(Redazione) - Conversari - 01 - Piccola conversazione sulla notte
di Maura Baldini
“Io credo nelle notti”, scriveva Rainer Maria Rilke ne Il libro d’ore, opera giovanile di magistrale compiutezza. Una dichiarazione di fede. Una dichiarazione d’amore alla notte, ai suoi molteplici e forse infiniti volti, complici e ostici, tremendi e amabili, aridi e languidi, volti disegnati dalla filigrana dei nostri umori.
Perché niente è più icastico della notte, e niente ha natura ancipite come la notte.
Invero, mentre il giorno, nell’osceno divenire di immagini e rumori, confonde e sottrae concentrazione, la notte riabilita il lusso della stasi, del dialogo muto, dell’ascolto acuito. La notte si muove attorno a noi e ci muove, in una danza di tenebre e bagliori celesti, nel lago deserto della contemplazione, che non è immobile, poiché la notte è quiescenza in perpetua metamorfosi.
La notte agguanta, ma in maniera diversa dal giorno. Lo fa permeandoci, insinuandosi nelle pause del respiro, allagandoci il corpo, in un silenzio che mette radici in noi, divellendo le radicali certezze del giorno.
Di notte le leggi immanenti si sovvertono, una stupefacente inversione nella scala gerarchica della vita si avvera: gli uomini diventano più fragili delle cose. Mentre queste ultime giacciono, infatti, in un’inerzia effusiva, abbracciate al buio senza necessità di attraversarlo, noi, esposti all’oscurità, sperimentiamo il terrore dell’Invisibile, l’angoscia di abitare un regno sconosciuto, eppure così affine alle anse insondate del nostro spirito. Amiamo la notte, in fondo, anche quando ci spaventa, quando rimesta e vivifica i ricordi più dolorosi, quando ci infligge il martirio del dolore nel corpo. Di notte la fragilità tuona nel sangue, rimbomba nel silenzio, acquistando una violenza inusitata. Tutto è di vetro, di notte, la pelle e lo spirito, ed è per questo che i dolori e i piaceri si percepiscono più intensamente. Amiamo la notte, del resto, perché è l’abisso che ci abita tutti quanti e che, capovolgendo un pensiero nietzschiano, si affaccia a noi travolgendoci.
La notte fa paura, certo, anche quando il cielo è un corpo di stelle, poiché l’infinito ci esplode in pieno volto, rivelandoci l’assolutezza della solitudine e amplificando le nostre inquietudini. Quelle inquietudini sospese tra faville di stelle raffigurate nella celeberrima opera di Van Gogh La Notte stellata, il cui compimento, nel 1889, fu annunciato dal pittore al fratello Theo, in una lettera in cui si legge (fra l’altro): “Spesso penso che la notte sia più viva e più riccamente colorata del giorno” (1). E, in effetti, era talmente viva ai suoi occhi, che egli la raffigurò come un fiume in piena, con pennellate vorticose, irrequiete, e dense, al pari della frenesia delle sue emozioni, pennellate intinte nei blu e negli azzurri più intensi.
Il blu, l’azzurro: riflessi di malinconia che, tuttavia, illuminano l’oscurità, perché la notte è anche “tenebra di luce” (2) che ci apre all’infinito sublime mondo del Sovrasensibile, come scrisse Rilke che a essa ha dedicato un ciclo di ventidue componimenti (3):
“Ch’io fossi allora, o chi io sia: tu incedi / oltre su me, infinita tenebra di luce. / E il sublime che appresti nello spazio / io, Inconoscibile, accolgo nel mio volto effimero. // Notte, oh sapessi come io ti guardo, / come il mio essere arretra per trovare / l’ardire di balzare sino a te; / né so comprendere come il doppio arco di ciglia / s’innalzi su tali vortici di sguardi. // E sia Natura. Sia solo una / ardita e armonica Natura: qui la vita e là / quelle stelle perfette verso cui piango, ignaro. / Ah, così voglio provare ad essere, compiuto / come le pietre nella forma pura.” (4).
