"Genealogie verbali" - un saggio di Giansalvo Pio Fortunato



Definire la poesia un’arte abissale è quanto di più comune, ma anche quanto di più incompreso la storia della letteratura e dell’esperienza poetica ci abbiano consegnato. Una simile prominenza teoretica, infatti, pare assai spesso porre i poeti dinanzi ad un “aut aut”, che si scandisce nel constatare e capire la propria pochezza o, parallelamente, nell'arrivare all'esaltazione del proprio fenomeno poetico. È indubbio, infatti, che, soprattutto ai giorni nostri, l'idea di un costrutto misterico ed il fascino del “nero”(nel senso sinestetico del termine) rendano la seconda opportunità molto più appetibile. Eppure questa figurativa dell’abisso vuole fugare ogni forma manieristica ed ogni obiettivo esoterico. L’appunto, che qui emerge prepotente, è di tutt’altra direzione e pare piuttosto abbattere le barriere elitarie e trionfalistiche della poesia.
Prima, però, di ultimare questo percorso e giungere all’aut aut, sopra citato, bisogna soffermarsi anzitutto su una domanda nevralgica nella nostra riflessione: “Cos’è la parola?”. Pensare di argomentare sulla poesia – soprattutto se teoreticamente – senza soffermarsi sulla cellula che la compone e la costituisce, sarebbe un esercizio inutile ed invalidante; un esercizio inutile ed invalidante che, nostro malgrado, si compie frequentemente oggi, dimenticando inesorabilmente il programma e l’atto procreativo della poesia: la sommatoria di parole necessarie.

1. Genealogia della parola
La parola, aldilà se sia poetica o meno, rappresenta una forma stupefacente prim’ancora che di comunicabilità, di determinazione degli schemi esistenziali. La “somma delle lettere / sillabe” impone alla storia dell’uomo un intento salvifico e protezionistico inesorabile: si può affermare, anzi con un certa sicurezza, che la parola abbia rappresentato uno dei primi esempi a supporto della teoria evoluzionistica darwiniana. È plausibile, infatti, che disponendo l’uomo della parola anche come principio della scrittura, vi sia stato, ancor prima dell’uomo parlante, un uomo mugugnante o (non a caso) versificante (tanto quanto prima dell’uomo scrivente vi fosse un uomo semplicemente parlante), capace di aderire ad una più o meno convenzione fonica disarticolata. Questo palinsesto eziologico è stato, dunque, mutuato nell’adesione ad un registro ordinativo, capace di oggettivare ogni soggetto esistente.
In questo i Greci erano tanto più lungimiranti ed in due casi trasmettono la prima unità percettiva della “parola” consegnata alla storia. Eraclito ci parla di un “Logos”, che è ascrivibile ad un duplice significato: logos quale parola, logos quale ordine. Superando le trame prettamente concettuali – filosofiche, che non competono a questa trattazione, è opportuno soffermarsi sulla prospettiva che induce il filosofo preplatonico a muoversi in questa dualità di significato. Perché l'uomo dovrebbe puntare ad uniformare la sua ricerca conoscitiva nell’ordine che muove tutte le cose? Perché quest’ordine è ascrivibile allo stesso termine che significa anche PAROLA?
Ci spostiamo nel Prologo di Giovanni ed il primo verso dello scritto d’apertura del Quarto Vangelo si articola con la chiara affermazione di un “Logos” che, traducendo la Vulgata in “Verbum”, non è reso pienamente. Dal testo greco (riporto traslitterato), infatti, si legge: “En archè o Logos en” . La traduzione cantilenante afferma che In principio fosse il Verbo (vedi come Dio quale Parola creatrice), ma la duplicità del termine greco non tradisce: i compilatori del vangelo giovanneo, malgrado la vasta scelta lessicale che il greco offriva (vedi lexis od onoma o phonè), optano per il sostantivo che ripudia maggiormente l’atto della parola in sé, la sua sostanzialità materica, per privilegiarne la prassi, la resa significante attiva: la parola come strumento e misura d’ordine.
