(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 22 - "Guardiani delle parole": appunti sparsi sull'Etica della Parola - parte prima
di Sergio Daniele Donati
Parlare di Etica della parola poetica - lo si sa bene - significa addentrarsi in una selva di contenuti invisa ai più e, per molti aspetti, avversati anche in modo esplicito.
"La parola, specie se poetica, non dovrebbe avere contenuto etico in sé", si dice, "ma dovrebbe essere sotto costante attenzione solo l'elemento estetico di ogni scrittura poetica".
L'assunto, intendiamoci bene, non è privo di una sua dignità filosofica e giuridica, perché, appunto, confina con ogni discorso relativo al principio sacrosanto della libertà espressiva.
Il poeta, si sostiene, non deve essere limitato nella sua scelta lessicale, formale e/o contenutistica.
Tutto deve poter esser detto, o scritto.
E non sarò certo io a voler negare questo dato di libertà. Tuttavia rimarco che questo ragionare forse si fonda su una visione assai antiquata, e forse sorpassata di etica, secondo la quale la stessa attiene solo al significato di ciò che viene detto o scritto.
Allora ecco una mia iniziale, piccola, personale e confutabile definizione di Etica della parola.
Per Etica della Parola intendo ogni discorso attorno all'origine della stessa, alla sua sorgente, alla sua necessità ed opportunità e, soprattutto, attorno ai suoi limiti.
La parola non è distinta dagli altri aspetti del vivere umano connessi all'ethos; anzi, è forse quello che più incardina la necessità di una profonda analisi di quell'elemento.
Immaginiamo ora per un secondo una scena primitiva e lievemente onirica.
"Mosè e la Torah" - particolare -di Marc Chagall |
Esiste solo la Natura e un essere umano che ne osserva i confini.
Niente è stato ancora detto. Tutto è ancora solo suono, senza significante, senza attribuzione, fuori da ogni richiamo simbolico. Il vento porta un suono, ma ancora non è stato attribuito un nome al vento stesso. Così l'acqua dei fiumi, il suono del mare e delle onde, il fischio di una poiana lassù, in alto.
Sono suoni ancora non ri-conoscibili perché nessuna parola è stata ancora detta su di loro.
E immaginiamo ora che in questo mondo di sogno, forse contemporaneo alla creazione primaria, per qualche genetica mutazione, nasca un poeta.
Egli sente il vento e percepisce che tale sensazione modifica gli spazi e gli scambi a livello epiteliale, osseo, organico. Sente che quel suono senza nome muove qualcosa dentro di lui.
Una voce, una voce che ancora non parla, perché la parola ancora non esiste.
Potremmo definirla una profonda pulsione che gli apre lo sterno, divarica laringe e faringe e lo porta ad emettere un suono, molto probabilmente imitativo di quello del vento, una onomatopea del pleistocene.
La prima parola è detta. E nulla dopo quell'istante potrà mai essere come prima.
Allora parlare di etica della parola significa in primis chiedersi cosa abbia portato l'uomo a dire il suo primo detto, a cercare un mutamento, un cambiamento profondo non solo nella vita dell'uomo ma anche, e soprattutto, nella possibilità di descrivere la propria esperienza.
Dopo quella prima volta, la vita non è più solamente vissuta, può essere detta, descritta, quindi decifrata e compresa.
"L'Uomo che dice" è un essere partecipe della creazione, un essere che fuoriesce dallo stadio animale per riposizionarsi nel cammino della consapevolezza. Certo, è anche un essere che esce, in un certo senso, dal suo stato naturale per divenire un quid di diverso.
È nato il primo narratore della vita. A partire da quel momento ogni cosa detta, ogni sillaba pronunciata, modificherà il creato.
Marc Chagall "Artista e la sua sposa" particolare |
Poniamoci ora una domanda.
Davvero pensate che un percorso simile quello descritto sopra sia foriero solamente di libertà espressiva e non anche di responsabilità nei confronti della parola stessa?
