(Redazione) - Un "accordo in bemolle minore" di lettura: su tre sillogi contemporanee (BIGNOZZI, COPPOLA E URSELLI)
A cura del caporedattore
Sergio Daniele Donati
Partiamo da un simpatico false friend.
Una nota di lettura, anche prima che sia nota, è bene che sia portatrice di un suono solo.
Ma uno spartito musicale non è composto di note soltanto. Ci sono anche gli accordi e spesso questi sono composti da tre note distinte.
L'armonia tra le tre note che compongo l'accordo ne creano l'unicità e identificabilità.
Forse per questo sono abituato, sin da piccolo, a leggere almeno tre libri contemporaneamente.
Mi piace tracciare linee e fili tra scritture diverse tra loro. Che poi queste linee di congiunzione siano immaginarie o meno, in fondo, poco conta.
Anche le costellazioni sono linee immaginarie e tanto immaginate, prive di consistenza fisica tra le stelle che le compongono che spesso non sono nemmeno appartenenti al medesimo sistema e si trovano distanti tra loro anni luce.
Eppure l'uomo, attraverso quell'immaginario, ha orientato le sue navi per millenni.
L'ordine, forse, lo crea la nostra esigenza di ordine, molto prima della sua realtà fisica, che rimane sempre e solo eventuale.
L'accordo tra le tre sillogi che oggi analizziamo l'ho chiamato accordo poetante in bemolle minore.
Perché minore in bemolle lo capiremo, forse, assieme alla fine. Per ora prendetelo come un dato, forse un po' folle, che vi dona chi vi scrive [(cog)nomen omen?].
Esso è composto, dicevo, di tre sillogi, molto diverse fra loro per struttura armonica e melodica, per relazione col suono della parola e, in parte, per contenuto.
Mi riferisco a Memorie Fluviali di Isabella Bignozzi (MC Edizioni, 2022), a La Sete della Sera di Agnese Coppola (La vita felice ed., 2021) e Oggi ti sono passato vicino di Tommaso Urselli (Ensemble ed., 2020).
Siamo di fronte a tre scritture molto diverse tra loro ma che, a parer mio, si armonizzano alla perfezione se lette vicine e sono capaci di tracciare un dialogo immaginario tra i tre poeti che lascia il lettore estasiato.
Così ad esempio ne Il cercato incontro di Isabella Bignozzi leggiamo
Affollare gli specchi
aprire crepe sotto i passi
tenere in tasca il proprio dolore
come un pugnale
questo l'allarme quieto
la possibilità incrinata
amara
che scoperchia il nero niente
in ogni cercato incontro.
Siamo di fronte a una scrittura disarmante perché armata del proprio stesso dolore, che viene tenuto nascosto, in tasca, come una possibilità di fuga.
Il ritmo serrato dei tre infiniti (affollare, aprire, tenere) rende fortemente l'idea di una azione chiamata.
Si sa infatti che l'uso dell'infinito al posto di un corrispondente sostantivo ha spesso finalità - ed effetto - di riportare al richiamo quasi imperativo, alla raccolta energetica...per agire.
O, quantomeno, alla chiamata etica dell'intenzione che si manifesta.
Voglio dire ad esempio che aprire crepe richiama un'urgenza, un'impellenza che una crepa aperta, forse non ha, o ha in misura molto minore.
La scelta dell'infinito in questo caso non riguarda soltanto, a parer mio, il codice linguistico e sonoro eletto dalla poeta, ma anche quello etico e di significato.
Questo richiamo all'impellenza nella meravigliosa silloge di Isabella Bignozzi si coglie, in forme più soffuse e delicate, in altre composizioni, ove tale urgenza prende i colori di una irrevocabile e nostalgica malinconia.
È il caso de La legge dell'acqua. Leggiamone assieme il testo.
Il battere della pioggia sul vetro
foresta svelata intima foresta
la notte nel modo più indifeso, la fronte in disparte
la discesa nella rotta, in bilico,
le gambe piegate nella legge dell'acqua
stelle nel nero il fuoco
il dolore di una musica piano
una sospensione vuota di sonno e di affetto
ti scrivo fragile di parole senza vergogna
fedele di tenero estremo amore.
