Lettere a una persona speciale - 67 - Settembre 2023 - "In limine"

 
Foto della grande artista Noelle Oszwald

Lo sai, ho imparato col tempo ad accovacciarmi su voci indistinte; a fingere un ascolto impossibile - di lingue improbabili -, cullandomi all'idea che fosse il suono la guida di ogni mio sentire. 
Eppure sono privo di grazia e non so ben distinguere nel canto degli uccelli le note amorose da quelle d'angoscia.
Così quando scrivo: mi accompagna sempre un senso di perdita, una dilatazione della voragine che abita il mio centro, un desinare troppo cauto coi frutti di un'ansia che conosco troppo bene. 
O forse - me lo chiedo spesso -  è la scrittura la mia vera nemica, il limite contro il quale, testardo dalla nascita, io sbatto un cervelletto troppo immaturo. 
Poi - sai anche questo - ho innalzato barriere e muri alla via a me indicata da un maestro troppo gentile. 

"Percorri la Via con passi delicati", mi diceva.

E ricordo ancora il suo sorriso triste quando mi ostinavo ad opporre a quel mite consiglio lo Sturm und Drang di un'anima sofferente.
Io non ho fantasia, o almeno non ne ho più: mi resta in mano una penna con poco inchiostro e un progetto mai realizzato di trasformazione. 
E, se ancora ti scrivo, è perché il silenzio, sul quale ho speso milioni di parole, mi è divenuto estraneo. 
Parlo la parola che copre, la parola inutile, priva di senso profondo e poi taccio e mi dà pena la risposta di una natura sempre troppo distante e lontana. 
Sono privo di grazia, ed è per questo che mi sono avvicinato al tuo corpo, alla tua voce e alle tue mani.
Era un supplica, un pianto bambino, una richiesta di perdono, per una colpa mai mia, se non quella d'essere nato. 
La belladinotte schiude i suoi colori e i suoi delicati profumi nell'ora del sogno e si barrica nel fortino di una promessa al risveglio.
Così io, da tanto tempo, incapace di essere l'iris che tanti hanno visto in me, mi chiudo, nell'ora del sogno del mondo, dietro coltri di parole, coperto di lemmi e radici, che poco hanno a  che vedere coi deserti che mi hanno visto nascere, secoli fa. 
Io non so dirti la ragione del nostro incontro palindromo, del nostro attrarci e respingerci da sempre come due poli opposti di un magnete. 
Ma so che nello spazio che ormai ci divide per sempre vibra potente una forza naturale che grida al mondo la follia di un incontro ab origine senza futuro. 
Tu resti petalo, io tuono e vorrei tanto posarmi a terra e intravedere tra le stelle la vitalità del primo istante della creazione, di quel "e sia" che giustifica e accoglie la mia claudicanza.
La spada è sbrecciata, petalo, e la seta della tua delicatezza bianca ha una macchia rosso sangue, esattamente al centro.
Un segno, anch'esso palindromo, di un duplice fallimento.
Non ci resta che un autoimposto tacitarsi, il maldestro celarsi di un uomo che non percepisce la gioia del ritorno e di una donna che s'allontana senza nemmeno il sollievo della fuga. 

Balbetto di nuovo, petalo, come da piccolo. Mi si strozzano in gola parole acide e ho perso la penna che sapeva trasformarle in finzioni fertili di poesia. 
Ne tengo un'altra in mano, troppo giovane e inesperta per guidare il folle tratto di un folle sul foglio bianco. 
Continuerò a scriverti e tu a non leggermi, ora come allora, perché nel cortile che vedo dalla mia finestra si respira l'aria di una Milano che cambia stagione e si prepara, negli ultimi caldi, a recitare una cantilena sensuale e matura. 

Tu non leggermi, come sempre hai fatto. Non mi leggo nemmeno io.
Mi leggeva lui, quel maestro triste, e questo - per ora - mi è sufficiente a rimanere in vita. 

Tuo

Fedro.


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