La notte talvolta splende, imperturbabile, sui nostri affanni, talaltra partecipa a essi consegnandoci, comprensiva, il sorriso della luna. Di tanto in tanto, assume il volto dell’amata, talora lascia che a svelarsi sia l’Angelo, ipostasi del Divino, sordo all’invocazione del dolore, come ci dice ancora Rilke (5):
“[…] Angelo, mi lamento? Devo farlo? / Ma che sarebbe poi quel mio lamento? / Ah, io grido, percuoto il mio tamburo / e non mi illudo che qualcuno mi oda. // Non è il mio strepito che può giungere a te, / se mai tu mi sentissi è perché io sono. / Fa’ luce, luce! Che lassù le stelle / si accorgano di me. Perché io sto svanendo.”
L’Angelo e la notte sono, qui, incrinature nella barriera che separa l’uomo dalla dimensione del sacro, sono segni, marchi del sacro che si mostra a noi per mostrarci la maestà del nostro essere caduchi ed effimeri.
Stesse note romantiche risuonano nelle notti di Novalis, pseudonimo del poeta e filosofo tedesco Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg, ai cui inni febbrili Rilke si ispirò per i suoi canti notturni. Ma ecco, proviamo ad ascoltare Novalis, quando fuori il cielo si oscura e i suoi infiniti occhi – le stelle – appaiono, timidi, a illuminare speranze, malinconie, sogni:
“Mi ripiego verso la sacra notte, impronunciabile colma di misteri. Giace lontano il mondo – sprofondato in una tomba – il suo luogo è deserto e solitario. Tra le corde dell’animo spira profonda malinconia. In gocce di rugiada voglio precipitare, mischiandomi con la cenere. […] Anche tu trovi piacere in noi, scura notte? Cosa tieni sotto il manto, che invisibile e potente mi penetra l’anima? Prezioso balsamo stilla dalle tue mani, dal fascio dei papaveri. Tu sollevi le ali gravi dell’animo. Oscuramente, ineffabilmente ci sentiamo turbati – con lieto spavento vedo un volto severo chinarsi su me dolce e devoto, e sotto ricci infinitamente intrecciati svelare l’amata giovinezza della madre. Quanto povera e infantile mi pare ora la luce – quanto grato e benedetto il congedo del giorno – Solo perché la notte distoglie da te i fedeli, tu seminasti nella vastità dello spazio le sfere luminose, ad annunciare la tua onnipotenza. Più celesti di ogni stella rilucente ci paiono gli infiniti occhi che in noi la notte dischiude. Vedono oltre, come le più pallide in quelle schiere innumerevoli – incuranti di luce intravedono il fondo dell’animo amante – lo spazio eccelso è colmato di indicibile voluttà. Lode alla sovrana del mondo, alta annunciatrice di sacri mondi, custode d’amore beato – a me ha mandato te – dolce amata – amabile sole notturno, – e ora veglio – poiché ora sono tuo e mio – mi annunciasti che la notte è vita – mi rendesti uomo – consuma il mio corpo con l’ardore dello spirito, ché etereo con te intimamente mi confonda e poi perduri in eterno la notte nuziale.” (6)
La notte è appassionatamente viva in Novalis, ha occhi lucenti e schiude occhi interiori, ha mani che sollevano i cuori inquieti, ed essa stessa s’inquieta per noi, ci protegge sotto il suo manto, volto scuro che eclissa gli apparenti benefici della luce. Del resto, la luce non ha la versatilità della notte.
La notte ha volti sfaccettati, diventa soggetto personificato nei versi dei poeti, ma, di nuovo, anche nell’arte pittorica. Pensiamo alle notti di Marc Chagall, di cui abbiamo fulgida ed esemplare raffigurazione nel dipinto Le coq rouge dans la nuit (1944), ispirato alla scomparsa della moglie Bella Rosenfeld; osserviamo gli amanti che volano nel blu, separati in vita e uniti nel sogno, fluttuanti e scevri di inquietudini per qualche ora, fino a quando il gallo rosso non annuncerà l’alba, il giorno che torna a separare i vivi dai morti, ancora e sempre. La luce ha la rigidità dell’immanenza, è l’amarezza di un mistero svelato, la decezione di un sogno svanito.
