna materie letterarie presso il “Liceo G. Pascoli” di Barga, in provincia di Lucca, dove vive dal 2011. Non ha mai dimenticato né i suoi studi classici né le sue radici meridionali. Dalle sue inestinguibili nostalgie sono nate le raccolte di poesie “Come le rondini al cielo”, edizioni “Tracce”, pubblicata nel Marzo 2020; Fra l’Olimpo e il Sud, Poetica edizioni, Luglio 2021.
Non so dire di più che un sentito e viscerale GRAZIE, sono commossa e lieta della preziosa attenzione. Mi sono sentita accolta e ascoltata.
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