Il contatto diretto, allora, con questa dimensione filologica trasferisce in maniera sorprendentemente vantaggiosa non la ritualità filosofica, quanto la pertinenza psicologica di ogni tempo. Questo significa che, pur nella consapevolezza che il contesto storico-culturale possa condizionare inesorabilmente la resa fenomenica e superficiale di un particolare percorso intellettivo e conoscitivo, la sua latenza, la sua struttura radicale e radicata restano inesorabilmente quelle. In tali termini, allora, si evidenzia una straordinaria commistione lessicale – empirica. L’uomo, per intenderci, ha sperimentato nel sorgere pieno e comprensivo della parola, l’instaurarsi di una condizione di ordine permanente; un ordine – potremmo dire – teoretico nel quale, aldilà degli ordinamenti che sono congiunti alla sfera diemica della storia spazio-temporale, persiste la volontà implicita di comprendere (non far assurgere) la parola, ad un ruolo strettamente utilitaristico, intendendola in termini prettamente evolutivi: non è l’uomo che percepisce e fa fungere la parola come una fonte di ordine sopravvivente, ma è la parola, disposta dall’uomo, che ha fatto da fonte di sopravvivenza. Conscio, quindi, di questo principio empirico storico, l’uomo non ha potuto far altro che affermare, anche e soprattutto nella matrice filologica (che è pensata e che dunque deriva dalle stesse attitudini psicologiche che hanno vissuto la transizione dal caos all’ordine), la coesistenza o l’equazione, storicizzata psicologicamente: “parola sive ordine”.
Questa equazione, emblema dell’intero sforzo razionalistico che ha contraddistinto la storia del pensiero, non a caso si regge sull’obiettivo ultimo del filosofo che l’ha composta e calcolata (nella forma originale di Deus sive ordine): l’esigenza di istituire un Logos che travalicasse così in maniera viscerale le strutture radicanti della natura, da essere assimilato al modo di Dio. Aldilà di tutti i diversi contenuti metafisici, che non competono a questa trattazione, è essenziale evidenziare il percorso tracciato da un’indagine concettuale semantica: la parola, nella sua traccia segnata dalla lingua antica, ha incarnato a lungo un percorso strettamente ordinativo; ossia – per intenderci – l’uomo ha investito la parola del ruolo insopprimibile di porre ordine ad un mondo pienamente consegnato al caos e questo Caos (in una matrice primordiale) rappresenta l’alterità annichilente da cui riuscire a scappare quanto più possibile, al fine di raggiungere quella meta irresistibile che era la salvezza biologica o, in termini molto più pratici, la sopravvivenza. In questo intento, la genealogia della parola diviene esemplificativa: se, infatti, una è la psicologia che ha concepito la necessità storica (necessità nel suo senso ontologico, intendibile come irreversibilità) di architettare la natura umana in una impronosticabile forma di rallentamento degli stati entropici (quindi un rallentamento del processo di successione, distruggente repentino degli stadi di stasis – dunque di calma elaborante), una è anche la psicologia che ha regolamentato la comunicabilità all’altro e a se stessi; e una è la psicologia che ha standardizzato il senso ed il significato della parola nella sinonimia dell’ordine. In queste poche righe si racchiude, insomma, l’intero percorso comparato dell’istituzione di un senso ordinativo dell’essere sociale e, pari merito, di un percorso ordinativo della comunicazione a se stessi ed all’altro, ascritto all’elaborazione della parola (nel suo senso universale).
Dinanzi ad una simile conclusione possono essere diverse, tuttavia, le rimostranze su ogni campo. Ci limiteremo ad osservare la sola più pertinente ad un’analitica filologico – genaologica: la sovrapponibilità tra phonè e logos. Anche la phonè, infatti, può essere assunta come un fenomeno comunicativo e, addirittura, come un fenomeno comunicativo comprensibile. In soldoni, infatti, per phonè intendiamo più semplicemente il verso di un animale che, in un’ottica banalmente antropocentrica, è osservato come un unico modulato, assai in antitesi rispetto alla phonè umana che, nella semplice costituzione materica del suono, articola diverse composizioni grafemico – sonore, in virtù del contenuto della sua composizione. Sorgono, legittimamente, spontanee due domande: cosa separa autenticamente la phonè dal logos? È pertinente questo percorso tracciato rispetto ad una genealogia della parola?