Io credo che possa dirlo solamente chi nega - o peggio ancora ignora - il potere trasformativo sulla realtà che ha la parola, non certo chi sente l'impulso a un dire poetico.
E non parlo tanto della necessità di valutare i contenuti di ciò che si scrive e gli effetti che hanno sugli altri (questo sarà semmai tema di successivi interventi) quanto di essere consapevoli del portato sempre rivoluzionario di ogni parola.
Dietro a ogni discorso etico connesso alla parola, specie se poetica, esiste dunque una necessità di riflettere sul valore centrale della memoria.
Quando si scrive si dovrebbe aver memoria e ricordo di ciò che è stato il percorso della parola, prima orale e poi scritta, per l'essere umano, e anche di quello che individualmente fa ogni parola nel nostro corpo per emergere dalle fangose e silenziose lande in cui si forgia e plasma.
La parola non è percorso solo una volta che, emessa o scritta, giunge ad un destinatario; è lunghissimo e periglioso percorso soprattutto per poter esser detta.
E delle nostre parole - che, lo ricordo, hanno bellissimi false friend e assonanze con la nostra prole - noi siamo i guardiani, le sentinelle capaci di dar loro un nuovo orizzonte.
Come vedete, infatti, non ho ancora sfiorato il tema dell'etica della parola nella particolare accezione degli effetti che le stesse hanno su chi le riceve. Ne parleremo in futuro
Per ora mi limito a fare un brevissimo cenno ad una mia idea di responsabilità, soprattutto di chi scrive, nei confronti delle parole che usa, e a tutela delle parole stesse.
La parola, come ogni cosa, nasce piccola e bisognosa di cura, di protezione, sguardo vigile ed educazione.
Educare le proprie stesse parole come fossero - e per me lo sono - esseri animati e viventi, fragili e non ancora indipendenti figli: è questa la postura della sentinella.
Non appena il nostro pennino sfiora la carta comincia, in un certo senso, a respirare un neonato; ricordiamolo.
Ha bisogno di nutrimento e accudimento e il primo comandamento etico consiste nel non mostrarlo al mondo, come nella cultura tradizionale nipponica si faceva coi bebè, prima che sia pronto per il mondo stesso.
È questo un imperativo pregno di dolcezza, quasi ossimorica: una sentinella animata di cure - tra il materno e il paterno - per le nostre parole/prole.
Ed è per questo che, ad esempio, ogni poesia andrebbe bisbigliata e sussurrata tra sé e sé migliaia di volte prima di pubblicarla in ogni contesto.
È una pratica che rinverdisce la memoria di quel primo uomo/poeta, di cui parlavamo sopra, che ha conosciuto il percorso gigantesco, che ha modificato il corso della storia, dal silenzio di chi solamente vive all'onomatopea di chi sa anche descrivere la vita e la propria esperienza.
Camminiamo sulle tracce dello stesso percorso ogni volta che scriviamo, ancora oggi, e, forse come quel primo poeta, siamo troppo spesso incoscienti della portata etica di questo nostro gesto.
E in questa inconsapevolezza - mi scuserete se sono diretto e forse rude - c'è la stessa violenta incoscienza di chi abbandona un figlio neonato sulla strada.
Per la Redazione de Le parole di Fedro
il caporedattore - Sergio Daniele Donati
"Alla prima parola chiara" di Max Ernst |
Grazie di queste dettagliate riflessione che condivido pienamente.
RispondiElimina"Parole -prole "
un 'espressione che arriva al cuore
Sì, spesso i false friends sono illuminanti a livello simbolico. Grazie davvero
EliminaCi sono momenti del Dialogo in cui esso è Dialogo prima ancora che con l'altro Dialogo con sè. All'interno di questa dimensione che tu tratteggi in maniera così cristallina, avviene la nascita della radice etica: riconoscenza Sergio per questo tratteggiare il dentro del dentro
RispondiEliminaGrazie davvero Anna Rita, sento come una necessità la riflessione sull'etica di parola e scrittura.
Elimina