(Redazione) su "Auschwitz" di Yehuda Amichai
Dopo Auschwitz non c'è teologia:
dai camini del Vaticano si leva fumo bianco,
segno che i cardinali hanno eletto il papa.
Dalle fornaci di Auschwitz si leva fumo nero,
segno che gli dèi non hanno ancora deciso di eleggere
il popolo eletto.
Dopo Auschwitz non c'è teologia:
le cifre sugli avambracci dei prigionieri dello sterminio
sono i numeri telefonici di Dio
da cui non c'è risposta
e ora, a uno a uno, non sono più collegati.
Dopo Auschwitz c'è una nuova teologia:
gli ebrei morti nella Shoah
somigliano adesso al loro Dio
che non ha immagine corporea né corpo.
Essi non hanno immagine corporea né corpo.
di Yehuda Amichai
BREVE NOTA CRITICA
Questa di Yehuda Amichai, sommo poeta israeliano, è a mio avviso la prima (in senso temporale e di importanza) riflessione poetica sul significato di Auschwitz, non tanto nello strazio di un popolo costretto a ridefinirsi attorno alla somma assenza di D.o, quanto su un riflesso (si riflette su un riflesso, si), simile a quello del raggio di luna su un lago montano la notte.
Stile e lessico del poeta qui sono volutamente piatti, privi di picchi o di particolari afflati descrittivi dell'abisso.
No, il poeta qui ci parla di un effetto della Shoah apparentemente secondario, rispetto al dramma che ha rappresentato, ma di fatto uno dei più duraturi e imperituri.
Il D.o celato della tradizione ebraica, il D.o non manifesto, se non in rari casi, la voce sottile di silenzio dell'episodio di Elia, diviene in questa poesia, se vogliamo ancora più assente dopo la Shoah, dopo Auschwitz.
E questo è definizione di quella nuova teologia su cui ad esempio Jonas ci ha spesso invitato alla riflessione, arrivando a negare l'attributo della onnipotenza divina.
Il fumo bianco del Vaticano manifesta il legame tra D.o e l'uomo, per il poeta, ma quello nero dei forni crematori sono un atto di accusa, forte e potente.
Non a D.o, che è assente come chi, chiamato, non risponde al telefono, ma agli dèi.
Il D.o unico lascia qui dunque spazio al ritorno degli dèi, plurali e umanizzati nella descrizione del loro limite: non saper salvare.
Una poesia disarmante a cui sarebbe troppo facile rispondere che Auschwitz non è l'assenza di D.o all'uomo ma dell'Uomo a D.o.
Troppo facile, sembra dirci Amichai, perché ci sono quei numeri telefonici tatuati sul braccio, a prova di una chiamata non risposta, di una comunicazione alla quale il ricevente si dimostra non disponibile.
E con questa mancanza di disponibilità di D.o al dialogo, sembra dirci il poeta, noi esseri umani dobbiamo fare i conti.
Due assenze che si sommano, ecco di cosa parla questa poesia.
Non solo non c'è D.o ma non è più possibile, dopo Auschwitz, alcun discorso su Dio, alcuna teologia.
La conclusione del poeta è ancora più disarmante dell'esordio del componimento e fa riflettere con immediata efficacia su cosa sia il senso profondo del poetare.
L'assenza di D.o ai campi ha reso l'Uomo ancora più a sua immagine e somiglianza, perché l'ha reso senza corpo, né immagine corporea.
L'ha reso fumo, assenza a sé stesso e al mondo: vittime e carnefici assimilare nell'assenza.
Le prime fisicamente rese polvere, le seconde auto-rese assenti alla spinta etica primaria dell'essere umano, divenute bestie.
E D.o assente alle chiamate telefoniche tatuate sulle braccia, di un popolo implorante.
Il tutto viene detto con la semplice linea poetica che solo Amichai sa avere, senza ammiccamenti posticci allo stile e al vezzo, senza orpelli o richiamo facile a uno strazio che quando si parla di Auschwitz è in re ipsa, e non va detto per rispetto al terribile iato che esiste tra ogni parola sui Campi e ciò che i campi sono veramente stati.
No Amichai su questo tace, col rispetto di chi conosce quella storia moto più di chiunque altro, e dice altro.
Ma è un altro battente e che spaura.
Perché il fiume di assenza della Shoah non è finito con quei sei milioni di vittime, un milione delle quali di età inferiore ai tredici anni, ma continua a battere sul suo tamburo, sembra dirci Amichai.
E continuerà per sempre, dico io.
Per la redazione de Le parole di Fedro
il caporedattore - Sergio Daniele Donati
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