(Redazione) - Speciale "I Mostri" - "L’uomo con le zampe d’uccello" di Diego Riccobene
Si
racconta all’interno del Liber
cronicarum1,
annale stampato a Norimberga in pieno Quattrocento (epoca di
meraviglie, vieppiù del meraviglioso), che corresse il 1114 quando
una donna partorì un infante bicefalo, metà uomo e metà cane. Gli
onesti abitanti delle vicinanze – dopo essersi segnati –
avrebbero atteso qualsivoglia accadimento consequenziale; era
particolarmente certo che, in occasione di siffatti indizi, fosse
rievocato il detto melantoniano: “In ogni tempo Dio ha creato dei
mostri per significare in maniera mirabile la sua ira e la sua
misericordia, e principalmente la caduta o il progresso di regni e
imperi”2.
Questo,
al pari di altri ritenuti senza dubbio alcuno preasagia
(ci si riferisce a casi testimoniati di gemelli monocefali, scrofe e
oche nate “doppie”, per citarne una minima parte), è trascritto
dai cataloghi di prodigi
che Jurgis Baltrušaitis ha compilato con dovizia per ricostruire il
processo di immaginativa esasperata che infervorò bestiari
tardoromanici e gotici. A corollario, l’opera offre testimonianze
di scritti caldei: “Se una donna dà alla luce un bambino che ha
tre piedi, due al posto normale e il terzo fra i due, vi sarà grande
prosperità nel regno”3.
Mostri,
aberrazioni, malnati, dismorfici: li si definisca a piacere, è pur
certo che quella teratologia fosse preconio di talune circostanze
cosmologiche, religiose, politiche, naturali, in qualità di
rovesciamento dell’evento biologico, che comporta il concretarsi di
forme necessariamente astratte o fantasiose soprattutto in epoca
medievale (“grilli”, etiopi, stetocefali, gastrocefali
campeggiano a dismisura tra le miniature dei salteri, gli archivolti
delle cattedrali). Anni fa, in visita all’interno di una cattedrale
tra le più suggestive del gotico francese, splendido monumento di
per sé alla labirintica natura dell’Uno, mi accadde di percepire
distintamente al suo interno un untuoso catafalco a forma di becco
rostrato nell’atto di osservare i miei movimenti, ponderandoli.
L’ombra
di costui si fonderà docilmente agli screzi sotto il rosone, o forse
egli è un dannato, un’anima che mi toccherà scortare tra le
infinitesime spire del baratro qui da me sormontato?
Concepii il suo pensiero, credetemi.
L’anomalia
come presagio di un dopo: di un trionfo, di un’apocalisse, di una
morte; già Plinio, Aulo Gellio, Ovidio ne affermavano il carattere,
ma non è questo il momento adatto per investigare le ossessioni dei
classici.
Il
poliedrico Ulisse Aldrovandi ritiene di segnalare, all’interno del
suo trattato in merito, la natura primamente divinatoria delle
perversioni naturali tratte dalle memorie del vescovo francese Arnaud
Sorbin. Parrebbe oltremodo profetico un essere “cornuto e alato
[...] Sul petto di questo mostro si distinguevano tre lettere incise,
la X, la Y e la V, ma la V era collocata sotto una forma di luna
crescente. Da qui gli uomini eruditi [...] appresero che in queste
tre lettere si celava un sistema per evitare il flagello divino”4;
e ancora, il vitello-monaco (simile al papstesel
illustrato
da Cranach il Vecchio) dato alla luce in un villaggio della Sassonia
nel 1563, che avrebbe preannunciato “l’abbandono della retta fede
da parte del reprobo Lutero e dei suoi ignobili seguaci”5.
Curiosamente
proprio l’Aldrovandi inclinerebbe alla diffidenza verso i mirabilia
della natura (portando a modello moniti agostiniani dal De
civitate Dei),
ma solo dopo l’ecumenica chiosa “quello su cui possiamo essere
d’accordo e che i mostri siano degli avvertimenti di Dio”6.
Non
è certo casuale – mi si perdoni il dissesto cronologico a ritroso
– che nel 1091 un sacerdote di Bordeaux, secondo le deposizioni di
Oderico Vitale7,
osservasse davanti a sé sfilare proprio la notte di Capodanno una
torma di spettri, un esercito
furioso,
latore dell’apocalisse periodica, un rito che didascalizza la morte
in
illo tempore,
il ritiro dell’anno nel regno plutonico in attesa dall’ascesa e
rinascita: “Venivano poi lettighe su cui sedevano nani dalla testa
enorme: due diabolici «etiopi» portavano un trave su cui un demone
torturava uno sciagurato”8.
