(Redazione) - Speciale "I Mostri" - "Ho incontrato il Golem" - un racconto (forse!) di Sergio Daniele Donati
di Sergio Daniele Donati
“Ho l’impressione di ripartire da zero, di dover ricominciare un percorso che credevo concluso”.
Questo pensava Max Baruch con la penna in mano e il foglio bianco come un lenzuolo davanti a sé.
“So che questi appunti mi serviranno come materiale grezzo per alcune mie future scritture e che questo non è altro che un momento di rivalutazione. Eppure la sensazione profonda di fallimento mi accompagna. La parola mi è diventata nemica, e così anche il silenzio. Ho creato in questi anni un’enorme dinamica attorno alla scrittura, ma non è altro che fango incapace di riempire di una sola goccia d’olio sacro la voragine che occupa il mio centro”.
Erano pensieri tetri, melmosi e ossessivi quelli che prendevano corpo – un corpo di gigante – nella mente dell’anziano scrittore.
E la notte – sua antica amante – riempiva ora i suoi pensieri di dubbi e incertezze.
“Scrivo ormai solo per stendere lenimenti inefficaci sugli orli di una ferita ancora in suppurazione e, a periodi alterni, do nomi diversi a quella ferita.
Un antico guerriero romano trafitto dalla lama di luna di una donna, così mi definì un giorno il mio Maestro, e ricordo ancora il mio stupore nel ritrovarmi appieno in quella definizione.
E i miei deserti, le mie ventidue lettere ebraiche che da sempre mi accompagnano, mi guardano ora dall’alto e mi giudicano. Una condanna senza appello, una condanna allo stigma del fallimento.”
La notte si faceva intensa e i pensieri prendevano forma tra lo sterno e la gola del povero scrittore, come un corpo di fango che aderiva alla sua stessa struttura ossea, un parassita che parlava la sua stessa lingua – così bene che era difficile distinguere le due voci.
Max, ormai incapace anche di pianto, lo osservava crescere dentro di sé, occupare tutti i suoi spazi vitali e poi sgorgare dal pennino, grigio e maleodorante.
Era finita l’epoca degli inchiostri di sambuco o d’ambra, degli sguardi sulla terra vergine di un foglio di carta pregiata.
Il Golem cresceva dentro Max e ne soffocava il respiro e la penna si rifiutava di lasciar segno.
Era un mostro dalla bellezza terrificante; il suo sguardo magnetico e metallico rendeva impossibile osservare altro. E Max si era nutrito da sempre della voce dell’altro, dei suoni lontani di culture antiche e vitali. Ora nella sua mente persisteva solo il dire sgraziato e roco di un mostro di limo dagli occhi color cielo e dalle mani callose e umide.
La notte, ormai profonda, si era tramutata in un teatro, un palcoscenico privo di spettatori, ove si giocava di nuovo la tetra commedia, quella più antica: la lotta con l’angelo che lascia ferite sulle cosce e rende claudicanti chi l’affronta.
Max, senza respiro, continuava e tentare una reazione, ma la voce del Golem, dentro di lui, ripeteva come un mantra: “Hai fallito, sei un fallimento”.
La notte portava con sé una luce velata e Max, pur annebbiato da sensazioni verdi, quasi vegetali, cercava nel ricordo il segno dolce della rinascita.
“Ciò che ora non è più”, diceva tra sé e sé, “è comunque stato. E forse devo solo arrendermi all’idea, lasciare che il mio corpo si riempia di fango.
”Il limo sacro del Nilo, il limo sacro del Nilo”, ripeteva.
Ma il Golem rendeva sempre più dura la stretta ad ogni suo respiro e Max non trovava nemmeno la forza di lasciarsi andare, o di costruire un argine ai propri pensieri.
I ricordi sono lame affilate; se non si sanno maneggiare come il migliore degli spadaccini, tagliano la carne e l’anima come un coltello caldo il burro.
Una mente senza luce non sa che ricordare gli strazi, gli abbandoni, i lutti, e dimentica alla velocità della luce la capacità di un ramo spezzato di dare vita a nuove foglie, dimentica quanto sia tenace il desiderio della vita di restare in vita, cancella la sola possibilità del bene perché è nel dolore che trova il proprio venefico nutrimento.
Ci si abitua così bene e così in fretta all’asfissia che si perde la memoria della fredda aria dei monti che ti apre i polmoni di speranze e progetti.
E si diventa piccoli, sminuiti, inutili a sé stessi, perché è solo quel vuoto centrale che si è in grado di osservare; un buco nero che assorbe ogni densità vitale, verso un nulla senza fine.
Il Golem rideva mentre ripeteva a Max la nenia del suo fallimento e gli ricordava voci oramai dimenticate; voci di donne al cui abbandono solo la scrittura aveva permesso a Max di sopravvivere.
“Hai reso i tuoi abbandoni un teatrino di basso rango, facendone letteratura da avanspettacolo. Credevi forse che dietro ai tuoi versi io non lo sentissi, non lo percepissi...il bercio triste di un bimbo abbandonato? Non sei mai stato capace di scrivere nulla che non fosse per te stesso, e hai indossato maschere dopo maschere per nascondere la tetra macchia sull’epitelio del tuo viso”, gli diceva.
“Hai negato della parola il fine ultimo, irrorare ciò che è altro da sé. E così facendo hai fallito prima, sei diventato tu stesso l’emblema del fallimento; poi. Tu che porti, solo un po’ più piccolo, lo stigma di Caino in fronte, hai ucciso la Parola”.
