SPECIALE: Conversazione sotto il pergolato (la "poesia" per Cristina Daglio e Sergio Daniele Donati)
CRISTINA: Sabato
sera al Nuovo Armenia non ti ho riconosciuto e allora facciamo
finta che ci siamo dati appuntamento al bar All’Angolare per
poter stare tutto il pomeriggio sotto il pergolato coi tavolini
d’epoca e le restrizioni puriste nelle consumazioni e parlare.
Ci hai fatto caso che è
sempre più difficile sedersi ad ascoltare poesia e a parlare di lei
senza che qualcuno poi non ti dia il suo libro da leggere (e se
possibile scrivi due righe?). Una volta non era così. Quando io mi
sono affacciata al mondo degli scriventi si andava a sentirli, si
prendevano appunti e poi si tornava a casa con qualcosa su cui
riflettere, mille letture nuove e magari qualche indirizzo con cui
poi iniziare uno scambio epistolare. Quasi mai si prendeva la parola
se non per fare domande, ora invece il trend è quello di fare un
intervento parallelo, di quelli che sia chi ascolta sia chi è
relatore guardano pensando “e la domanda qual è?”
Abbiamo perso la lentezza
dei gesti, io per prima, non mi tiro fuori, ma mi sono ritagliata
attimi di fermo immagine in cui leggo ascolto e scrivo per
confrontarmi con gli altri. Per questo oggi ti ho chiesto di tenerti
libero tutto il pomeriggio. Io mi alimento di condivisione con gli
altri, sono un animale strano fatto di relazioni.
SERGIO: Oh, quanto
hai ragione, Cristina. Il tema della lentezza, a me tanto caro,
sembra ormai dimenticato dai più. Così come dimenticato sembra
essere quello della necessità in primis di sviluppare
l’ascolto, prima di poter parlare di scrittura e poesia. D’altronde
ormai abbiamo omesso quasi del tutto la domanda principe: cosa è
poesia?
E, al contrario, tutto
sembra concentrarsi su un corollario a mio avviso del tutto inutile.
Sembra quasi che ci sia
un affanno a dirsi - o definirsi - poeti prima di essersi chiesti
quale argilla sacra si maneggi quando si scrive un verso.
Sembra sempre di più
dimenticata un’idea di poesia e scrittura come attraversamento,
come fenomeno ben più ampio del piccolo respiro del poeta. E, certo,
in questo non saper vivere la lentezza ha un peso.
Perciò sono molto felice
di questo nostro incontro sotto il pergolato. E ti voglio porre una
domanda.
La scrittura - la
poesia - è davvero proprietà o possesso del suo autore? O forse non
è più vero il contrario che i versi di chi scrive sono sostenuti da
un flusso millenario che inizia molto prima di ogni individuo e
terminerà, se mai terminerà, solo molto dopo la dipartita di quello
stesso poeta?
Ecco più che la lentezza
io patisco molto gli aggettivi possessivi messi davanti a scrittura
o poesia.
Non so dire cosa sia
la MIA scrittura…non so nemmeno se esista, anzi penso che
non esista proprio.
Per me poeta è un
recettore e traduttore e, se è in gamba, diffusore di voci altrui,
sempre.
Ecco vorrei sapere il tuo
pensiero su questo.
CRISTINA: Andrò per punti perché mi hai dato tanti stimoli. Primo il tempo: credo che sia l'unico vero grumo che accomuna tutti gli esseri umani sulla terra. non lo si può possedere, solo investire di valore con quello
che si decide di fare (o non fare).
Prenderlo, concederselo
meglio, è qualcosa che nella nostra società sta diventando un
lusso. Siamo sempre alla rincorsa della notizia, dell’ultima
uscita, in fin dei conti dell’ultima parola o la prima. Ma il mondo
letterario è sempre in debito e in credito col tempo. I libri ci
permettono banalmente di viaggiare nello spazio ma anche nelle
epoche; dall’altra parte ci obbligano (o dovrebbero) a concentrarci
su un testo sul suo sapere comunicare o al contrario celare un
contenuto. E questo ci lega al secondo punto: l’ascolto.
Ci perdiamo costantemente
nel mare di informazioni che ci circondano e queste provocano rumore
di fondo (questo accade anche nelle scritture che vengono proposte su
qualsiasi tipo di piattaforma oltre ai libri) che può sviare
l’attenzione. Il testo, qualsiasi forma abbia, necessita di cura,
prima da parte di chi lo produce e dopo da parte si chi ne fruisce.