Pare
di descrivere le minuzie di scene tratte da dipinti di Memling,
Bosch, Van Eyck. Finanche quelle che adornano la pala di Issenheim,
suprema, presso la quale rimarrei eternamente in contemplazione: sono
persuaso di averlo fatto, in almeno una tra le esistenze anteriori a
questa. Serpi alate che si avvinghiano al corpo di vittime già
smembrate, demoni dal capo d’aquila (Ubicumque
fuerit corpus, illic congregabantur et aquilae9),
bizzarre e cornute figliazioni di folletti animano questo regno della
deformità come cornice di un ulteriore Regno
a venire, quello del dolore chenotico, dello svuotamento divino
definitivo: l’uomo flagellato e livido a guisa di prodigio per
eccellenza perché mette in scena il rovesciamento mimetico
dell’essenza trascendente tramutata in carne: carne ferita e
prossima alla decomposizione. Huysmans, nel fervore ipnotico indotto
dalla medesima icona mostrificata, così lo descrive tra le prime
battute di Là-bas:
“Slogate, quasi strappate dal tronco, le braccia del Cristo
sembravano impastoiate per tutta la loro lunghezza dalle corregge dei
muscoli tesi. L’ascella scricchiolava”10.
I
mostri tutti sono esseri oracolari, ed esistono – conviene starne
certi – praticando i linguaggi adusti dell’incomprensibile. Il
mondo sconvolto trae dall’abnorme il sovvertimento del concetto che
pratica l’abitabilità della parola: nell’arte emblematica di
Menestrier11
l’uomo con le zampe d’uccello [...] incarna la cattiva
poetica:
“la testa non fu mai in relazione con il piede”12.
L’ordine che avversa esso stesso chi l’ha creato e poi malvoluto,
come il golem di Meyrink; il necessario passaggio alchemico da uno
stato all’altro, cauda
pavonis
traverso la materia viva che debba abbandonare le condizioni
precedenti solo quando è informe tra il suo perimetro: si sa che
nella cucurbita gli elementi devono essere separati affinché il
processo non fallisca, e che la temperantia,
lo stato di equilibrio e congiunzione, è raggiungibile solo dopo la
putrefactio
divisiva.
Non
posso infine esimermi dal citare qui l’opera che più di altre
conchiude il senso del sovvertimento, dell’ordine messo in
permanente stato di crisi: il Paradise
Lost.
Nel libro II in particolare Milton narra che Satana, tentando di
esplorare le porte infernali per affrancarsi dagli odiosi vincoli
impostigli dal nemico, si imbatte in Colpa, descritta con caratteri
mostruosi, a
formidable shape:
“una donna, anche bella, ma che termina immonda in un groviglio /
voluminoso ed ampio di spire squamose, in un serpente armato d’aculeo
mortale”13.
Il dispensatore di caos antesignano di fronte al caos stesso, al
teratologico per definizione, compie nondimeno l’atto che ogni
parola può (deve?) assolvere quando che sia al cospetto della
sproporzione, risuonando quindi nell’abisso della profezia per
scandagliarne le ragioni: “voglio sapere cosa sei tu con la tua
doppia forma, / e perché al primo incontro in questa valle
dell’inferno mi chiami padre tuo”14.
Ogni
ordine da sovvertire si aggioga a processi di ristabilimento e
defenestrazione ripetuti e continui, continui e ripetuti, cosicché
concetti inflazionati quali sottrarre,
minimizzare,
silenziare
non
conoscano sede di acquiescenza: questo è il monstrum.
L’urlo che disfa il silenzio è ir-ragione e stoltezza, la cui
bocca ha fretta di sproloquiare con voce
d’uccello
a scherno del detto qohéletico, del “fumo”15:
il mostro si sporge così dal basso, a rammentarci che sia tempo di
raggiungerlo, di afferrare la sua unghiata gangrena, carezzarla,
interrogarla intorno alla colpa che a tutti appartiene; infine di
amarla, se mai ne fossimo capaci.
(Diego
Riccobene)
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NOTE
1 -
H. Schedel, Liber Cronicarum, Norimberga, 1493.
2 - J. Baltrušaitis, Risvegli e prodigi, Adelphi, Milano 1999.
3 - Ibid.
4 - Cito qui l’opera di Aldrovandi dall’edizione magnificamente
curata da Lorenzo Peka per Moscabianca. Cfr. U. Aldrovandi,
Monstrorum historia, Moscabianca edizioni, 2021.
5 - Ibid.
6 - Ibid.
7 - Menzione da Storia ecclesiastica di Oderico Vitale in J. S.
Schmitt, Medioevo «superstizioso»,
Laterza, Bari 1992.
8 -
Ibid.
9 - Mt, 24:28.
10 - J. K. Huysmans, L’abisso, Lindau, Torino 2017. Traduzione
di Annamaria Galli Zugaro.
11 - Anche qui occorrerebbe uno spazio apposito per approfondire gli
anfratti di questa disciplina, che enormemente l’idea di mirabilia
ha contribuito a definire iconograficamente. Cfr. M Praz, Studi
sul concettismo, Abscondita, Milano 2014 e l’opera di A.
Alciato, Il libro degli emblemi, Adelphi, Milano 2009.
12 - J. Baltrušaitis, op. cit.
13 - Riporto la traduzione di R. Sanesi da J. Milton, Paradiso
perduto, Mondadori, Milano 1984.
14 - Ibid.
15 - O della vanità. Ci si riferisce qui alla traduzione di Guido
Ceronetti per le edizioni Adelphi (Milano, 2001) dei passi
dell’Ecclesiaste 1:2 e 12:8.
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Interessante disamina, al crocevia tra arte figurativa, filosofia e psicologia.
RispondiEliminaMolto interessante!
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