La notte, dunque, è il regno privilegiato degli amanti, che la illuminano, in un abbraccio di voluttà o in un sussurro disperato. “È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche l’anima mia è il canto di un amante” (7); così scrisse Friedrich Nietzsche nel suo canto alla notte, spronando le anime ad attraversare, nell’incoscienza, l’oscurità, che è somma fonte di ispirazione, di misteri e di passioni, al contrario della luce che “ […] è nemica di tutto ciò che risplende e senza pietà continua il suo cammino.” (8)
Ma bisogna affrontare la notte anche quando è prigionia, anche quando l’anima è poco più che un fragile vello lacerato dal Male. Qualcuno è riuscito ad affrontare la notte dell’anima e persino a raggiungere la conoscenza della Verità, che è la mano tesa di Dio. Si tratta di Giovanni della Croce, al secolo Juan de Yepes Álvarez, il Santo che, nel 1568, dopo aver conosciuto Teresa d’Avila, fondatrice dell’Ordine delle Carmelitane Scalze, istituì lo stesso Ordine per gli uomini. Durante i conflitti per la riforma dell’Ordine, Giovanni della Croce visse la carcerazione in un convento a Toledo, visse le flagellazioni, le umiliazioni e la malattia. Fu in quelle condizioni di segregazione, nel buio uterino della cella, in cui persino la tonaca gli marciva addosso, fu in quelle condizioni che sgorgò il suo canto. Scrisse diversi poemi spirituali, fra i quali si rammentano il Canto Spirituale e – per il tema che qui ci occupa – la Notte oscura, opera, quest’ultima che narra il viaggio dell’anima dalla sede corporea verso il Creatore, passando attraverso ostacoli e avversità di diverso grado, simboleggiati appunto dalla notte e descritti in strofe di cui l’autore stesso fornisce l’esegesi. Ma leggiamone qualche verso, in cui è l’anima che canta:
“Nella felice notte / in segreto, nessuno mi vedeva, /né alcunché io miravo, / senz’altra luce e guida / fuori di quella che nel cuore ardeva. // E questa mi guidava, / più certa della luce meridiana / là dove mi aspettava / chi bene io conoscevo / in luogo ove nessuno si mostrava. // Oh notte che guidasti! / Oh notte amabile più dell’aurora ! / Oh notte che hai unito l’Amato con l’amata, / l’amata nell’amato trasformata!” (9)
Giovanni sa che è solo nella notte che germoglia la luce più pura, il bagliore che si fa ponte per condurci a Dio, luce suprema di Verità e Amore. Perché la notte, in questa mistica allegoria, è guida irriducibile e irrinunciabile, presupposto del raggiungimento dello stato di perfezione.
Uno stato di perfezione che, fuor di misticismo oppure no, ci sopraffà quando varchiamo la soglia della Cappella degli Scrovegni, a Padova – affrescata da Giotto fra il 1303 e il 1305, su commissione di Enrico Scrovegni –, e alziamo gli occhi verso la volta a botte: in una notte blu, di un blu così intenso e fitto da trafiggere la retina, ecco, in questa notte intarmata di stelle dorate, fanno la loro apparizione, all’interno di clipei di diverse dimensioni, il Cristo Pantocratore, che benedice gli astanti, la Madonna col Bambino, otto Profeti, Santi e angeli. Le stelle sono a otto punte, simbolo dell’ottavo giorno, allusione all’eternità e alla perfezione. Ed eterna nella perfezione è quest’opera in cui dalla notte della cupola si passa agli affreschi sulle pareti, che rappresentano episodi della vita della Vergine e di Cristo, per terminare sull’intera parete della controfacciata con il maestoso Giudizio Universale.
Opera grandiosa e misterica, in cui la luce – che proviene unicamente da sette finestre sulla parete destra (la sinistra, invece, è cieca) – ogni anno, il giorno di Natale, illumina l’entrata per poi finire sull’altare dove viene rappresentata la Natività.
Buio, luce, nell’arte plastica come nella letteratura. I contrasti, i chiaroscuri. La complementarità di giorno e notte, vita e morte. Ma cosa rende la notte così accattivante per gli artisti? Cosa la rende così alchemica?
