Odi Sannite
Frontiere
Poi ci sono le frontiere,
quelle che io non varco,
perché figlio
di un imperativo cogente.
E le vorrei rispettate da tutti
- quelle frontiere -
come Colonne d'Ercole.
Eh sì, ci sono le frontiere,
le barriere che io non varco
conscio che saper stare
"al di qua" di una ribellione
adolescente e immatura,
a un millimetro dall'abisso
è il segno d'una assunzione
piena di ruolo.
"La postura della sentinella
sul crinale del limite.
È questa la mia ribellione".
E li vedo - gli altri -
varcare ebeti quella soglia,
incoscienti della fatica
di un "no protratto"
al canto delle sirene.
E ne sento le urla,
mentre si spezzano le ossa
contro gli scogli
acuminati dell'incoscienza.
Sì, ci sono le frontiere
che io non varco
per poter stare a guardia
di un limite che mi dà nome.
E lascio che che le varchino altri
e ne ripeto in silenzio
l'urlo di terrore per lo schianto,
tanto simile a quello
di un uccello contro un vetro.
È questo l'unico modo
a me concesso di dar loro
degna sepoltura.
Chiamata
Prima è la chiamata,
la supplica che scardina
e piega a terra il bisogno.
Non può scrivere chi
non è scritto dal vuoto.
Solo allora arrivano le voci
e quell'istante congela i polsi.
È necessaria una rinuncia,
un atto di trasferimento
del pennino al direttore del coro
e capita di sentire nostalgia
di illusioni assorbite
da terre brune.
Lo spazio allora diventa tempo
e "ascolto" il progetto.
Ogni scrittura è atto corale,
plurale e collettivo
in cui l'unica paternità
che si può gridare forte
è quella della propria evanescenza.
Pianto antico
Altilia (Sepino)
Mi dici di tacere
e io taccio;
mi dici «siediti e ascolta»
e io, allievo eterno
della tua voce, obbedisco.
Poi comincia il tuo lento canto
e colano sulla mia fronte
olii antichi e voci di silenzio,
là, nella terra azzurra
della mia speranza.
Tu plasmi la mia argilla
e dai forma a un uomo
senza nome, né volto.
E mi parli della moltitudine,
della catena delle generazioni,
del sangue millenario
che nutre i miei midolli.
Io piango, perché solo il corpo
può tradurre in resina
la potenza del tuo messaggio.
E mi trasformo, mi trasfiguro
mentre cade a terra
- io finalmente arreso -
l'ultima mia maschera
di coccio verde, color muschio.
Sono stato qui già prima
e tu - non io - ne hai memoria
e scavi nei miei fanghi
- col setaccio sacro del Mito -
a cercar pepite e gemme preziose.
Io piango: la via del ritorno
è a spirale e ogni passo
marca il segno
del non ritorno al palcoscenico.
Piango e cade a terra ogni finzione,
ogni simulacro, ogni vessillo.
Il bello scardina e sconquassa;
l'Antico ricuce con fili
di rame memorie perdute,
le lega al corpo che si fa
lacrima densa di consapevolezza.
Io piango, piangi anche tu
con me, ti prego.
Non sia solitaria la mia trasformazione
in ciò che da sempre sono.
In ciò che da sempre
ho rifiutato di essere
per inseguire il fantasma
d'una parola iniqua e fallace.
Io piango, tu reciti formule
che donano vibrazioni
al mio sterno bambino.
Ci fosse mio padre qui,
ora, a veder il mio volto
forse riuscirebbe per una volta
a trasformare l'inciampo
del suo sacro passo di profugo
nella carezza che,
da sempre, mi parla nel sogno.
Sacro
Mi chiedi del sacro?
Lo sento arrivare di lontano
senza fatica, né intenzione,
da luoghi a me interdetti.
Un senso di comunione antica,
di interdizione accettata
con un sorriso piegato
dall'ironia dell'esistenza.
Là, tra le crepe dei gradini
si parla una lingua
che ignora elevazione;
eppure eleva eccome
- al cielo - la funzione
sacra della metafora.
È il passo involontario
che ti fa tornare
all'inciampo sorridente e bambino
e che conosce solo la melodia
di ciò che va fatto
perché si perpetui nei secoli
il respiro dell'uomo.
Avrei voluto cadere
su quei gradini
e sbucciarmi
ancora una volta
le ginocchia sulla pietra,
perché io ho memoria
della gioia suprema
e sacra e testarda
di un uomo-bimbo capace
di ridere della caduta
e di provarci ancora.
Canta il silenzio
Seppi allora che
non esiste luogo,
né tempo, né intenzione
che non sia permeato
dal canto del silenzio;
e che produce acufeni
l'oblio di questo dono.
Timidezza
Sai bene anche tu
della timidezza del Sacro
e della coperta di silenzio
che cela ogni suo gesto.
E sai che il timido
tiene per mano il ritroso,
e assieme sorridono
alla stasi del tempo
quasi fosse riflesso ocra
- o terra rossa
in cui immergere le mani -
la chiusura delle nostre
palpebre e delle nostre parole.
Ci tingiamo il viso di segni
- lo sai -
perché dietro la nostra
maschera di giada
parli l'attore solitario,
il creatore celato,
l'autore che attraversa
i nostri midolli con scritture
di resine e ghiacciai.
E sai, e se non lo sai
apprendilo ora,
che nulla è più profano
che un dir del sacro
incapace di volo.
Là stava la stele
e io non la guardavo
perché restasse
- ancora e per sempre -
senza esser vista.
Là, nel deserto dei miei
avi, ha radicato il seme
di questa scrittura spontanea
che ora mi attraversa;
là nel luogo senza nome
ove dirsi uomo è impossibile
e pietre nere tagliano
le piante di piedi
che sgorgano verdi linfe
ho dato nome a un fuoco
che non ustiona i palmi,
se nella mani sai riconoscere
- tra i solchi di una vita ingrata -
la gioia eterna del bambino.
Fatica il gesto
non sorretto dal sogno
e tace la notte
ogni chiamata straniera.
Alla lingua vegetale
piace cullarsi
sul dondolo della memoria.
Eppure timbri di zoccoli
su un selciato antico
trascinano altrove.
Io resto cauto,
conosco il periglio
del viaggio
e ne preferisco l'attesa.
Cerco la penombra
e lascio che i miei passi
siano guidati.
Ti chiederai; da chi!?
Poco importa!
Non canto mai da solo.
E mi chiedi di tacere
mentre parli la tua lingua antica.
Eppure la domanda
che mi si strozza in gola
non so tradurla
nei tuoi voli di rondine.
E so bene che ciò che vola lontano
difficilmente torna planando
sui terreni arsi delle sue origini.
Sono altri i passi incerti
che ne sanno riconoscere
il piumaggio nascosto.
Dell'origine noi tradiamo il senso
ogni volta che le nostre iridi
rifiutano di posarsi
sulle argille ormai secche
che hanno dato loro vita.
del mio primo respiro,
e ciò che sarà dopo l'ultimo,
e ciò che non trova ugola
per essere cantato,
e ciò che si canta da troppo tempo:
tutto questo si ferma qui,
nei battiti di un cuore aritmico
che piange da sempre
la gioia del bimbo
davanti allo sguardo giocoso
d'un cucciolo di cane.
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Foto e testi
- inediti 2023 -
di Sergio Daniele Donati
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