(Redazione) - Figuracce retoriche - 02 - AFERESI APOCOPE SINCOPE
di Annalisa Mercurio
Dopo la scorsa puntata introduttiva sulle figure retoriche, immagino siate tutti in fervida attesa del seguito. Sento, da lontano, che non vedete l’ora di scoprire le ‘figuracce’ del mese.
Parliamo oggi di Aferesi
Apocope e Sincope.
AFERESI
Dal greco ἀϕαίρεσις
afàiresis «sottrazione»,
derivazione di ἀϕαιρέω (trans.- afairéo, sign. «togliere»).
Detto ciò, visto che,
come cantava Venditti, la matematica non
sarà mai il mio mestiere, più che di
sottrazione preferisco parlare di caduta di
vocale o di sillaba a inizio parola. Infatti,
la mia visione di aferesi
si avvicina più all’immagine di Pollicino che lascia cadere
briciole per strada. Spiego meglio. Ci troviamo di fronte a parole
sbocconcellate che, il più delle volte iniziano con un apostrofo:
parole, che hanno perduto la lettera o
la sillaba iniziale.
Per quanto riguarda la
scrittura contemporanea, questa figura retorica è poco utilizzata, a
meno che, cimentandosi nella poesia, non si voglia dare a questa
un’impronta classica (per esempio usando la parola verno
per inverno).
L’aferesi,
è una figura retorica che, se andiamo a vedere il processo evolutivo
della nostra lingua parlata, riscontriamo avere una notevole
importanza.
Vi riporto di seguito
alcuni esempi:
lusciniolus l'usignolo
obscurum
scuro
instrumento
strumento
Capite bene che se
dicessi: “Allora posai il mio instrumento
mentre un lusciniolus
cantava e a un tratto si fece obscurum”
desterei sospetto e preoccupazione più di quanto non faccia di
norma.
Ci sono tuttavia forme di
aferesi anche nella
lingua parlata moderna, il più delle volte si tratta di forme
dialettali o informali. Alcuni esempi:
“Come stai?”
“’Nsomma,
potrei stare meglio”, la ritroviamo nella
celebre aria: “O sole miooooo /
sta ’nfronte a
teeeee” e scommetto
che anche voi avete pronunciato qualche volta
“ngiorno” appena
svegli, omettendo il buon
per risparmio energetico.
Qualche decennio fa, mia
nonna (romagnola) chiedeva spesso se avessi “e
mourous” il moroso.
Ero convinta fosse un termine dialettale finché, tempo dopo scoprii
che anche Manzoni nel capitolo 2 dei Promessi Sposi usava questo
termine scrivendo: “egli pensa alla morosa
ma io penso alla pelle”. Questa parola, che
nelle mie elucubrazioni mentali ho sempre associato all’idea di
debitore, pensavo significasse essere in debito d’amore, il che
ammettetelo, è una visione errata ma poetica. Vediamo invece che
anche il termine moroso
è un’aferesi,
parola che deriva da amoroso e
ha perduto nel tempo, la sua prima vocale.
Ci sono anche parole che,
dopo aver perduto la prima sillaba, possono unirsi alla parola
successiva, come nel caso di questa
volta quando diventa stavolta.
Vorrei ricordare anche che
l'aferesi viene quasi
sempre segnalata da un apostrofo che sostituisce la parte mancante
della parola originale (posto quindi all’inizio) e questo si
verifica prevalentemente in testi poetici, quando una parola che
inizia con una vocale breve è preceduta da una parola che termina
con una vocale lunga o dittongo (due vocali consecutive nella stessa
parola). Inoltre in passato, si preferiva evitare lo iato, ovvero l’incontro tra la vocale finale di una parola e la vocale iniziale della parola successiva, (e vi ho
fatto anche la rima), eliminando la vocale foneticamente meno
importante tra le due.
E quando la sillaba o la
vocale le perdiamo a fine parola, è comunque aferesi giusto? Vi
piacerebbe eh? Invece NO. Questo caso ha un nome tutto suo ed è una
figura retorica a sé
e prende il nome di apocope.
Pollicino continua a
perdere briciole, e noi, a poco(pe) a poco(pe) andiamo avanti!
APOCOPE ED ELISIONE
“Ma come? ne dici una e
ne escono due?” Esatto. Scopriremo presto perché, ma prima apriamo
il nostro vocabolario e vediamo che Apòcope viene
dal greco ἀποκοπή (trans. apocopè, sign. troncamento), quindi
è una caduta di vocale o di più fonemi
al termine di una parola.
