Poesie tratte dalla raccolta inedita "Il corpo necessario" di Daniele Gigli
Il fremito è lo stesso, il solito –
quello che da decenni ti tormenta e ti si attacca sulla bocca dello
stomaco
al risveglio, aperti gli occhi, quando per un istante sei l’Adamo
il sesto giorno
e poi non più, e il gorgo di memoria e di incombenze ti soverchia e
ti si para lì davanti –
ecco il mattino: esigere, volere.
Bisogna essere ben spudorati a vivere –
a vivere, non a eseguire,
mentre ogni cosa grida vanità e scelta di vento.
Eppure…
Questa felicità, quanto è indecente
mentre là fuori soffrono e s’ammazzano – guerra nei corpi,
guerra nelle menti.
E infatti è sempre ansiosa, in bilico,
perforata da un non detto che ci scava e sgretola e consuma.
Questa felicità che sembra di cristallo e che non osa,
che non si dice ad alta voce e teme – il passo delle cose, lo
scorrere del tempo,
l’invidia del demonio che ringhiando osserva.
2.
L’antica inimicizia si risveglia con un alito di vento –
basta un’ombra a volte, un fuoco vergine che sbriglia il desiderio
«è mia la terra, è mia la donna»
l’ombra del demonio razionale
a fomentare a spingere a violare
il concerto delle parti.
«Lasciare tutto» dice il saggio, ma è parola che non scalda,
che raffredda i corpi e il mondo.
«Non è vita senza desiderio»
e stiamo qui, di sempre in sempre,
tra il poco bene che s’inalbera e l’orrore,
temendo noi, temendo il giorno – il sole.
Le spade in vomeri, le lance in falci –
Venezia un dedalo di morti in fasce –
è tutto sentimento,
è tutta pancia: pancia che si
scuce, pancia che rovescia le interiora –
oh, che spettacolo di morte e gloria, il mondo.
Disillusione questa vita e neanche qui c’è il paradiso, neanche
qui –
se fosse mai che venga la seconda morte –
neanche qui, se non vuoi stare nella luce e vuoi l’inferno,
il gorgo della guerra, la fame del demonio della colpa.
Il paradiso aspetta la sua terra, ma la città è una babilonia
turpe.
Il paradiso aspetta – nella necessità, nella sua ruota,
la verità si vizia e si nasconde,
la verità non pensa – caccia e
sbrana.
4.
Dai coppi le cornacchie annunciano il mattino,
il mezzogiorno, il pomeriggio, il vento,
qualsiasi cosa che ci piaccia credere un segnale.
L’uomo è più lento della strada che percorre – sempre e qui,
qui dove Dio ci visita di spalle,
«non con la forza, ma cadendo interminabilmente».
La ruota gira, gira il tempo e porta via la pelle,
lascia il vuoto nelle guance.
Questa sirena che trapassa la finestra e insiste
e sembra – e adesso è sera – sembra dica
è perso il tempo, è perso e non ritorna.
Luci che scontornano nell’ombra,
male di pazzi – in ombra,
l’uomo col cancro che gli mangia in faccia e che cammina,
e noi che stiamo tra il bambino e l’acqua sporca,
tra il bambino e l’acqua sporca,
tra il bambino e l’acqua sporca.
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NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
Daniele Gigli (Torino, 1978) è archivista documentalista e studioso di letterature comparate. Amante di T.S. Eliot, gli ha dedicato le traduzioni di The Hollow Men (Gli uomini svuotati, 2010) e Ash-Wednesday (Mercoledì delle Ceneri, 2013), oltre alla monografia T.S. Eliot. Nel fuoco del conoscere, pubblicata con Ares nel 2021. Per lo stesso editore ha di recente curato una scelta di traduzioni da Emanuel Carnevali, Finché Dio ci vede (2023).
Ha pubblicato quattro libri di scrittura in versi, i più recenti dei quali sono Fuoco unanime (2015, 2016) e Di odore e di generazione (2019).
Poderose frasi di poesia nativa che, come una ventata sulla terra arida, scoprono il midollo del vivere.
RispondiEliminaÈ tutto vero, quel che vai poetando: siamo inglobati in un vortice di verità che ci amano e che ci chiamano. Grazie, Daniele!
Grazie davvero da parte di tutta la Redazione
EliminaC'è vita, molta vita in questi versi che ascoltano il silenzio di Dio - o il Dio del silenzio - nel nostro paesaggio mortale e mortifero
RispondiEliminaGrazie davvero da parte di tutta la Redazione
EliminaGrazie molte a entrambi. daniele
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