(Redazione) - Conversari - 02 - Due occhi di merlo

 
di Maura Baldini

La sua poesia non fa rumore, non accenna all’enigma, non rovescia gli occhi con colori sgargianti, non lascia sgomenti; si posa, invece, sulla tavola ancora apparecchiata, sul guanciale spiumato dall’uso. Talvolta avvolge di gelo il cuore, come quel buio che entra inatteso negli occhi, quando la giornata ci pare ancora lunga e invece è finita. E, come ogni fine, ci atterrisce, interrando la speranza, per poi farla germogliare ancora nel riverbero di una candela accesa durante un temporale.
Thierry Metz, nato a Parigi il 10 giugno del 1956, non s’inerpica sul verbo come i poeti accademici, gli sperimentatori per opportunismo, ci lascia, invece, addosso la fatica della parola frugale, eppure esatta e aggraziata come il suo sorriso, filo di luna su un volto massiccio, presto sconquassato dall’alcol. Il poeta ci conduce nell’alchimia di giorni tutti uguali, nel peso della manovalanza del lavoro e della vita, ci poggia sulle spalle il cappotto della fatica, e talvolta quello ancora più pesante dell’angoscia e della disperazione; ci conduce nelle stanze scabre di certe case, nei corridoi degli ospedali psichiatrici, ci accompagna nel silenzio che annuncia il canto, di un merlo, forse, o dei bambini rientrati da scuola. Sa capovolgere il dolore in grazia, il dolore più spietato (la morte di un figlio), ma anche quello più subdolo e allentato (la malattia mentale, la dipendenza dall’alcol). Eppure non manca di seminare bagliori anche quando l’ultima fiammella si è spenta. Gli basta posare il volto nell’incavo del collo dell’amata, coricarsi accanto ai bambini sazi di fragole. Gli basta un quadernetto in cui “accende occhi di merlo ogni sera”, un lapis e qualche istante da fermare sulla punta delle dita, mentre si sta in attesa della neve.
Pura e nuda, la poesia di Metz è un solstizio che pare nascere dalle sue mani. Mani da manovale, appunto, perché Metz non è un letterato e nemmeno un intellettuale. È un autodidatta, un lettore formidabile, un muratore saltuario, un campione di sollevamento pesi; è il marito di Françoise Fenautrigues, sua compagna di scuola sposata a nemmeno vent’anni, ed è padre di Guillaume, Vincent et Thomas. Sceglie la campagna, in Garenna, per vivere con la sua famiglia. Sur la table inventée1 è la sua prima raccolta, licenziata dall’editore Jacques Brémond quando il poeta ha trentadue anni. L’esordio viene subito premiato, ma – si sa – la gloria non è mai un salvacondotto verso la gioia, e lo stesso giorno in cui gli viene assegnato il premio Ilarie Voronca, Metz assiste alla morte del figlio Vincent, otto anni, travolto da un’automobile. Le spire dell’alcolismo e della depressione, che già lo avevano cinto, lo strangolano definitivamente. La vita si sfascia, il lavoro si fa sempre più saltuario e hanno inizio ricoveri a ripetizione. Nel 1990, per Gallimard, Gérard Bourgadier fa dare alle stampe Le Journal d’un manoeuvre2, opera che lo consacra al pubblico come il poeta della fatica esiziale, dell’istante miracoloso. Nel 1995, sempre per Gallimard, esce Lettre à la bien-aimée3, piccolo taumaturigico canzoniere d’amore oltre l’amore. L’incontro con l’alienazione delle case di cura e con le ombre di uomini e donne cuciti nella malattia, spinge Metz a scriverne in frammenti; e così, durante due soggiorni presso l’istituto di Cadillac (nel 1996 e nel 1997), il poeta verga i quaderni preparatori dell’opera che sarà poi pubblicata dalle edizioni Opales nel 1997, con il titolo L’homme qui penche4. Il 16 aprile dello stesso anno, a Bordeaux, Metz, sopraffatto dalla tenaglia del dolore, si ammazza.
Di seguito alcuni componimenti tratti dalla raccolta Lettres à la bien-aimée, tradotti, si spera, nel rispetto della purezza della parola di questo poeta, che è oltre la postura lirica, oltre la regola metrica, e soprattutto oltre il canone, qualsiasi cosa esso sia.
Io, leggendolo, mi commuovo, e aspetto la neve, l’augurio più caldo per questo Natale.