Attenzione alla struttura ma anche all’uso delle parole, o se
vogliamo della Parola. Quella cosa che ci rende diversi dagli altri
animali e che ci permette di comunicare, ma va oltre; riempie di
significati diversi lo stesso grafema oppure ne indica uno solo,
preciso, impossibile da confondere. E questo è un potere che ha solo
il linguaggio umano. La parola umana. Per questo va ascoltata
attivamente e rispettata, nel contesto in cui viene scritta (e qui ci
sarebbe da aprire una lunga digressione sulle revisioni che non
tengono conto del luogo e del secolo in cui si scrive) e
nell’intenzione in cui viene scritta oppure interpretata (questo se
parliamo della poesia performativa per esempio e che mi trova
concorde con chi afferma che non vada stampata).
L’attenzione e il tempo
da dedicare allo studio e alla sedimentazione di un testo sono ancora
più necessari quando si parla di poesia.
D’altro canto lo hanno
detto in tanti grandi prima di me: la poesia non deve mai chiudersi
nel testo, cioè deve dare una dimensione altra che ciascuno va a
riempire (con interrogativi più che con risposte, io auspico). Vero
è, e ne ho discusso spesso con autori, che deve anche lasciare
qualcosa altrimenti resta una lettura sterile che passa e va.
Solo la Storia saprà poi
definire chi resta (per la società) e chi invece ha reso vuote le
parole.
Già nel lontano 1998
qualcuno, Massimo Morasso, durante una conferenza all’università
di Genova (io ne lessi la trascrizione su una rivista) diceva che era
impossibile definire cosa è la poesia mentre si può in qualche modo
intuire chi sia il poeta.
Ma, per rispondere alla
tua domanda, secondo me sicuramente la Poesia non gli appartiene,
ciascuno ha una sua poetica, una sua voce, un suo modo di stare sulla
pagina ma la Poesia è un qualcosa che ci chiama e ci lega gli uni
agli altri.
Io l’ho sempre
concepita come una via di condivisione, di relazione tra la pagina,
il sentire di chi legge (o ascolta) e ciò che ne scaturisce; ma
sempre con la necessità di essere messa in centro tra più persone.
Leggere e studiare fine a sé stesso diventa secondo me limitante e
infruttuoso. La poesia oggi dovrebbe essere confronto e stimolo. Ha a
mio parere a che fare anche e soprattutto sulla dimensione sociale e
civile dello scrivere. Ecco chi scrive ha una responsabilità e a
volte nella nostra società impregnata di immagini e d’immagine ce
ne dimentichiamo.
In fondo la lettura e
l’ascolto si nutrono del silenzio in cui nascono.
Hai usato la parola
traduttore, io preferisco che questo lemma si leghi sempre all’atto
di tradurre vero e proprio e qui ti chiedo di poter citare Pierluigi
Cappello che diceva che tradurre è come prendere una ragnatela in un
angolo della casa e doverla spostare in un altro angolo senza che si
rompa. Ovviamente parlava della traduzione dialettale ma secondo me
si adatta bene all’idea del dover andare oltre il testo fisico
della poesia.
Quindi io non parlerei di
traduttore per chi scrive in italiano quanto di proiettore. Mi
spiego, non si tratta di passare da una lingua a un’altra ma di
saper comunicare anche una realtà altra, un altrove oltre i singoli
tratti delle lettere e dei lemmi.
Ovviamente i buoni poeti
ma anche gli scriventi in generale sanno e sono consapevoli che
dentro di loro serbano e custodiscono tutte le letture che li hanno
formati, quindi sì in qualche modo perpetuano anche chi ha scritto
(e lasciato il segno) prima di loro. Si parla spesso degli spettri o
fantasmi che ci abitano, a volte è più palese altre molto celata,
ma la loro presenza c’è e in qualche modo qualcuno è anche
riuscito a riconoscerli come padri o madri della propria scrittura
(qui il riferimento va al volume di Tiziano Broggiato per Pellegrini
editore, ma anche alla recente antologia dedicata alle poetesse del
Novecento curata da Isabella Leardini per Vallecchi).
SERGIO: Grazie davvero
Cristina. Questa tua risposta è talmente densa di richiami per me
che dovrò anche io dilungarmi su alcuni punti essenziali.
Anzitutto, hai ben fatto
a citare il silenzio. La relazione tra silenzio e parola, mai
troppo esplorata, è per me il centro di ogni discorso sul poetare.
