(Redazione) - Dissolvenze - 24 - Lituo
di Arianna Bonino
E quel che mi convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse incostro,
né fu per fantasia già mai compreso
Dante, Paradiso, XIX, 7-9
Piano
pianissimo nella notte seguo il mio piede antenna, sempre allerta
fuori dal lenzuolo. Scivolata via dal letto, a occhi chiusi, fiuto il
buio, un buio di casa.
Le
dita sui muri, le infinitesime nervature sfiorate, risvegliate dai
glifi della pelle, le assi sotto i passi, le chiavi ferme e zitte
nelle toppe. Un pentagramma di legno il corridoio, costellato dalla
via lattea contraria dei suoni che lascio nelle impronte, nel moto
funambolo e sonnambulo verso un punto preciso del mondo.
Casa
io chiamo le mie carte di guardia, guardiane che guardano il mio
sguardo, i tagli di piede bianco d’ifa, fosforici barlumi che
segnano la strada, miei piccoli fantasmi.
Casa
è l’unghia anulare che tira di fioretto con dorsi, costole,
unghiature, alette.
Casa
è lì di notte dove parole orizzontali tutte nude stanno, e parlano
alla voce che le dice a capo, in riga, in circolo.
Qui
è casa: nei risguardi, nello sbuffo azzurro di un atlante aperto
sugli oceani, negli schiocchi dell’eros chiusi lassù in cima ma
sonori, nei sospiri di pianti affidati a giardini segreti e
labirinti, nelle lacrime di risa esplose sulle ultime macerie di una
guerra di pagine.
Negli
inchiostri dove cerco la mia storia, mai scritta, mai saputa.
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