Forse la possibilità del sogno? Quel sogno che, nella commedia Sogno di una notte di mezza estate (10), ha vivificato l’immaginazione di William Shakespeare, spingendolo a narrare di una notte magica, in cui tre storie d’amore s’incrociano, tre mondi difformi entrano in contatto l’uno con l’altro: esseri umani, fate e persino il mito che torna a vivere in un universo metaletterario. La notte, in questa commedia, è un portale d’incantesimi, essa permette l’avvicinamento di dimensioni spaziali e temporali inconciliabili, attraverso i sogni che vengono tramutati dal poeta in personaggi e trasfigurazioni.
Ma non è soltanto il sogno ad attrarre gli artisti verso la notte. È essa stessa, con le sue sentinelle (gli astri e la luna), a incendiare le riflessioni più gravi ed intense. Pensiamo a Leopardi, alle sue liriche Alla luna, Ultimo canto di Saffo, La Sera del dì di festa; e pensiamo al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, al trasporto del poeta verso i chiaroscuri lunari, che snocciolano le domande più intime:
“E quando miro in cielo arder le stelle, / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? / Che vuol dire questa / solitudine immensa? Ed io che sono?”
La notte è tribolazione, ma non è raro che dopo la tribolazione si approdi al giorno con nuove consapevolezze, poiché la notte ci spinge a non essere, il buio ci annulla e tutto si ferma, e noi ci distacchiamo dalle passioni diurne, dalle certezze violente del giorno, riscoprendo il dubbio che ci traghetta verso la nuova alba con una saggezza rinnovata.
La malìa esercitata dalla notte unisce Leopardi a Fryderyk Franciszek Chopin, il compositore polacco che, come è noto, diede alla luce ben ventun Notturni per pianoforte, quasi tutti elegiaci, sentimentali, malinconici, languorosi, caratterizzati da fraseggi dal timbro squisitamente lirico, al pari delle poesie del poeta recanatese. Poeta del pianoforte Chopin, musico dei versi Leopardi, entrambi vissero gli albori della temperie romantica e dedicarono alla notte le loro pagine più lucenti.
Ma la notte, non dimentichiamolo, è anche ricettacolo di sabba e tregende: in essa il demoniaco si rivela attraverso danze forsennate e voli diabolici, attraverso unioni orgiastiche e banchetti di carne umana; le streghe, coi corpi ricoperti di unguenti magici, si riuniscono attorno a Satana, che le attende assiso su di un trono di ebano; i convegni debuttano con l’apostasia, con il dileggio dell’eucaristia e proseguono con riti blasfemi nei foschi vapori sprigionati da candele più nere della notte stessa; poi i convitati si accoppiano con foga e mangiano la carne dei bambini non battezzati. Sono notti di terrore che terminano, al più tardi, al canto del gallo, quando il Diavolo scompare, dopo aver elargito poteri e sortilegi ai partecipanti affinché ne facciano in futuro malefici.
Un quadro e un’opera musicale sono rappresentazioni emblematiche di queste orrifiche notti: Il grande caprone, dipinto a olio su tela (44 x 31 cm) realizzato da Francisco Goya fra il 1797 e il 1798, e conservato al Museo Lázaro Galdiano di Madrid; Notte sul Monte Calvo (11), opera composta nel 1867 dal musicista russo Modest Petrovič Mussorgskij e resa celebre dal film di animazione Fantasia di Walt Disney (12).
Partiamo dal dipinto. Il caprone, con le corna intrecciate a ramoscelli di vite, rappresenta, naturalmente, il diavolo, attorno al quale siedono alcune donne – le streghe! – seminude; una di loro offre un infante ben in carne al caprone, un’altra lo scheletro di un bambino e tutto intorno giacciono cadaveri di altre giovani creature sacrificate. La notte è irraggiata da una luna a falce. Infine, un'altra luce fredda giunge da sinistra a illuminare di terrore lo straordinario sabba di Goya.
E ora provate ad ascoltare la notte orrifica di Mussorgskij, ascoltatela e immaginatela nei cupi toni del fagotto e del corno, e la sentirete allargarsi, a ondate di blu evanescenti, attorno alle rupi del Monte Calvo, e vi lascerete avvolgere da un cielo che si fa onda e fluttua, mentre le ali di Satana gettano su spiriti e demoni l’ombra più nera e tremenda.
