(Redazione) - Muto canto - 04 - Moriamo di ciò che ci riduce - per Edmond Jabès

 
di Anna Rita Merico

Lì dove l’imprecisione di luogo e tempo lascia traccia e segno d’anima volta al Cominciamento, ancora.
a Giuseppe Nisi che una sera scrisse, ascoltando

Moriamo di ciò che ci riduce (1)
per Edmond Jabès

Stasera scrivo con la matita. Una matita perché non sempre ho tempo di lasciar maturare parola e, dunque, cancello grafite.
Un poema racchiuso in un minuto libro di piccolo formato per squartare il senso dell’Opera Somma della poesia italiana. Tre intere cantiche tratteggiate in pochi bordi cogenti. Tralascio, volutamente, l’affondo del Maestro su Auschwitz, modello contagioso e il Male per ragioni legate a quanto Jabès stesso ci chiede: questi appunti… non vi è stato tempo a
sufficienza per maturarli. (2)
Che tempo, per noi, sia. Qui si dice di parola che sbozza materia e giunge a luce allocandosi nel libro.
C’è un tramonto ed un margine di lapislazzulo nel cielo che m’imbozzolano il sentire. Come pensare al Male in una durata serale come questa? Inizio e provo a non cancellare la talvolta eccessiva mancanza di riflessione lunga sulla parola. Coniugo tempo possibile di riflessione a necessità del dire.
Non vi sono gradi del Male. Ogni dolore è, per se stesso, un tutto. Il Male è totalità della sofferenza  (3)
Non vi sono gradi del Male eppure di gradoni è fatto l’Imbuto-Utero del Male, quello di cui il Sommo diceva. Provo ad allungarmi nel pensiero dell’ontologia dell’essere che soffre: ciò che vedo è l’essere che lui è nel mentre avviene il suo dibattersi con la sofferenza. L’urlo di dolore infero nelle Bolge è come un richiamo di pianto di bambini. Prima fermata: il dolore imbratta di regressione, toglie e annulla tempo. Tra Dolore e Male il filo è doppio, lo indico con sofferenza. Prendo il filo delle connessioni: m’arrampico alla sofferenza e ne attraverso, con passo all’indietro, la Sua lunghezza che ruvida mi porta nel punto solstiziale in cui sfuma unendosi al dolore infinito. Colgo vertigine, deglutisco. Pianto di bambini mi scardina, sono in un cominciamento.
Ma quale parola di pena sarebbe, per sé sola, così vasta, tanto da poterne contenere ogni altra?
-Forse, Dio, questa, per esempio, una parola vuota, a tal punto aperta sull’infinito che tutto l’universo non avrebbe alcuna difficoltà a raccogliervisi dentro. (4)
Lascio parola sedimentare. Poeta, Peccato, Inferno, Male, Viaggio. Ogni parola, qui, è un mondo, un rimando, una chiusura, un’apertura. Penso l’Inferno ma in presenza all’esistenza del Paradiso: doppio nodo di gioia sublime e di caduta legate dall’eternità.
Peccato, Inferno, Male, Viaggio: galassie nelle quali Dante transita, in poesia, per restare nell’Origine ed addimandarne continua genesi nel nerbo della Giustizia che agisce e mostra pesi. E, dunque, nella fanga broda Dio e Poeta mostrano la conoscenza di ciò che in noi, uomini e donne, alberga e che noi attende: Dio e il Poeta agiscono nella sospensione del tempo umanizzato. S’appalesa l’iperbole che chiede negli sbianchi del volto del Poeta: dove il margine dello slargo capace di lasciare entrare l’orizzonte dell’eternità sottratta all’eternità? Male per l’eternità, Speranza per l’eternità, nascita del Purgatorio, attorcigliato nell’espiazione, nell’essere della possibilità dell’ umana Speranza. Al cospetto della lettura jabésiana si dipana la riflessione sulla Giustizia di Dio. La Giustizia si mostra allocata nell’Inferno e nel Paradiso mentre il Purgatorio è la dipanazione dell’idea di Bene e Male tessuta, concepita dall’uomo. Jabès vede, nella grandiosità, della Sua lettura la necessità di un umano passaggio in grado di consentire viatico tra gli estremi di Inferno-Paradiso. Un luogo in cui, come dopo il Diluvio, Dio possa rivedersi e ripensarsi nel rapporto con la creaturalità dell’essere dato, l’uomo.
E se il Purgatorio, altro non fosse, nell’ottica dello Scrittore (del Poeta), che l’immagine di un passato
cruciale, da un momento vissuto del libro ad un’altra fase ancora da vivere, là stesso dove il libro si scrive? (5)
Nella vertigine della domanda Edmond Jabès strattona il nostro sentire caricando la possibilità del pensiero di uno slargo immenso tanto quanto una spianata di cielo nel deserto, pertugio lì dove uscimmo a riveder le stelle.
Emozione profonda queste piccole diciassette pagine del Maestro. Pensieri brevi e quattro rimandi da mani attente: Gianni D’Elia, Attilio Lolini, Antonio Prete, Ginevra Bompiani. Si sbozza diamante, minuta pietra lavorata attraverso millesimali gesti.
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NOTE
(1) Edmond Jabès, L’Inferno di Dante e Pages Nouvelles, traduzioni di Gianni D’Elia e Attilio Lolini. Note di Antonio Prete e Ginevra Bompiani. L’Obliquo edizioni, Siena 1990; pg 28
(2) ivi pg 7
(3) ivi pg 8
(4) ivi pg 9
(5) ivi pg 16


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