La
verità è sopravvalutata.
C’è
poi da fare sempre la famosa distinzione tra vero e reale, se proprio
andiamo a vedere. Poi ci sono i sogni, che sono veri, perché appunto
davvero li facciamo, ma non sono reali. O forse sì, dipende.
Si
potrebbe dire: sì, però una certezza l’abbiamo: se una cosa la
puoi fotografare, vuol dire che è vera e anche reale. Può essere,
ecco, meglio se la mettiamo così: può essere.
Questioni
che si sollevano incappando nel lavoro del fotografo Doug Rickard,
americano, nato nel 1968 e purtroppo già morto, un paio d’anni fa.
Laureato
in storia americana e sociologia all'Università della California,
San Diego, Rickard è il fondatore di American
Suburb X e di These
Americans, siti web di
raccolta di saggi sulla fotografia contemporanea, oltre che di
archivi fotografici storici.
Rickard,
come di molti grandi fotografi si può certo dire, cercava
quell’istante che, isolato dal contesto, fosse significante, avesse
pregnanza, s’imponesse. Gli interessava senz’altro l’estetica
data da forma, colore, disposizione dei corpi nello spazio: quello
che si può sintetizzare nel concetto di composizione dell’immagine.
Ma Rickard è andato oltre.
Cosa fa la
fotografia? Ottiene e conserva quel qualcosa che visto, ti fa fermare, come un
gigantesco punto interrogativo nero nel cielo blu. Tanti nomi rimangono nella
storia per la loro capacità di aprire una breccia nel flusso magmatico del
quotidiano. Street photographers indimenticabili, ai quali lo stesso Rickard
racconta d’essersi ispirato, da Stephen Shore, a Robert Frank, fino – anzi,
partendo da - Walker Evans: sguardi che sanno intercettare il momento stregato
in cui una luce sull’asfalto, il gesto di un passate ignaro, il volo spiccato
da uno stormo di colombe sollevate dal misterioso imperativo d’un richiamo
unisono e segreto, diventano perfetti in sé, immortali.
Anche
Rickard si è rivolto al reale: nei suoi scatti si scorgono più di tutto scorci
di quell’America di periferia che sa di dietro delle case, di retro delle
strade, di vicoli ciechi, di quel mondo del mondo dove ci si muove tra una
parte e l’altra della vita visibile. Tutto quell’intrico di viuzze, cortili e
fili della biancheria ospitati da cose intime e usate, vecchie, private. Un po’
come l’ammasso, il garbuglio di travi, cavi, polvere, cose indefinite e parti
indefinite di cose indefinite che stanno dietro le quinte di un teatro di
provincia. Ma è proprio in quell’orlo di tempo e di mondo dove non capita
niente e si passa per andare da un’importanza all’altra della vita, in quegli a
capo stradali, in quel marsupio d’avanzi di tempo e transiti, è lì che
succedono le cose che interessano a Rickard.
Per riuscire in questa impresa, c’era solo un
modo: Rickard non è andato per le strade come tutti gli altri, non si è
appostato nell’abitacolo di un’auto, al tavolino d’angolo di un bar, sul tetto
di un palazzo, a fare quel
people-watching paziente e solitario, in
attesa che la sua dedizione venisse premiata dal momento perfetto in cui,
finalmente, nel mirino rimanesse incorniciata una scena memorabile
Non ha mai
visto coi suoi occhi quello che ha fotografato. O meglio, ha visto l’immagine
di quello che ha fotografato. Anzi, ha fotografato l’immagine di quello che i
suoi occhi non hanno mai visto, ma che altri occhi hanno visto per lui. Occhi
che hanno guardato e guardano noi, per noi. Perché Rickard il vero, il reale
dell’America, sapeva già dove trovarlo, senza dover uscire a raccoglierlo con i
suoi scatti: per oltre due anni ha passato al setaccio millimetro per millimetro,
frame per frame, l’America dell’immenso archivio di Google Street View,
guidando virtualmente attraverso le zone più dimenticate, sorvolando i
quartieri più insignificanti, posti brutti, abbandonati e veri, reali. Proprio
lì, in quell’orlo del mondo, Rickard ha trovato e fermato istanti sullo schermo
e con la sua macchina fotografica posta su un treppiede di fronte al monitor ha
poi fotografato lo schermo fermo su quel particolare frame tratto dalla
piattaforma, ricontestualizzandolo e dotando l’immagine di una patina
astigmatica e poetica, data dalla bassa risoluzione.
(Qui
un bel video sulla tecnica utilizzata da Rickard.
Era il 2007 quando Google diede il via al progetto Street View. Qualche anno dopo, io ero nell’est Europa, quando un giorno, alzando gli occhi dal mio Mac e dal report che stavo facendo, inquadro un’auto che sembrava la DeLorean di “Ritorno al futuro”, con un torrione centrale su cui troneggiava un complesso sistema di telecamere pronte a scandagliare e registrare per conservare i 360° di mondo incrociati nel percorso. Forse ci sono rimasta anch’io nel reale di quel mondo e di quel momento, senza saperlo, o meglio, sapendolo per caso. E chissà in quante altre riprese sono comunque finita, sorvegliata come tutti e tutto da miliardi di occhi puntati su ogni anfratto del pianeta.
Proprio in quell’archivio in crescita esponenziale e mirato a riprodurre il reale in tutte la sua tridimensionale verità e a trattenerlo come una memoria inquieta e inquietante, un doppio della vita, Rickard si è immerso alla ricerca di oggetti da portare in superficie, con la loro bellezza e residuale malinconia.
Geoff Dyer nota che la famosa espressione del grande William Eggleston “fotografare democraticamente”, in Rickard trova probabilmente la sua massima espressione, dal momento che Rickard utilizza “l'onniscienza indiscriminata di Google” per raccogliere e raccontare il reale.
In effetti nasceva così “A New American Picture”, un lavoro originalissimo, per risultato e per la tecnica utilizzata, degno di essere incluso nella mostra annuale “New Photography” al MoMA di New York nel 2011.
Ma Rickard non aveva in mente la denuncia sociale: guardando i suoi scatti non è tanto l’aspetto documentaristico ad emergere.
Nel chiuso del suo studio, lui ha percorso le periferie dimenticate e derelitte alla ricerca di giardini spogli dove dondola ancora un’altalena di corda senza più bambini e stradoni butterati da pozzanghere che hanno bagnato copertoni di passaggio, già via, già lontani, ormai altrove, già ripresi da un’altra telecamera, già diversi, sempre veri.
È nel grande film delle nostre vite inconsapevoli che ha visto un momento sbiadito e l’ha scelto, facendolo diventare quel che non era.
Angoli e ombre, un cane che guarda per un attimo verso una telecamera invisibile ma percepita, come quando d’un tratto ci voltiamo verso qualcuno che non c’è, sentendo tra nuca ed orecchio che qualcosa sta accadendo e siamo veri perché visti e visti perché reali.
La prova della vita. La prova della vita che passa per quelle strade senza nome.
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