“Ogni parola, ma
anche ogni lemma, dal silenzio sorge e al silenzio ritorna” è
un motto che ho fatto mio da tempo.
La sorgente silenziosa di
ogni parola è scritta simbolicamente in tanti alfabeti antichi. Ad
esempio quello ebraico ha come prima lettera la Alef, che è segno
grafico afono, muto, direi quasi impronunciabile e che, a livello
simbolico, rappresenta quel lato indicibile e immobile su cui ogni
dire poggia e dal quale trova nutrimento.
In altre parole, nasciamo
come poeti essenzialmente muti incapaci ab origine di
contenere il Tutto nei limiti stretti delle nostre parole. E,
tornando al tema del tempo, questo è molto connesso all’idea della
relazione sempre fertile tra un silenzio che è eterno,
immutabile, stabile e immobile e mai del tutto comprensibile, e la
parola che è per sua stessa natura un divenire, una dinamica,
un movimento che ha una nascita, un apice e una sua morte.
Chi come me abbraccia
un’idea di poesia che sostanzialmente è ascolto poi non
ignora il valore etico di un altro tipo di silenzio.
Ogni parola che scriviamo
nasce da un atto di abbandono di tutte le altre parole che non
abbiamo eletto perché lascino un segno sul foglio.
Ecco dunque che viene in
gioco quindi un altro elemento legato al tempo e al silenzio.
Ogni nostra parola è
sempre portatrice della memoria di ciò che non si è detto - per
scelta, per intuizione e anche per caso - e il “buon poeta” in
un certo senso sa tributare nella sua scrittura un attimo
impercettibile di ricordo di ciò che non è stato nella scrittura.
Ed è in questo a mio
avviso che la scrittura, ontologicamente, non può, come dici anche
tu, rinchiudersi nei testi, perché è sempre sostenuta da ciò
che di extratestuale abbiamo “sacrificato” sul suo altare.
Poi è per me centrale
una banalissima constatazione. Nasciamo nel linguaggio e nel
linguaggio ci trasformiamo. E il luogo di una nascita non è mai il
neonato. Voglio dire che esiste un flusso millenario di voci, di
parole dette, pronunciate, scritte che ci dona nascita sia come
esseri umani che come poeti.
Tutto è stato già
detto e le voci che arrivano al nostro orecchio - o ai nostri
occhi in forma di immagine - vanno diffuse ovviamente filtrate dal
nostro prisma interpretativo. Ma tale prisma è anch’esso figlio di
una storia, non è creazione nostra individuale.
E proprio la tua immagine
della ragnatela mi aiuta in questo scambio. Possiamo affinare
le tecniche e le cautele per trasportare la ragnatela intatta
altrove. Ma non siamo noi il ragno.
Il ragno è altrove in un
non tempo e ci parla una lingua che comprendiamo solo in
parte.
D’altronde nella
mitologia della poesia questo era un dato più che
consolidato. La poesia non apparteneva al poeta. Era dettata da Muse,
Daimon, Divinità più o meno benevole, mai frutto della sola
fantasia dell’autore. In questo era simile a ciò che rappresentava
per il profeta la stessa profezia. Il profeta era - e credo anche il
poeta - colui che trasmetteva ai destinatari messaggi di una divinità
che certo non coincideva col suo Io (ancor meno col suo Ego).
Ecco io credo che poesia
sia essenzialmente atto di spoliazione e abbandono e che nel vuoto
che si crea in quella caduta di maschere posticce si crei lo spazio
per l’ascolto delle voci dell’altrove che il poeta
diffonde. Per questo rifuggo i possessivi vicino ai termini scrittura
e poesia.
Certo la mia è una
visione un po’ antica e legata a una sacralità (non per forza
teistica) del gesto della scrittura. Una visione legata quindi al
corpo.
E quindi vengo alla
seconda domanda per te.
Il Sacro e l’Antico
hanno ancora un posto nella poesia contemporanea per te? E qui
intendo un posto centrale e generativo, non l’uso di quelle
categorie come orpello o come termini per indicare una mera affezione
col passato.
Il senso di questa
domanda per me si rafforza con una semplice e triste constatazione in
merito a tante scritture che fanno attualmente parlare di loro.
Ho l’impressione che
buona parte della poesia contemporanea abbia perso quel filo di lino
sottile che le collegava con un passato importante, che ne abbia
talmente perso coscienza da non essere nemmeno più capace di
rifiutarlo scientemente. Semplicemente, e tristemente, non posso non
constatare che quel filo viene spesso ignorato, senza nemmeno il
coraggio di spezzarlo per scelta.