Sono notti, queste, che, fuor di leggenda, non lasciano scampo, ci lasciano, anzi, inermi ed esausti, spesso incapaci di affrontare la nuova luce.
Ma vi sono altre notti, notti bianche e meravigliose, seppur illusorie, come quelle narrate da Fëdor Dostoevskij nell’omonimo romanzo del 1848, notti che cullano speranze lunari e audaci: il desiderio d’amore del protagonista sognatore per la bella Nasten'ka, che con lui si confida e a lui si affida. Quattro notti allucinate e febbrili, in una cupa ed elegiaca San Pietroburgo, in cui i protagonisti si avvicinano sino al punto, quasi, di ritrovarsi in una unione benedetta dalle stelle; ma poi l’illusione si spegne, come le stelle in un cielo notturno offuscato dalla pioggia, quando il passato della ragazza – l’uomo di cui è innamorata – le passa accanto, proprio dopo che lei si è appena promessa al sognatore.
Si torna sempre alla solitudine dopo lo svanire dell’illusione. E allora la notte diviene spelonca del lamento, un lamento che ha talora le sonorità dell’assiolo – e ci torna alla mente l’omonima lirica di Giovanni Pascoli – talaltra il terrificante stridore del grido del corvo.
Ma basta guardare il volto della notte perché tutto si copra di irriducibile silenzio (leggiamo questi versi di Georg Trakl):
“Sonno e morte, le aquile tetre / Mugghiando sorvolano di notte questo capo: / il flutto gelido dell’eternità / Divori il dorato sembiante umano. Su orride scogliere / Si schianta il corpo purpureo / E la voce oscura si leva di lamento / Sopra il mare. / Sorella di tempestosa malinconia / Guarda una barca pavida affonda / Tra le stelle, / Il volto silente della notte.” (13)
Tutto, infine, è notte. E noi, nel silenzio, colmi di buio, continuiamo ad amare la notte, perché in essa soltanto sappiamo guardarci e ascoltarci da vicino. D’altronde, si accade nella luce del giorno, ma è il buio che affina i contorni.
Amiamo la notte perché è icastica e ancipite, è moltitudine di archetipi, di domande e di risposte, è il diamante nero, il volto di Satana e la pupilla di Dio.
Ma soprattutto amiamo la notte perché è la pelle dei sogni in cui, per un attimo, anche l’eternità s’avvera.
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NOTE
1 - Correspondance complète de Vincent van Gogh, Gallimard-Grasset, 1960.
2 - Rainer Maria Rilke, poesia XV, in Poesie alla notte, Passigli Editore, traduzione di Mario Specchio
3 - I componimenti furono raccolti da Rilke nel 1916 e donati su un quadernetto all’amico Rudolf Kassner.
4 - Rainer Maria Rilke, poesia XV, op. cit.
5 - Rainer Maria Rilke, poesia XV, op. cit.
6 - Novalis, Inni alla notte, a cura di Susanna Mati, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2012 e 2021.
7 - Friedrich Nietzsche, Il canto della notte, in Così parlò Zarathustra, Un libro per tutti e per nessuno, traduzione di Mazzino Montinari, Adelphi, 1968 e 1976.
8 - Friedrich Nietzsche, Il canto della notte, in Così parlò Zarathustra, Un libro per tutti e per nessuno, traduzione di Renato Giani, Fratelli Bocca Editori, 1915.
9 - Giovanni della Croce, Notte oscura, a cura di Pier Paolo Ottonello, UTET.
10 - La commedia, come è noto, è stata composta da William Shakespeare fra il 1595 e il 1596.
11 - Il monte in questione, cui è ispirata l’opera musicale, si trova in Ucraina e il suo nome è Lysa Hora.
12 - In realtà, la rappresentazione disneyana è basata su un arrangiamento di Leopold Stokowski della versione dell’opera realizzata da Rimskij-Korsakov.
13 - Georg Trakl, Lamento, da Dichtungen und Briefe, in Wir müssen wahre Sätze finden, a cura di Anna Maria Curci, traduzione di Anna Maria Curci.
Un testo potente di sintesi e di splendida comparazione artistico-letteraria e filosofico-musicale sulla notte.
RispondiEliminaRingrazio, onorata e commossa, di tanta attenzione!
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