Testi tratti da Lettres à la bien-aimée
di Thierry Metz – Éditions Gallimard
(traduzione di Maura Baldini)

Stare dove la parola è una stanza.
Rubarne la purezza, il lastricato, la tavola.
Dove mi si può immaginare con queste mani da manovale?
Lì. Esatto come il parapetto di un muro.
Ma sempre nella stanza dove ogni sera ti illumino
un quadernetto con due occhi di merlo.
Entro così. Dove sei tu. Col mio mestiere,
qualche soldo, una matita.
Ma anche altro. Lo abbiamo visto.
E non per esistere
ma per essere qui, di passaggio.
Solo contro la sua anima un uomo non pesa molto.

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Aprire, chiudere. Ogni sera
Una porta.
Una parola.
E poi ai ragazzini raccontare storie
di cani, di corvi. O il contrario.
Avvertirannno soltanto una specie di fatica.
Non abbiamo che un poco di terra nella voce.
Per coricarcisi sopra.
Con loro.

_________

Alzarsi. Scrivere. Ascoltare la casa. Paura
di avere dimenticato qualcosa.

Tutto si ribella attorno al libro. E s’impianta.
Perché tutto può ancora affiorare ai margini, nel bianco.
Uno sbalzo d’umore.
Da dove torno, per prosciugare la notte.
Per rimboschire l’istante.

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Torni dal lavoro. Mi accarezzi la guancia.
I bambini sono ancora in un fogliame
di parole, dentro un libro.
Ho posato due piatti, una ciotola di riso.
Un silenzio. Dal quale torneranno.
Da cui nasce il giorno.

_________

All’alba, in ognuna delle tue mani,
occorre trovare del fuoco. Tagliare la legna.
Accendere i fornelli.
Oggi la scrittura va male, tarda
a riscaldare la stanza.
Accendo una sigaretta. Prepari il caffè.
Aspettando la neve.

_________

Amo adagiarmi contro di te, la sera,
senza gli aromi della luce, una mano sul ventre,
il viso nell’incavo del collo, fra i capelli.
Lì un uccello potrebbe posarsi, senza paura.
So bene che maciniamo guai e transumanze.
Ma come non affrontare quel che è? questa vita ordinaria?
Non ne parliamo. Siamo dove una giostra di venti ci ha sospinti.
È lì l’abisso. La tua bocca contro la mia, come ragazzini
sazi di fragole, oppure fa cadere qualche pietra
per farci sentire fino a dove lo potremmo persino avvertire.

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Incrociare la tua voce è sentire, in lontananza,
un ruscello.
È andare a cercarvi dell’acqua, offrirtene.
E conoscere la sete sulla punta delle dita.

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La breve scala del tuo nome mi basta,
conduce alla pianta di lamponi, alla tana di una parola.
Respira.

_________

Il tuo silenzio contro il mio.
La notte. E lontano nella campagna un ululato.
Noi siamo qui, nel letto che si assottiglia:
impercettibili fino a domani.


_________

La strada là fuori. Solo sacchi
e un monticello di terra da spostare. Tutto solo
un uomo seduto che ride, per ingozzare un dolore.
Sappiamo bene dove camminiamo. Su cosa.
E allora scrivere.
Vicino ai bambini.
Con il grano macinato di tre parole.

_________

Una pietra,
Un panno,
Un pezzo di legno, bastano per non essere più solo
davanti a certe parole, per trovare loro un fondale,
una infanzia.
Scrivere è appena toccare.
Scrivere è la piccola stanza dove tocco
le tue mani, la piccola moneta che vi poso.


_________

Non dico niente, colgo per te una spiga di lavanda,
prendo la tua mano sotto la pioggia.
Guardiamo questo pezzo di giardino, le acacie sulla collina.
È tutto.
Dal tuo sguardo riporto una costellazione.

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Viso che si addormenta fra le tue mani.
Amo questo istante che cola come un ruscello,
questo istante senza parola.
Poi, come un frutto, mordi il mio sonno.

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NOTE

1 - Sulla tavola inventata è il titolo della raccolta tradotta in Italia nel 2018 per le Edizioni degli Animali.
2 -  Diario di un manovale, a cura di Andrea Ponso, è stato tradotto in Italia nel 2020 per le Edizioni degli Animali.
3 -  Lettere all’innamorata, a cura di Pasquale di Palmo, è stato tradotto in Italia nel 2022 per le edizioni Il ponte del Sale.
4 -  L’uomo che pende, a cura di Michel Rouan e Loriano Gonfiantini, è stato pubblicato in Italia nel 2001 da Via del Vento Edizioni.
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Commenti

  1. Bellissima poesia! Grazie Maura, ci manchi 🙂🌿❤️👋

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  2. Bellissima Poesia quella di Thierry Metz ! Grazie Maura. Ci manchi qui su FB. 🙂🌿👋👋👋

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  3. LUCIO BARIZZA2/1/24 21:49

    Da noi questo grande poeta è quasi sconosciuto e attende di essere scoperto. Grazie Maura!

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