Eccola la cadenza tenue, la nota in minore, l'appello alla malinconia dell'ineluttabile, la chiamata alla fragilità della scrittura, alla tenerezza dell'amore.
Eccola la penna di Bignozzi quando canta una nenia e ci culla in un elenco stretto denso della meraviglia simbolica degli elementi naturali.
Eccola la penna eccelsa quando si rende volutamente fragile di parole, perché dell'estremismo dell'amore non si può che parlare con fedeltà di tenerezza, o fedeltà alla propria tenerezza.
Agnese Coppola è altra scrittura, altri richiami, altre cadenze e altre sonorità. Eppure con le precedenti poesie sa dialogare in perfetto equilibrio perché, se esiste un mistero, è quello di due accordi diversi che si armonizzano tra loro. A mio avviso è il caso ad esempio di Dedicata; ne riporto il testo.
Mi passa ancora la tua ombra
tra gli occhi;
a volte mi manca;ora è un pallido ricordo di giorni.
A volte mi manca
quel tuo modo di camminare
quel tuo modo di afferrare
il mio sguardo tra la gente
il potere di trasformare
il tutto in niente.
A volte mi manca
e mi manco
ho perso me
in questo amore.
Lascio al lettore con un mero cenno la meraviglia della maestria di Coppola nell'uso della più negletta delle interpunzioni: il punto e virgola. Quel loro duplice accostamento in due versi consecutivi è atto di fede per la potenza dirompente della pausa prolungata, a che non porti chiusura.
Ed infatti la poeta ci parla di mancanze che si esprimono centralmente in tre infiniti dal richiamo, non si sa se voluto, evidente alla spiritualità umana.
Mobilità (camminare), apprensione (afferrare) e trasformazione (l'uomo non crea mai, trasforma), come dicono tante tradizioni, sono le facoltà spiritualmente più pregnanti dell'essere umano.
Qui vengono descritte come ciò che del perso amore manca, forse proprio perché - mi scusi la poeta se oso dirlo - sono quelle tre facoltà, declinate come ogni individuo fa nella sua unicità, ad innamorarci. Amiamo, e ci manca quando l'amore finisce, il movimento, la capacità di manipolare e afferrare e di trasformare della persona amata. E ci si perde continua Coppola quando quelle tre facoltà espresse nella individualità della persona amata, coi colori e sfumature ed equilibri che solo quella persana sapeva darle, non sono più con noi.
La delicatezza con cui Coppola lascia intendere al lettore la densità e prorompenza dell'assenza è qui davvero magistrale. Dice ciò che va detto senza aggiungere parole di strazio a ciò che già strazio è in sé.
E in questo si dimostra maestra di equilibrismo non solo linguistico, tracciando una via di sobrietà pur nella espressione sentimentale intensa.
Una scrittura quindi davvero matura, lontana - e per fortuna, mi si consenta di dire - da un'idea, troppo in voga, di poesia viscerale ed egocentrata.
La poesia di Coppola, come tutta la grande poesia dovrebbe essere, è una poesia tenuta come certe note del canto barocco.
Una scrittura che si tiene in equilibrio sul filo di lino di un dire che dal sé deve sempre essere eterodiretto.
Questo emerge ancora di più nelle sue poesie brevi, come questa, senza titolo, che sotto riporto.
L'attimo apparve;
passaggio di occhi
un treno in corsa,
divise
cielo e terra,
notte e giorno.
E tutto qui,
in un pensiero veloce
la vita.
L'apparizione del tempo si manifesta in un lampo, un battito di ciglia, un passaggio di un treno, nel movimento subitaneo. Ma poi quei tempi, tanto umani, divengono richiamo al mito ebraico della creazione, dell'atto di Avdalà, di separazione che è alla base d'ogni atto creativo.