Ecco, su questo vorrei
avere il tuo autorevole parere.
CRISTINA: Parto da una
constatazione non mia ma che nella sua semplicità è illuminante.
Sono stata recentemente a uno speach di Vera Gheno nel quale ha
recitato parte della partitura teatrale che uscirà nel suo prossimo
libro Einaudi e in una parte per me di recupero di conoscenze
scientifico-mammistiche ha detto “noi esseri umani veniamo al mondo
e moriamo con la parola”. Sostanzialmente iniziamo a essere nel
momento in cui abbiamo un nome e cessiamo di esistere nel momento in
cui viene nominato il decesso. Quindi anche sociologicamente la
nostra vita è parola, e a maggior ragione è parola ciò che
l’intelletto e va a distillare. Come dici bene lo scrivere poetico
è un epurare e secondo me un esaltare il linguaggio, voglio dire che
se facessimo una disquisizione su un dipinto o una fotografia la
poesia sarebbe il particolare che dona luce a una perla oppure la
carta straccia che disturba la vista del passante. È l’idea di
Bellezza, quella che ti fa rimanere in silenzio a contemplarla, è la
ricerca del Bello, la tensione che sta dietro a ogni singola scelta
umana. Da quando siamo nella pancia (e questo lo dicono le
neuroscienze e gli studi sull’evoluzione) l’essere umano in
quanto animale cerca di soddisfare i suoi istinti tramite il piacere.
La suzione mi fa produrre serotonina e mi sento bene quindi ricerco
quella sensazione. Credo che per chi si occupa di Arte (e qui allargo
un po’ il cerchio perchè vale per tutte le arti, dalla musica alla
grafica) la ricerca di espressione del Bello, ciò che mi provoca
godimento a livello intellettivo sia la molla. A questo punto è
ovvio che il Bello che ciascuno ricerca si sia formato nel corso del
tempo attraverso l’esperienza che si è fatta di quell’arte, di
chi prima ne ha tratto qualcosa che ci colpisce. E secondo me non è
mai una visione di insieme, lo diventa in seconda battuta ma
all’inizio è un dettaglio, qualcosa che ci richiama fortemente
verso quella tale opera. Nel mio caso e nello specifico della poesia
può essere un verso stupendo recitato durante un reading, quella
sequenza di parole che fa brillare la mia mente e fa sí che poi la
percezione di ciò che viene dopo sia cambiata.
In fin dei conti si
tratta sempre di capire quanto si è permeabili a ciò che ci
attraversa. Voglio dire, io so, oggi, di essere una gran
privilegiata: sono nata nella parte “giusta” del mondo, ho la
pelle chiara e sono una donna (quindi rientro nel codice binario che
per i più è quello riconosciuto e accettato), ho la possibilità di
definirmi, ho un lavoro e mi posso permettere di seguire le mie
passioni. Più di metà del genere umano non può mettere in fila
tutte queste cose.
Sono stata istruita e ho
avuto la possibilità di confrontarmi con dei grandi Maestri e con
ottimi interrogativi fin da adolescente perché la mia indole curiosa
mi portava a cercare sempre nuove domande. Si può essere
attraversati da tutto questo e non cambiare? Si può leggere un libro
e sia che lo si ami sia che lo si trovi brutto non assorbire nulla da
lui? Per me, per la mia esperienza no. E ho usato esperienza
volutamente, perchè quel bagaglio di tradizioni e forme che
chiamiamo cultura si deve toccare sulla propria pelle, deve ferirci
in maniera irreversibile, formare una cicatrice che ci ricorda che
abbiamo interiorizzato quella cosa. Quindi sì, chiunque lavori nel
mondo della cultura ha in sé e tesse un filo con i significati delle
epoche passate. Occorre però essere consapevoli delle proprie
lacune e delle proprie ignoranze: io per prima ho dovuto formarmi su
molte cose da autodidatta e ho dovuto anche capire che talvolta non
si è pronti ad accogliere un testo, un autore, una voce
semplicemente perché occorre l’esperienza che ti porti a quel
testo a quella voce a quell’autore.
Esempio pratico, quando
pubblicammo il volume “Magnificat” di Cristina Annino ero ai
primi anni di attività e il volume vinse il Premio Montano. A Verona
conobbi Annino e lei mi disse alcune cose che ho compreso solo
qualche anno fa e andando a rileggere i testi finalmente li capii,
cioè i suoi versi sono potuti finalmente scendere in profondità
scavare un solco importante dentro di me. Prima, sapevo che erano
versi potenti, che erano scritti magistralmente ma non erano
diventati parte di me, della mia esperienza della parola.
