Infinito
all'album dell'oblio
e crescere - crescere lenti -
nella sensazione di qualcosa
che batte alla parete di gomma
delle nostre dimenticanze.
Respirare, quasi fosse
un atto dovuto,
e dimenticare il patto, il sigillo,
per poter vivere - soli -
l'illusione della solitudine.
E dialogare con ombre
e voci semite la notte
senza comprenderne la lingua
sapendo che i piedi non sanno
camminare sul terreno instabile
del sogno se non sorretti
da un'etica verticale e onirica.
Ascoltare timidi il monito
e ricordare che il sogno è dedica
e che dei nostri viaggi notturni
si nutrono i nostri figli.
E allora pregare - sì pregare -
un dio assente e non creduto
e sentirne il mugugno lento,
chè il divino è risvegliato
e liberato dalla nostra parola;
la parola vera e unica ed eterna
d'un uomo troppo piccolo
per non dirsi potente,
come l'atomo.
E vivere ogni mattino
l'ossimoro del risveglio
e sapersi strani al mondo,
forse deliranti, e rifiutare
ogni definizione di poesia,
ché definire è lamina;
dar fine a ciò
che non può aver inizio
perché già scritto - e detto -
dalla notte dei tempi.
E inclinare lo sguardo
alla bellezza d'uno sguardo
femminile sul percorso,
e desiderare una via comune,
un viale stretto e senza alberi
colpito da un sole implacabile
da percorrere assieme
millimetro dopo millimetro
e soffermarsi sugli infiniti
e piccoli spazi dell'assenza
di ricerca di senso.
E trovare ombra tra le iperboli
e i chiasmi e le allegorie
della poesia delle foglie,
tra gli adynaton e gli appoggi
dei crateri della luna;
sapere, in altre parole,
che è la natura
il grande retore,
e il grande rettore
del sogno nostrano
di essere accolti.
E finalmente piangere
e versare sale su un'esistenza
troppo insistente a ignorare
il bello per parlare del giusto
E coprirsi i volti
con il manto sacro
della confessione silenziosa
- elencare i nomi infiniti
e quelli che ebbero fine
e dirsi incapace
del folle compimento
della missione della memoria.
E chiedersi se si possa mai
essere devoti e religiosi
verso un assoluto che spezza
legami per mostrarti il nuovo
che ti impone l'abbandono
e il taglio della selce del deserto
sulle piante dei piedi
per capire te stesso,
la lontananza di un esodo da sé
la lacrima di madre su guance
troppo secche per godere
dello spettacolo dell'evaporazione.
E poi:
- in elenco stretto e incompleto -
inquisizioni, tagli delle barbe,
roghi, cacciate, stelle gialle,
finti messia, figli deicidi,
capaci di uccidere
nel suo stesso nome
un padre troppo occupato
dall'idea di riparazione
per perder tempo con il nuovo.
E poi campi
- campi della morte -
per un popolo nato pastore.
Io li ho visti danzare nelle retine
questi infiniti. Erano terra,
anzi terre rosse dove piantare
docile il seme della mia follia.
Foto e testo - inedito 2023 - di
Sergio Daniele Donati
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