(Redazione) - Figuracce retoriche - 09 - Tautologia, Diafora, Antanàclasi
di Annalisa Mercurio
E siamo arrivati in quel limbo tra l’estate e la sua fine, in cui
le foglie stanche meditano se sia o no il tempo di cadere; stanno per
riaprire le scuole. Questa nostra aula virtuale è rimasta sempre
aperta, e questo venticello settembrino ci porta ‘nuove’ figure
retoriche da esplorare. Apriamo le finestre e lasciamole entrare!
TAUTOLOGIA
Non ho detto
tatuaggio! Ho detto tautologia! Ormai giochiamo con le
paronomasie, stiamo diventando bravi! Avete memorizzato bene il
termine?
Ora torniamo seri, ed entriamo nel vivo della questione.
La tautologia
è una figura retorica nella quale (come in altre figure di
ripetizione) andiamo a ripetere un concetto, allo scopo di
rinforzarlo; solitamente, si utilizza per ribadire qualcosa di ovvio
(per esempio il buio è buio). Perché sia una tautologia, non è
però necessario (come in altre figure retoriche che abbiamo già
trattato) che un termine sia ripetuto tale e quale, infatti, anche
frasi come il buio è scuro o un cerchio è tondo sono
tautologie.
Il termine
tautologia deriva dal greco tautós (stesso)
e lógos (parola, discorso, ragione): stessa parola, o meglio
ancora, medesimo discorso, stesso ragionamento.
Faccio un altro
esempio: l’espressione entro e non oltre è una tautologia:
nella formula ‘si prega di rispondere entro e non oltre il 30
settembre’, ‘non oltre’, è qualcosa di non
necessario, infatti, la frase ‘si prega di rispondere entro il
30 settembre’, sarebbe comunque di senso compiuto e la
richiesta comprensibile, ma la prima versione (con tautologia) è più
incisiva.
Apriamo ora una
finestra su un caso particolare di tautologia: la diafora.
Seguitemi.
DIAFORA
Sarà che ho
studiato arte, ma associo la diafora a una magnifica
finestra: bifora, trifora, diafora! Noterete la forte
assonanza con questi termini architettonici data dall’omoteleuto
(lo trovate qui),
non voglio però associare questa figura retorica a una finestra solo
per assonanza, per questo vi dirò che associo la diafora
a una finestra in quanto ci apre lo sguardo su quello che può essere
il diverso orizzonte di un termine.
L’etimologia della
parola ci dice che deriva dal greco διάϕορος: diverso,
differente.
Allora facciamo
così: bifora, trifora (che non sono figure retoriche ma aperture a
due e tre fori) e immaginiamo la diafora come fosse una
finestra differente, alla Gaudì.
Bifora |
Trifora |
Ecco come immagino la diafora |
So che questa è una rubrica sulle figure retoriche, ma non so tenere a bada la mia fantasia, quindi cercherò di spiegare (a modo mio) come e quando si usa questa ‘finestra diversa’ scrivendo e parlando. Di fatto la diafora, consiste nel ripetere un’espressione caricandola (la seconda volta) di un più ampio significato. “Ahhhhhh, potevi dircelo prima!” direte voi, ma a me piace saltellare qua e là e trovare strane associazioni. Volenti o nolenti, dato che il mio malandato cervello mi permette di salvare ‘dati’ solo collegando cose apparentemente distanti tra loro, questa puntata sarà di retorica e arte e dovrete perdonarmi la piccola dissertazione che segue.
Per comprendere
meglio la diafora, torniamo allora un momento da Gaudì e alla sua
geniale capacità di lavorare sulle forme aggiungendo al compito
pratico degli elementi, significati altri, spaziando dalla semplice
ricerca di stupore alla dilatazione temporale, fino all’allegoria,
tanto che, nel 1933 Salvator Dalì (in un articolo per la rivista
Minotaure) commentò così l’opera architettonica
‘Casa Milà’: “[…]il carattere nutritivo, commestibile di
questa specie di case, le quali non sono altro che le prime case
commestibili, i primi e unici edifici erotizzanti, la cui esistenza
implica questa funzione ‘urgente’ e così necessaria
all’immaginazione amorosa: poter realmente mangiare l’oggetto del
desiderio[…]”
Riprendiamo, dopo
questa divagazione, la figura retorica della diafora, cercando di
capire, in cosa consiste invece, mutare la forma di un’espressione
o di un termine. Facciamo come sempre alcuni esempi:
Siete in una giungla
senza cestino da pic-nic (sì voi, io non mi sposto mai senza
cestino), dicevo siete in una giungla, avete fame e trovate dei
frutti commestibili ma non gradevoli. A quel punto potreste esclamare:
Non è buon cibo,
ma è cibo!
Il cibo è cibo, e
questa è una tautologia, ma, in questo specifico caso, la
ripetizione va a sottolineare che quel
cibo, nonostante non sia una leccornia, è nutrimento, e non
solo, la parola cibo in questo caso, arriva ad assumere il
significato di salvezza.
In letteratura
possiamo trovare diversi esempi di diafora, uno dei più famosi, è
il passo che segue de I promessi sposi:
La mattina
seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo.
Qui Manzoni, nel
capitolo VII, utilizza la diafora con un moto che oserei
definire ironico. Se leggessimo questa frase con leggerezza, potremmo
scorgerne solo l’ovvietà, invece, ci apre un mondo: Don Rodrigo
non è né meglio né peggio (per quanto riguarda Don Rodrigo
suppongo che l’accento cada sul fatto che non sia migliorato) del
giorno precedente, non ha fatto progressi, non ha trovato soluzioni e
tutto questo ci prospetta una serie di possibili conseguenze.
