di Arianna Bonino E quel che mi convien ritrar testeso, non portò voce mai, né scrisse incostro, né fu per fantasia già mai compreso Dante, Paradiso, XIX, 7-9 Piano pianissimo nella notte seguo il mio piede antenna, sempre allerta fuori dal lenzuolo. Scivolata via dal letto, a occhi chiusi, fiuto il buio, un buio di casa. Le dita sui muri, le infinitesime nervature sfiorate, risvegliate dai glifi della pelle, le assi sotto i passi, le chiavi ferme e zitte nelle toppe. Un pentagramma di legno il corridoio, costellato dalla via lattea contraria dei suoni che lascio nelle impronte, nel moto funambolo e sonnambulo verso un punto preciso del mondo. Casa io chiamo le mie carte di guardia, guardiane che guardano il mio sguardo, i tagli di piede bianco d’ifa, fosforici barlumi che segnano la strada, miei piccoli fantasmi. Casa è l’unghia anulare che tira di fioretto con dorsi, costole, unghiature, alette. Casa è lì di notte dove parole orizzontali tutte nude stanno, e parlano alla voce che l