D'altronde questa è una delle funzioni di ogni attimo; dividere un prima di da un dopo di.
Ma la bellezza potente di questa composizione, a parer mio, è nel finale, nel dire, senza dirlo, che quello strappo, quella separazione è (e fu) necessaria perché in quel varco fu piantato il seme della Vita.
Tutto qui? Già, tutto qui. Ma che maestria nella nonchalance della Coppola nel dirlo.
Tommaso Urselli è maestro, a mio avviso, di una certa capacità contenitiva del verso. Anche le sue composizioni più ampie e lunghe, come ad esempio Dice Ipazia, sono reti in cui restano intrappolati, come pesci, tantissimi poetici e fertili non detti. A volte il poeta si diverte - e ci diverte - a forzare il mondo del biverso. E lo fa con una capacità e precisione simile a quella del raggio laser che, in tanto è più potente, in quanto è in grado di colpire oggetti di dimensioni pari a un millesimo di millimetro.
Ad esempio in Eco leggiamo:
Per sempre in bocca quel
nome ripetutamente amato.
Qui l'ineluttabilità cui si accennava prima si declina in modi diversi attraverso la contrazione del poetare e l'assenza di un verbo principale che ben potrebbe rappresentare, certo, il verbo essere ma anche un verbo di moto (si muove?), di stato in luogo (sta, resta?), di parola/detto (si sussurra, dice, bisbiglia, urla?).
Questo crea un effetto di spaesamento nel lettore, quasi una doccia fredda.
E le docce fredde sono, lo si sa, i lemmi che spesso l'altrove poetico usa per comunicare al mondo, attraverso chi scrive, la sua esistenza.
In Minotauro I questo gioco è ancora più evidente, ecco il testo.
La stanza di ogni giorno
lo specchio di ogni giorno
con dentro solo l'immagine di sé
con dentro lo stesso vuoto di ogni giorno
Un'altra assenza verbale. Un balbettio, una descrizione attraverso una omissione verbale, uno stimolo al lettore a non fermarsi all'apparenza. Perché? Perché il finale è assente. Dobbiamo metterlo noi lettori. C'è troppa dinamica in questa poesia per immaginare che sia una semplice descrizione di una stanza/specchio della quale non dobbiamo chiederci le sorti.
Quella stanza va pulita, messa in ordine, allagata o fatta saltare con una bomba?
E quello specchio dobbiamo lucidarlo, pulirlo, dipingerlo di viola shocking, o prenderlo a martellate?
Il poeta non lo dice, rendendo ineluttabile, quindi, la nostra posizione di lettori attivi. Siamo noi che dobbiamo interagire con quella stanza/specchio e con le solite immagini/vuoti che portano con sé.
Allora perché ho chiamato l'accordo tra queste sillogi accordo poetante in bemolle minore?
Perché ritengo che le tre opere possano ben essere messe in relazione, tra l'altro, per un taglio nostalgico e di richiamo all'intimo, quando si relaziona con l'altro da sé.
Ed è tipico degli accordi in minore portare quelle nuances. Ma la nostalgia che, con colori diversi, i tre poeti a volte descrivono è la nostalgia di ciò che ancora non si conosce, la mancanza di ciò che sempre è mancato. Per questo parlo di bemolle, che è il semitono che precede il tono principale; un minus quam che tantissimo ci dice sulla relazione tra le note.
Il bemolle indica al musicista la via evolutiva di un suono, ciò che quel suono ancora non è perchè gli manca l'estensione di un semitono.
Forse in questo ogni verso poetico è sempre un bemolle di ciò che il poeta ancora (o per sempre) non dice.
Lettura folle la mia?
Forse, ma ieri ho riletto per l'ennesima volta le tre sillogi in ordine sparso.
Poi mi sono fatto una tisana, messo del jazz e in silenzio ho ascoltato un altrove ciarlone guardando, fuori dalla finestra, di notte la mia Milano immersa nella nebbia.
Per la redazione - il Caporedattore
Sergio Daniele Donati
Immagini tratte dal Web
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