Max non mostrava ribellione a quelle parole; piegava la schiena sempre di più e cominciava il suo giudaico dondolio, quello che, antico, accompagna la preghiera quando si è in contrizione.
Il Golem taceva, e poi rideva, con la sicumera di chi sa di aver già vinto il duello, senza nemmeno troppa fatica.
Ma c’era un controcanto nella mente di Max, un sottile filo di lino che, miracolosamente, ancora teneva saldo.
“Mosè era balbuziente, e Iakov claudicante”, bisbigliava piano, “e David un nano davanti alla potenza di Goliath. La forza di Sansone fu di morire assieme a tutti i Filistei. Io sono il mio stesso limite, mi diano Altri la parola vera, io sono lento di parola”.
Il Golem non rideva più. Sembrava distratto da qualcosa di impercettibile, di lontano e sacro.
A nessuno sono negate le voci di sostegno, o forse solo a chi le nega a sé stesso.
E il Golem questo lo sapeva bene e percepiva nel bisbiglio di Max la più antica delle forze.
La capacità di chiamare in ausilio potenze antiche.
Ma anche Max sapeva che ogni chiamata ha il suo prezzo e che chi si chiama in aiuto pretende il tributo della memoria eterna.
Allora prese un sassolino dalla sua scrivania e lo tenne sul palmo aperto della mano, a dimostrare al Golem un voto sacro, quello della trasmissione.(1)
Fu allora che si manifestò un silenzio di ghiaccio. Il Golem e Max si misero all’ascolto di un sussurro lontano e una lieve increspatura di paura colpì il volto di pietra del Golem. Il voto era fatto e le voci stavano arrivando, da lontano, da una terra di fumo grigio.
Quel bisbiglio prendeva corpo e si avvicinava lento e senza sosta al campo di battaglia, con triste indifferenza. Se ne potevano distinguere ora voci distinte, voci che avevano conosciuto ben altri campi e battaglie.
Voci di bambini-fumo, di donne stuprate, di uomini numerati sul braccio, annichiliti poi in un fumo che saliva grigio verso un cielo indifferente; sei milioni di voci dimenticate e disperse.
Si univano ora in coro, un canto potente che recitava un solo lento e inesorabile mantra.
הוא ישיר את השיר
הזיכרון שלנו
(Lui canterà il canto
della nostra memoria)
Il Golem li ascoltava terrificato, incapace a sua volta di respirare. Erano le voci di un altrove che pretendeva memoria, che chiedeva la non dimenticanza e che fosse incessantemente recitato il nome benedetto di milioni di dimenticati.
Un coro infinito ripeteva a Max e al Golem quelle sette parole, come un notabile legge un contratto alle parti prima della loro sottoscrizione. Un dire lento dell’irrinunciabile, del non procrastinabile, del Vero.
La Sacra Verità della promessa di Max era in quelle sette parole ripetute come nenia da un coro di sei milioni di voci.
Il Golem provò allora ad usare la sua ultima arma – la più terrificante -, mentre Max guardava a terra tra singulti profondi e bisbigliava nomi su nomi.
“Chi mai pretendi di essere tu per portare sulle spalle un fardello simile? Pensi davvero di poter essere tu, piccolo uomo, a rendere onore a milioni di vittime della storia? Tu, che manco sai più tenere la penna in mano?”.
Max alzò lo sguardo, il suo viso immobile e irriconoscibile. Guardò negli occhi il Golem con la freddezza glaciale di chi ha una verità a forma di stilografica in mano.
Era lo sguardo di chi accetta di svanire.
Uno sguardo ormai senza lotta, di chi rinuncia al suo nome nel mondo per santificarne altri.
Era uno sguardo compassionevole verso il fango del Golem, verso la sua disgregazione, verso il suo ritorno, inevitabile ormai, alla polvere acida della terra da cui proveniva.
“Io da ora non esisto, e non sei mai esistito nemmeno tu. Esistono loro, e guideranno la mia mano, mentre tu tornerai alla terra di morte che ti ha generato”, disse balbettando come Mosè davanti al Faraone.
“Piangerò la tua mancanza, mostro, a volte. In questi ultimi tempi sei stato la mia unica compagnia, ma io ora non esisto più, e nemmeno tu. Esistono loro e mi insegneranno a cantare il loro canto”, ripeté poi piano e prese dalla mensola di legno antico davanti ai suoi occhi la boccetta del più pregiato inchiostro.
“Ti rispetto Golem”, diceva tra sé e sé, “mi hai insegnato a dimenticarmi di me per esistere. Ho incontrato ora un coro che mi ha insegnato la legge amara del ritorno. Sono un uomo segnato e fortunato. Un uomo segnato dalla fortuna di saper rinunciare a sé stesso.”, disse.
“Hai vinto, piccolo uomo”, disse il Golem, e sul suo viso di fango ormai in scioglimento una traccia di terra rossa colava, come lacrima calda d’addio.
Sembrava piangere il fardello di poter essere solo le paure altrui.
E piangeva la sua morte Max, mentre la sua penna lasciava il primo taglio color cobalto sulla pregiata carta. Bianca
(Sergio Daniele Donati)
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NOTA
1 - In ebraico sasso si dice EVEN ed è un chiasmo tra Av (padre) e Ben (figlio). È dunque il simbolo della trasmissione. Anche per questo motivo nei cimiteri ebraici sulle tombe non si trovano solo fior,i ma soprattutto sassi. (trasmettere) LEDOR VADOR (di generazione in generazione) è uno dei cardini della vita spirituale ebraica.
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