In alcuni casi, il
vocabolo tagliato presenta una elisione
(l’elisione viene segnalata da un apostrofo come nel caso di
articoli che perdono la vocale: lo albero l’albero, la altalena
l’altalena, una amica un’amica). Per
dovere di cronaca devo dire che navigando sul web riguardo cosa
considerare apocope e cosa no, ho incontrato pareri discordanti.
Alcuni studiosi ritengono non si possa parlare di apocope
se c’è elisione.
Per quanto mi riguarda, da studente ribelle preferisco fare di tutta
l’erba un fascio, spiegando però quali sono le differenze (in fondo, anche le erbe hanno forme e sapori diversi).
Per aver scelto di non
escludere l’elisione dalla apocope, chiamo in mia difesa i poeti
del dolce stil novo, i quali, in alcuni casi, dove decidevano di
troncare una parola, usavano l’apostrofo finale. Come esempio di
ciò vi mostro un sonetto di Dante e la risposta a questo, di Guido
Cavalcanti.
Guido, i’
vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e
messi in un vasel,
ch’ad
ogni vento
per mare andasse al voler
vostro e mio;
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci
potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di
stare insieme crescesse ’l(aferesi) disio.
E monna Vanna e
monna Lagia poi
con quella ch’è
sul numer
de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi
ragionar sempre
d’amore,
e ciascuna di lor
fosse contenta,
sì come i’ credo
che saremmo noi.
Dante Alighieri
(1265-1321)
S’io
fosse quelli che d’amor
fu degno,
del qual
non trovo sol che
rimembranza,
e la donna tenesse altra sembianza,
assai mi
piaceria sì fatto legno.
E tu, che se’
de l’amoroso regno
là onde di merzé nasce speranza,
riguarda se ’l(aferesi) mio spirito ha pesanza,
là onde di merzé nasce speranza,là onde di merzé nasce speranza,
riguarda se ’l(aferesi) mio spirito ha pesanza,
riguarda se ’l(aferesi) mio spirito ha pesanza,
ch’un
prest’arcier
di lui ha fatto segno
e tragge l'arco, che li tese
Amore,
s' lietamente,
che la sua persona par che
di
gioco porti signoria.
Or odi
maraviglia ch'el disia:
lo
spirito fedito li perdona,
vedendo che
li strugge il suo
valore.
Guido Cavalcanti (1259-1300)
Ma torniamo al 2023 e in
particolare a una circostanza che spesso crea un inciampo: quante
volte incontriamo la parola qual
apostrofata? Pensate a quante volte avete
visto qual’è.
Questo caso, è infatti tra quelli che genera più confusione tra
coloro che non fanno della scrittura un mestiere. Sciogliamo qui il
dubbio ricordando che qual è
va scritto senza alcun
(uh guarda! alcun = apocope)
apostrofo.
L’apocope
è davvero molto usata nella lingua
parlata. Chi di noi non ha mai usato o sentito espressioni come:
Era nel fior
fiore degli anni oppure man
mano che (il fiore ha perduto un petalo e la
mano un dito), e, se vogliamo considerare apocopi le parole con
elisione (quindi con apostrofo), troviamo tantissime espressioni
familiari come vorrei un po’
d’acqua
invece di vorrei un
poco di
acqua; ogni volta che qualcuno scrive pò con
accento, invece di po’ con apostrofo, muore un linguista. Cerchiamo
quindi di tenerli in vita ricordandoci che po’
(al contrario di qual)
necessita di elisione.
Da’
questa penna a tuo fratello. In questo caso
da’ sta per dai
(rientra tra i casi di apocope con elisione) e non è da confondere
con dà accentata
(presente indicativo del verbo dare terza persona singolare) e
soprattutto non è da confondere con il pronome
da. Santifichiamo le maestre che devono
insegnare questo ai piccoli scrittori in erba.
Parlando di accenti versus
apostrofi, vorrei far presente che, chi ha creato la tastiera del
computer non ha tenuto conto di tutte queste meravigliose sfumature
della nostra lingua e, chi scrive sa benissimo che manca una cosa
fondamentale: la è
maiuscola. La terza persona del verbo essere non
è un’apocope e non si può scrivere E' come ci obbligano a fare i
tastini (sigh). Questa cosa mi faceva impazzire fino al giorno in cui
ho imparato a usare alcune impostazioni di word e posso finalmente
scrivere È senza
apostrofo! Yuhuuuuuu!
Apocope obbligatoria e
facoltativa
Nella lingua scritta
l’apocope è
obbligatoria con gli aggettivi santo, bello,
buono quando sono
introdotti dagli articoli il e un
e si trovano
davanti a nomi che iniziano per consonante (il
San Bernardo è un
bel cane, un
buon pasto),
ed è obbligatoria quando abbiamo articoli indeterminativi e
indefiniti derivati da uno
davanti al maschile: ciascuno, nessuno, alcuno
(per esempio nessun uomo).