Prendiamo ora un
altro famosissimo esempio:
“Rosa è una
rosa è una rosa è una rosa” (Gertrude Stein)
Chi ricorda Gertrude
Stein? Ammetto con un po’ di vergogna che non sapevo chi fosse
prima di vedere uno dei film a me più cari (Midnight in Paris di
Woody Allen) nel quale una strepitosa Kathy Bates interpreta questa
scrittrice e poetessa statunitense, che dispensa consigli letterari
al protagonista Gilbert Pender (interpretato da Owen Wilson) nel suo
salotto aperto a poeti, scrittori e artisti, in una Parigi dei primi
Novecento.
In questi versi
della Stein (Rose is a rose is a rose is
a rose), leggiamo una prima rosa semplicemente come un
fiore, poi lo stesso fiore si ripresenta a noi in altre forme: può
simboleggiare la poesia romantica, o le spine, ma da qualunque
angolazione lo si guardi resta una rosa, ne sentiamo allora la
fragranza, ne osserviamo la struttura e la consistenza dei petali.
Umberto Eco in La struttura assente si chiede: “è davvero
una rosa, quella di cui parla la Stein? La terza volta che nomina la
rosa intende la stessa rosa della prima volta?[…]Che cosa capisco
io di quello che mi sta dicendo la Stein? Lei dice soltanto “rosa”,
e mi lascia libero di riempire quella parola dei significati che più
mi appartengono e sento vicini. Chiama in causa letture, sentimenti,
congetture. Chiama in causa me.”
Credo si debba anche
tener presente che la Stein amava l’arte e che conosceva bene
Picasso, il quale la ritrasse in un magnifico dipinto esposto al
Metropolitan di New York,
considerato (a causa delle spigolosità)
una sorta di precursore alla fase cubista del pittore spagnolo, fase
che la stessa Stein potrebbe aver ispirato e incoraggiato.
Torniamo ora alla
visione della corrente cubista, secondo la quale potremmo scomporre e
ricomporre all’infinito ciò che vediamo, mutare i punti di vista;
l’oggetto riprodotto non sarà mai l’originale ma resterà
comunque, in questo caso, una rosa.
Quindi
la Stein, oltre ad aver utilizzato una epizeusi (la trovate qui) e aver dato vita a una tautologia (è ovvio che una rosa è una
rosa), ha fatto sì che il termine ‘rosa’ ripetendosi, si
caricasse di volta in volta di nuove sfaccettature, elevandola a
diafora.
Altri rapidi esempi:
quell’arte che
sola fa parer uomini gli uomini
(Giacomo Leopardi
Pensieri)
E ancor più
semplici e quotidiane espressioni tautologiche che possono essere
definite diafore:
gli
affari sono affari
il
lavoro è lavoro
la
guerra guerra.
ANTANÁCLASI
dal greco ἀνάκλασις
antanáklasis ripercussione; in latino reflexio,
conversione, ripetizione in senso opposto.
Ricordate che
abbiamo già chiamato in causa Marco Fabio Quintiliano (retore latino
35-40 d. C), quando parlammo di epanalessi? (la troverete qui)
Lo richiamiamo oggi, poiché egli distingueva la diafora
dall’antanàclasi. Secondo Quintiliano
infatti, si tratta di antànaclasi quando in un
dialogo (in una diafora dialogica) un personaggio riprende
l’espressione usata dal suo interlocutore, variandone il
significato. Oggi, la maggior parte degli studiosi ritiene siano
sinonimi, tuttavia, le dedichiamo un piccolo spazio.
Immagine da web. Marco Fabio Quintiliano (retore latino 35-40 d. C) |
Bice Mortara
Garavelli in Il parlar figurato scrive:
“Quando in uno
scambio di battute l’interlocutore «rivolta» un’espressione
usata dall’altro partecipante al dialogo, in modo da darle un senso
diverso, abbiamo un tipo particolare di diafora che i retori chiamano
antanaclasi. Ne diede un esempio arguto Quintiliano (Institutio
oratoria IX, 3, 68):
Cum Proculeius
quereretur de filio, quod is mortem suam exspectaret
et ille dixisset se vero non
exspectare,
– Immo, inquit, rogo exspectes.
(«Poiché
Proculeio si lamentava che suo figlio aspettasse
la sua morte, e avendo quello detto che lui davvero non
l’aspettava, – Anzi, disse, ti prego di
aspettarla») (1)
Altra
antànaclasi famosa:
«Hamlet,
thou hast thy father much offended.» / «Mother, you have my father
much offended.»
(«Amleto, tu hai
molto offeso tuo padre.» / «Madre, voi avete molto offeso mio
padre.»)
(Shakespeare,
Amleto, atto III, scena IV)”
Caro Quintiliano, mi
sa che ho capito, è antanàclasi quando in un dialogo uno dei due
interlocutori “gira la frittata”!
FIGURACCIA RETORICA
Una foglia è foglia
e io son io anche
mutando colore e
forma e ti rispondo
che sono felice
se sono felice.
(1) - una mia nota personale: in questo caso, direi che abbiamo sia un poliptoto nella variazione del verbo aspettare (per il poliptoto guardare qui) che un’antanàclasi.
Grazie, aspetto con piacere il 7 del mese
RispondiEliminaNe sono felice, grazie (Annalisa Mercurio)
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