El me Milan - ricordi di un Nature Boy
Era, è e sarà sempre così. Perché quando il ricordo piega, e senti un'odore d'asfalto grigio nei pori della pelle so che lei, al me Milan, mi parla.
E abbasso gli occhi, perché non ho risolto nulla e, forse, non c'era nulla da risolvere, se non la tirannia di un racconto.
E metto le mani in tasca, come allora facevo in quelle, bucate, del mio Montgomery col cammello con i bottoni in osso.
Era stato un regalo di papà, forse troppo largo, perché ero piccolo e magro; ma tanto "che male fa? poi ci cresce dentro".
E io ci sono cresciuto dentro e dentro ci sono cresciute le mie paure e quelle strane sensazioni adolescenti tra le costole, in una Milano che d'inverno sapeva d'umidità e d'estate, invece...d'umidità ancora.
Ci sono cresciuto dentro camminando per le strade e contando i tombini del Giambellino, con una calamita in tasca, perché a volte c'erano delle monetine da recuperare, per comprarci poi la spuma al bar, un posto dove papà mi diceva di non andare mai che c'era la Mala.
Ma come si fa a non essere attirati da qualcosa che si chiama Mala, e da quelle facce da San Vittore che quando entravo per la spuma sentivo dire da quello che, evidentemente, era il capo, al barista - un pericoloso omone che era meglio tenersi amico: "Dagli pure tre goleador a sto ragazzino, che è bravo è ha il cappotto più bello del quartiere. Le pago io". E sorrideva.
I milanesi sono distratti, o forse hanno un cuore troppo grande, per non seminare monete per i bambini del quartiere, e le lasciano cadere con noncuranza, perché loro - i bimbi - non lo vedano come un dono, ma come una conquista e, se facevano parte della Mala, allora che fa? I bimbi erano sacri anche per loro, allora.
I milanesi, quelle strane creature che parlano anche calabrese e siciliano e pugliese, ma si sforzano, a te, bimbo che in quella città sei nato, di farti sentire a casa tua.
E io quella casa in via Almerigo da Schio la ricordo ancora. Era la casa di un'infanzia negata, desiderata troppo, forse; rimpianta, sicuramente.
E allora mi sono rifugiato nel sogno, ché Milano il sogno lo sa accogliere e lo trasforma in una malinconia ironica.
Era un sogno fatto di biglie e figurine di calciatori da giocarci a muretto, mentre si piegavano per la nebbia. E a volte passava un vecchio (allora chiunque avesse più di quarant'anni mi pareva vecchio) coi baffi - li avevano tutti, dai carabinieri ai contestatori alle donne: lo ricordo bene - si fermava e ti guardava con sguardo da maestro esperto.
E si metteva a quattro zampe per terra, col culone in bella vista, che se avessi avuto più coraggio avrei preso a calci, tratteneva il respiro e tac...un colpo alla biglia che cozzava contro altre due dell'avversario, che diventavano prigioniere della mia.
Poi, spolverandosi i pantaloni, si alzava, come se niente fosse, mi guardava e mi diceva "Te vist come si fa, Tato?".
E io lo guardavo come ora guarderei Apollo se discendesse dall'Olimpo e mi donasse i suoi segreti.
"Devi allenarti di più", aggiungeva mentre se ne andava.
Poi si cresce e nel Montgomery non ci sto più e passo ad un giaccone da marinaio di quelli coi bottoni d'oro, che fa tanto presa di posizione politica a sinistra...e quindi devo evitare San Babila e limitrofi, ma in via Torino ti guardano con rispetto, pure i punk con le loro creste colorate, perché hai lo sguardo triste e malinconico alla bohème e, si sa, non c'è nulla di più rivoluzionario che vestirsi dei panni delle rivoluzioni esistenziali del passato.
E nei bar si fa la musica, spesso di contestazione, ma anche jazz. E io ho in tasca sempre la mia unica arma: un'armonica blues in si.
Ed entro in quel bar dove tre vecchi - quelli vecchi davvero - suonano e una pantera sexy sui quaranta canta degli standard jazz, con un inglese dal tipico accento della Bovisa.
Li guardo e chiedo:" Posso farne una sola con voi?"
Mi guardano come a dirmi "che vuoi tu ragazzino?", ma il bar è ormai è vuoto e sono quasi le due di notte.
Allora il pianista mi guarda e chiede "cosa suoni?".
"L'armonica", rispondo.
"Cosa vuoi suonare con noi?"
"Nature boy", dico deciso.
"Ehi bello", dice la pantera, "è la canzone più piena d'amore che conosco. Che ne sai tu dell'amore alla tua età?".
La guardo in silenzio e il pianista dice alla pantera
"Lascialo stare. Vediamo come se la cava".
E iniziano, io resto immobile. Piano e voce si mescolano divinamente, la batteria ci va piano e il basso segue la voce - o viceversa - come fanno i grandi gruppi jazz.
La pantera mi guarda e ride mentre canta, non evitando di muoversi in modo da esporre una coscia da svenimento per un ragazzo di diciassette anni come me.
Ma alla fine del suo meraviglioso "the gratest thing you'll ever learn is just to love and be loved in return", la mia armonica comincia non senza variazioni sul tema, un filo ebraiche, nel suo assolo.
Il pianista sgrana gli occhi e guarda la pantera che comincia a farmi un controcanto che sembra Ella Fitzgerald del Precotto.
Io la guardo poi suggerisco con un cenno alla batteria di aumentare il ritmo, e la musica si trasforma in qualcosa di forsennato e folle, ma meraviglioso.
E, assolo dopo assolo di voce e strumenti, continuiamo per venti minuti che, si sa, in piazza Loreto valgono sei ore, fino a che non concludiamo tutti sulla stessa nota.
La gente al bar sorseggia Sambuca e Vecchia Romagna e sorride, perché Milano é questo: un'umida città fatta di note musicali e del coraggio di un bimbo timido e senza infanzia che soffia nel suo pezzo di metallo, per trovare il suo posto nel mondo.
Alla fine la Pantera mi guarda e dice: "oggi non abbiamo suonato Nature boy, abbiamo suonato CON Nature boy".
E io la guardo e scoppio a piangere, sì piango tutta la Milano che ho dentro.
Il pianista mi guarda, mi sorride e mi dice: "Benvenuto nel club, Nature boy".
Esco e torno a casa, camminando lento, come se fosse un film tipo Casablanca, in bianco e nero, e io, secco come un'acciuga e pieno di capelli ricci neri, quanti erano allora i miei pensieri, Humphrey Bogart.
"Play it again, sam".
Anzi, siamo a Milano: "Play it again, Walter."
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Foto e video di Nature Boy dal web, con ringraziamento commosso agli autori
Testo di Sergio Daniele Donati
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