Infine con alcuni nomi, come frate e suora che
diventano fra, suor,
nei toponimi costruiti
con, valle, piano, colle e altri: (Val
Brembana, Pian
Munè, Col
di lana
che non è una sciarpa). Non dimentichiamo
sostantivi usati come titoli
seguiti da nome proprio (Professor Pinco
Pallino).
L’apocope è facoltativa
in altri casi, per esempio si può dire è
una gran cosa, ma anche è una
grande cosa.
Una regola semplice:
l’apocope si può
effettuare solo se, davanti alla vocale finale che vogliamo
eliminare, c’è una delle seguenti consonanti: L
M N R (che ricorderemo con la tecnica della
frase assurda: la mia è La
Mela Non
Rema,
ma voi createne una tutta vostra).
Per terminare, nonostante
abbia fatto di tutta l’erba un fascio, cerchiamo di ricordare che
tra apocope
ed elisione
ci sono alcune differenze.
Perché ci sia un’apocope,
dobbiamo ricordare che:
1) La vocale A non può
essere vittima di apocope:
non possiamo dire buon caccia;
2) La regola dice che non
si può applicare apocope su una parola plurale: non si può dire
buon giorni (anche se,
da studentessa ribelle, rivendico l’uso di frasi tipo ‘ho fatto
dei gran biscotti’).
3) Le consonanti che
precedono la vocale da troncare possono essere solo le l, m, n e r
(ricordiamo la mela non rema).
L’apocope in poesia è
una figura retorica usata per motivi eufonici (cioè che producono un
effetto gradevole all’udito) e metrici (per rispettare la metrica
di un verso).
(...)
per lo libero ciel fan mille giri
(Leopardi, da Il passero solitario)
Per avere una elisione
dobbiamo usare l’apostrofo, e la parola
seguente quella troncata deve iniziare con una vocale.
In un verso del primo
sonetto del Canzoniere di Petrarca, troviamo tre elisioni (quand’,
altr’, ch’) e due troncamenti (uom, i’)
(...)
Quand’era
in parte altr’uom
da quel ch’i’sono.
Cadono briciole a inizio
parola nell’aferesi, cadono
briciole in fondo nell’apocope,
e se cadono in mezzo? Signore e signori, o come ultimamente si suol
(apocope)
dire signorə, abbiamo la sincope.
SINCOPE
Dal greco συγκοπή,
derivazione di συγκόπτω (trans.: sincopè, sign.: spezzare).
Si
tratta di quella figura retorica per cui la caduta di un suono o di
un gruppo di suoni è all'interno di una parola.
È
parte fondamentale dell’evoluzione della nostra lingua dal latino.
Per esempio è in questo modo che dal latino domĭna siamo arrivati a donna passando per domna, o da calĭdus passando per caldus siamo giunti a caldo, o ancora da ocŭlus, oclu poi divenuto occhio.
In poesia viene usata per dare un suono più rapido, oppure più musicale, mentre nella prosa moderna e nella lingua italiana parlata è praticamente scomparsa; solo i bambini in fase di apprendimento sono bravissimi a fare sincopi, mio figlio era adorabile quando facendo cadere una g diceva ‘salo le scale’. Nei dialetti invece, è una figura retorica che si riscontra molto spesso (per es. in molti dialetti il vocabolo domani si dice dman).
In poesia vi riporto un solo esempio: in un verso del sonetto Alla sera di Ugo Foscolo, "quello spirto guerrier ch’entro mi rugge", è stata usata la sincope nel vocabolo spirto che va a sostituire la parola spirito, una apocope in guerrier e una elisione in ch’.
La
sincope
è quindi una figura
retorica di
carattere fono-morfologico che consiste nella caduta di uno o più
fonemi all’interno di un vocabolo e ne muta la forma. È perciò un
tipo di metaplasmo
(che nulla ha a che fare con la nota marca di omogeneizzati), cioè
una figura che riguarda un cambiamento
di forma di una
parola per aggiunta, soppressione, cambio o sostituzione di fonemi,
col fine di crearne uno nuovo.
Come
dite? State aspettando la mia figuraccia? A voi il compito di riconoscere le figure retoriche di oggi.
Nell’ora
in cui ’l vento tacque
scese
’l verno e ’l gelo sull’acque
e
qual buon spirto o qual tempesta
posò
lo sguardo su steli chini
d’acacia
mimosa man mano che
venne
meno il sogno
d’una
promessa data in sposa.
(Annalisa Mercurio)
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