(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 15 - Una dichiarazione d'amore
di Sergio Daniele Donati
Sono decine le sillogi che ancora devo recensire, commentare, accogliere su Le parole di Fedro, e decine gli inediti, le proposte di lettura che arrivano e lasciano senza fiato per profondità di linee e tensione espressiva.
Meritano tempo e calma e letture profonde.
Mi ripeto quindi, come un adagio imparato a memoria, che ci sarà tempo per tutto, finché saprò restare nel tempo.
Però il tempo non è solo una successione infinita di istanti, una linea che ci proietta chissà dove, da un passato ad un futuro.
E nemmeno la scrittura è solo una successione di tratti sul foglio.
Tempo e scrittura sottostanno alle regole strette del moto lineare, tanto quanto a quelle sognanti del moto circolare.
E non c'è istante che non torni, diverso e identico, prima o poi; e non c'è parola che non torni, prima o poi, alla sua sorgente: il silenzio.
La vita, come la scrittura, è un grande rotolo e l'ultima lettera di ogni narrazione richiama la prima che palpita per essere letta ancora.
Allora oggi, in questo spazio invernale, in questo giorno che marca l'inizio di un nuovo anno, io non commento alcuna scrittura particolare.
È ora, invece, che venga dichiarata quella parola di cinque lettere di cui è formato colui che nella parola si è formato.
Io amo la parola: l'amo prima che sorga, nei giorni della sua silenziosa gestazione; io amo la parola.
E la amo quando balbetta e si disarticola nella bocca di un neonato, prima d'ogni significato.
Amo la parola quando arrossisce appena pronunciata e si fa ritrosa per non essere colta completamente.
La parola sussurrata, bisbigliata, decantata piano, la amo come una carezza di padre sulla nuca; una bene-dizione.
Amo la parola stentata e sdentata, incespicante nel palato, la parola che non si sa dire e non viene detta perché ci sarà un poi in cui dirla.
Amo la parola saggia, esperta e vissuta quando nasconde lo stesso stupore di quella infante ché la saggezza non è altro che la memoria del bimbo che urla nelle pieghe dei palmi delle nostre mani, ormai macchiate dalla vita.
Amo la parola dedicata, la più delicata, che si dice solo per quella persona lì e si scrive in lettere e grafie uniche, per uno sguardo unico: la parola che è valida solo per un solo destinatario e può mettere radice solo in un unico terreno.
E amo anche la parola proclamata, la dichiarazione forte e stentorea, ché certe cose vanno gridate al mondo, anche se non ci ascolta; anzi proprio perché non ci ascolta.
La amo perché un vecchio signore dalla barba bianca mi insegnò a riconoscere nello squillo potente della tromba o del corno inglese le voci sottili del flauto di Pan e del Duduk armeno e di ocarine lontane.
Diceva quel vecchio che della parola urlata dovremmo ascoltare i silenzi, la timidezza celata, lo sguardo che si abbassa. Lo sguardo d'un bimbo che se gioca a fare il cavaliere non dimentica la sua acerba età.
Amo poi la parola anche quando tradisce e dice il contrario del messaggio silenzioso che veicola, perché - in quei casi - la parola arrossisce e trasuda significati di verità e si appoggia su una richiesta antica d'esser perdonata.
È quella la parola resina che finge di essere corteccia mentre trasuda significati d'ambra. E va rispettata perché, tradendo, rivela sempre ciò che andrebbe detto.
E amo la parola prima che sia parola, le lallazioni scomposte degli infanti, il detto che ancora non dice sé stesso e usa lo sguardo per chiedere ascolto.
Amo i semi della parola, prima che sorga il virgulto.
E soprattutto amo la parola sgraziata, la grafia disordinata nella mano di un bimbo che impara a scrivere.
Ché parola è un grido di allarme, un'esigenza di ordine dal magma, e passa sempre da quella lava, da quei polsi e palmi sporchi d'inchiostro, da quegli occhi sognanti mentre la penna si fa segnante; lei, la divina, la regina, la sposa: la parola.
"Più su", sembra chiedere.
"Più giù", sembra ordinare.
Perché lei, la parola, non è mai dove poggia il pennino; ride da un altrove prossimo dei nostri tentativi di darle casa su fogli di carta bianca: lei fiume, lei flusso eterno, celestiale.
Sì, lei cerca una mano umana che gli costruisca un argine. Dea mai soddisfatta, lei - la parola - chiede a noi di darle limite, il limite amorevole di una madre al figlio.
E poi ride e, se si posa tra le nostre ciglia, è per ricordarci la notte, che la parola é figlia del Sogno e al Sogno torna sempre, fedele ancella, a raccontare al grande maestro silenzioso che mondo folle abita le nostre menti.
La parola sutura mentre noi, dalle nostre ferite, l'amiamo chè non si può evitare d'amare la mano che ci porta la salvezza.
E io amo, perché delle parole sono figlio e della Parola nipote, e non potrei mai amare senza poterlo bisbigliare al mondo.
Trecentosessantacinque passi
per ritrovarmi qui; di nuovo
a parlare del mio più antico amore
e respirare tra le nari
il desiderio di fiocchi
di parole; che cadano lenti
come neve, e plachino
- senza spegnerlo -
il fuoco sacro dell'inadeguatezza.
(Sergio Daniele Donati - inedito 2023)
NdA: Fedro, lo si sa, è un'ombra. Si nasconde in boschi silenziosi lasciando tracce lievi su terreni troppo presto coperti di neve. Questo è il Fedro di Pirsig cui questo sito si ispira.
La sua è la parola celata, nascosta, tenace nel suo non esserci.
È la parola del nascondimento divino, la voce sottile di silenzio, il dire non dicendo, la manifestazione dal nascondimento.
E io, che altro non sono che uno scribacchino innamorato, la amo con ogni vertebra e ogni midollo e ogni poro della pelle: la parola che, anche quando tradisce, porta in sé, senza sosta, il seme della ricostruzione.
Buon anno a tutti voi, quindi; buon ritorno.
Sergio Daniele Donati
Buon anno Sergio, con le parole non solo a parole.
RispondiEliminaGrazie davvero e buon anno a Lei
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