Quando una cosa, una
scrittura ti ha permeato, penetrato quanto più possibile, solo
allora credo che un poeta possa decidere se tenere quella tradizione
nel cassetto oppure smontarla per fare altro linguaggio. Un po’
come per i Lego: i pezzi sono quelli ma ciascuno può costruire un
mondo diverso, non si scappa dagli incastri però.
Chi legge poesia secondo
me si accorge abbastanza presto di quando una costruzione si basa su
letture e ripiegamenti e quando invece è fine solo a una forma
riconosciuta come sperimentale, di rottura, della tal linea ecc.
Poi c’è anche il
discorso dei personaggi cioè molti intellettuali (e anche qui
generalizzo) talvolta si perdono nell’immagine che hanno costruito
intorno a loro dimenticandosi della centralità della parola e del
dialogo. L’autoreferenzialismo e la mancanza di prospettiva
temporale nel futuro, la non volontà di sostenersi o di mettersi in
relazione con altre realtà sono il vero male della nostra società
letteraria. E uso questa definizione un po’ se vuoi abusata, ma per
contrapporla a quella di Comunità letteraria: la società per
definizione è un insieme organizzato di individui atti a un fine
comune; la comunità un insieme di persone unite tra loro da rapporti
sociali linguistici ed etici.
La differenza è banale,
ma sta tutta nella visione che sta dietro e all’oggetto. Nella
società c’è solo il fine comune, nella comunità ci sono anche i
rapporti e il lessico, se vogliamo un alfabeto che ciascuno va ad
arricchire col suo contributo. Ed è qui che da semplici “spostatori
di tele” si diventa ragni, per quel mm che si è donato perché
anche gli altri possano aggiungere il loro mm alla tela.
Sottolineo che questo è
valido tanto per chi scrive quanto per chi legge. La lettura
solitaria e silenziosa è essenziale, ma non deve mai essere fine a
se stessa. Mettendo in circolo quello che si è preso, ciò che
quella lettura ha sbloccato in noi, le letture successive cui ha
portato (ma può essere anche l’ascolto di una sinfonia o la
visione di un film) si creano nuove strade e nuovi percorsi, talvolta
anche nuovi modi di vedere la realtà o di andare oltre essa.
Ti aggiungo una cosa: io
presto e mi faccio prestare libri da una manciata di persone super
fidate e con le quali ho uno scambio quasi quotidiano di idee. Una di
queste è un autore che stimo e apprezzo molto, Riccardo Olivieri.
Ora lui sostiene e io abbraccio in toto questa visione che ogni volta
che un libro viene letto da un lettore su quel volume ci siano in
realtà almeno due libri. Ed è effettivamente così. Io li annoto,
aggiungo foglietti con le cose che mi vengono in mente. Ho il ricordo
nitido addirittura di una cosa buffa e bellissima insieme: proprio
Olivieri mi prestò un libro di Marco Bellini edito da La Vita
Felice e oltre alle note, nei risguardi trovai gli appunti di
Riccardo su una poesia che poi entrò nel libro che pubblicò con
puntoacapo. Quella stessa poesia è oggi dentro al suo ultimo per
Passigli. Si potrebbe dire che quel filo ci abbia legati tutti, libri
e persone.
SERGIO: Trovo molto
interessante ciò che dici e soprattutto ho provato un piccolo
brivido nel sentirti parlare della possibilità di essere ragni,
fosse solo per quel millimetro in più che aggiungiamo alla
storia della scrittura. E credo che il brivido mi sia stato causato
da una cosa che richiama forte le mie radici ebraiche: l’idea di
sedimentazione.
Io credo molto nella
capacità della parola di sedimentare e appoggiarsi sulle infinite
parole già dette nei millenni dall’uomo e di accogliere, come
calcaree stalagmiti, quelle che verranno.
Per questo mi piace
l’idea di spersonalizzazione della poesia, una sorta di
rinuncia al nome che - come magnificamente dite tu e la Gheno - è la
prima nostra nascita al mondo degli uomini, nel linguaggio. Dirsi
particella di calcare, però, non deve essere confuso con un sterile
esercizio di falsa modestia: al contrario.
È a mio avviso
l’assunzione di un ruolo importante. È sapersi parte della
stalagmite o delle cattedrali di stalagmiti che chiamiamo
letteratura. E anche il tuo richiamo al bello mi ha dato
commozione. Perché io credo che bello, sacro e abisso
(indicibile) siano le componenti chimiche del carbonato di calcio che
costituisce la cattedrale di stalagmiti che, ancora una volta,
chiamiamo letteratura. E ci vuole tutta l’umidità - leggi
protezione - di una grotta perché quel processo di sedimentazione e
stratificazione possa aver luogo. Ecco, una cosa che forse abbiamo
appena sfiorato, ma per me molto importante. La parola va protetta,
curata e custodita e, perché possa germinare, va tenuta come il più
prezioso dei doni nelle proprie mani per poco tempo, perché è solo
a contatto con le parole altrui che diviene capace di esplicare la
sua profonda funzione. Chi scrive - e ancora più chi legge - è
sempre custode, sentinella della parola e della sua sacralità che
non ha bisogno di nessun dio per esistere ma alla nostra innata
esigenza d’ordine ed elevazione si richiama sempre.
Ma il tempo scorre e la
serata volge al termine. Non ti farò altre domande ma vorrei che
dicessi ciò che senti di dover dire a conclusione di un incontro
sotto il pergolato che non dimenticherò mai e che vorrei si
ripetesse ancora, e ancora. Grazie dal profondo.
CRISTINA: Ti dirò che abbiamo toccato tante cose e che tante altre meriterebbero di essere discusse, magari anche in più persone.
Credo e ho sempre creduto nella forza e nel potere delle parole. E nella grande arte della condivisione dei saperi. Credo nella lettura sociale (in circolo, facendosi domande) e nella critica per crescere ed evolversi. Credo che la differenza la facciano le persone con cui scegliamo di rapportarci.
Credo che mi piacerà ritrovarci.
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NOTIZIE BIOBIBLIOGRAFICHE
Durante la pandemia del 2020 capisce l’importanza di una presenza costante e continua degli autori online lanciando la serie di appuntamenti noti come VoltiDiLibri nei quali propone anche chiacchierate e letture di autori Nazionali di altre case editrici.
Convinta da sempre che la Bellezza si crei dalle sinergie si impegna nella promozione della cultura anche al di fuori della realtà editoriale che rappresenta.
A fine 2022 diventa socia fondatrice de Le Cicale Operose di Livorno, per le quali riveste il ruolo di Consigliere, e sceglie le migliori proposte culturali da invitare nello spazio.
Al contempo con Alessandra Corbetta e Matteo Fantuzzi coordina una serie di incontri trasversali di sociologia e poesia presso lo Spazio Tadini di Milano.
Sergio Daniele Donati (Milano 1966)
Ha pubblicato per Divergenze edizioni il romanzo "Tutto tranne l'amore" (2023)
Ha pubblicato per Ensemble edizioni la silloge "Il canto della Moabita" (2021).
Ha pubblicato per Mimesis edizioni (Collana dei Taccuini del Silenzio) il libro: "E mi coprii i volti al soffio del Silenzio" (2018).
Fondatore caporedattore e curatore della pagina Le parole di Fedro, ivi propone alcuni percorsi nel linguaggio poetico e narrativo. Altre sue poesie sono state pubblicate più volte sul vari litblog.
Numerose sue poesie sono apparse su riviste cartacee e online e su quotidiani nazionali.
Avvocato milanese si occupa di diritto commerciale e di tutela dei minori.
Studioso di meditazione ebraica ed estremo orientale, insegna cultura e meditazione ebraica in associazioni e scuole di formazione e tiene seminari sul valore simbolico dell'alfabeto ebraico.
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La seconda parte della conversazione con Cristina Daglio la trovate qui
Bellissimo dire , da rileggere ancora e riflettere , grazie ad entrambi ❤️
RispondiEliminaGrazie di cuore
EliminaMolto interessante. Grazie.
RispondiEliminaGrazie davvero
EliminaAdatto ad iniziare un convegno.itinerante è periodico. Sj studia sempre e per sempre
RispondiEliminaVerissimo, potrebbe essere un nuovo progetto de Le parole di Fedro estendere a più persone le occasioni per queste riflessioni. Ringrazio ancora Cristina Daglio per ciò che ha donato e lei per il commento.
EliminaLa parola è profondità, lentezza, è crepa nel silenzio. Barbara Rabita
RispondiEliminaGrazie Barbara, sì è crepa...fessurazione
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