Innanzitutto, è necessario precisare, dunque, il distinguo tra la phonè ed il logos, per non incorrere in equivoci o in invalidamenti dal principio. Ciò che, infatti, distingue questi due modi comunicativi è senza dubbio la conformità. Sembra alquanto sorprendente, ma la distinzione che si innesta non è di tipo estetico; quanto, piuttosto, strettamente biologico e sociale, dal momento che l’uomo elabora l’esigenza di costituire una società, che è ben distinta dalla teorizzazione di una società, fin dai suoi primordi. Mentre, infatti, la phonè (poniamo verso di un animale) assume delle modulazioni che sono spontanee e che non gli vengono impartite da nessuno – vedi anche i “mugugni” o il pianto dei neonati -, il logos (poniamo parola nel senso universale) è frutto di un’operazione educativa; quindi di un processo, non strettamente scolastico, in cui l’impartire specifiche attuazioni sonore, corrispondenti alla competenza di un grafema, è il frutto di un conformarsi dell’individuo alla comunità. Dinanzi a tale conclusione, certamente, potrebbe essere posta un’altra obiezione: il logos, nei bambini, nasce dal semplice gesto dell’ascolto di una parola elementare che è perennemente riproposta all’attenzione del bambino, al punto che un bimbo saprà urlare e piangere, ma non pronuncerà alcuna parola di senso compiuto – per noi – , se questi non è in grado di udirla. È in questa fisiologia che si genera l’esigenza del conforme e dell’ordine, un’esigenza che travalica il semplice processo di ascolto (dunque estetico), per vertere ad un percorso comunitario ordinativo ed educativo. Proseguendo a ritroso e partendo da un uomo dotato della semplice phonè – riscontrabile in un bimbo di pochi mesi -, si può scovare l’esigenza extraestetica del logos. L’uomo ante-logos concepisce l’esigenza alla sopravvivenza perché, pur essendo dotato di una specifico assetto comunitario – ascrivibile alla conformazione pratica di un branco -, evidenzia che, per deficit legati più materialmente alla condizione della sua esistenza rispetto alla natura in toto, deve adoperarsi al fine di sopravanzare rispetto alla stessa sopravvivenza. Dunque, inizia ad elaborare una propria ricostruzione del mondo, nella quale è imprescindibile l’uso di un logos (dunque di una phonè ordinata e compresa dalla sua comunità): questa ricostruzione del mondo è il primo esempio di ordine, il primo processo di modulazione che non ha le fattezze di un atto prometeico (dunque di un ratto), ma di una semplice risposta alla naturale storia narrata dalla teoria evoluzionistica. Questo percorso di adattamento al mondo, che nasce da un fare relazionale, parte da un presupposto ben distinto rispetto alle altre specie: la costruzione di una struttura razionale, il cui risultato più alto non è l’elaborazione di un pensiero, quanto la forma più radicante dinanzi alla quale ci si possa trovare: la limitazione della soggettivazione derivante dall’irrazionale. Quando l’uomo comprende, infatti, che mantenendo una soggettività non prevaricante può una volta per tutte riuscire ad ottenere la propria materiale sopravvivenza, è portato istintivamente ad intraprendere questo percorso di posta in confini. Questo meccanicismo, infatti, riflette paradossalmente il più sedimentato tra gli istinti irrazionali: l’istinto alla sopravvivenza. Ed è proprio in virtù dell’esigenza alla sopravvivenza che l’uomo perpetua questo inizio modulativo del razionale. È chiaro – e va precisato – che la razionalità non è istituita arbitrariamente dall’uomo e che per il suo sopraggiungere non si abbia un effetto “ex nihilo”, ma si assiste, piuttosto, ad una modulazione graduale che fa sì che azioni comportamentali – dunque cerebrali – altre rispetto alla razionalità possano consentire all’uomo di monitorare, ritrarre e costruire diversamente gli scheletri della sola dittatura irrazionale.
Questa nuova sfera dell’attività cerebrale – ritenendo, con estrema precisione, che la materia unitaria sia rappresentata dalle sole cellule neuronali, per cui il cervello non sviluppa mutazioni macrocosmiche sostanziali – comincia ad essere sempre più performativa, in virtù della sua riproposizione seriale ed in virtù della sua attitudine nel fornire all’individuo le trame di una nuova soggettività: l’Io. Questa sfera, ben distinta – non casualmente – dal semplice “Es” che certifica la sola attività cerebrale in virtù dell’esistenza dell’soggetto (pur nella forma istintiva), ha per suo fulcro necessario la consapevolezza d’essere procreativa; cioè l’attitudine a rimarcare uno stato di confine preciso rispetto ad una molteplicità e ad una molteplicità consapevole. È, anzi, la stessa consapevolezza l’attributo necessario all’applicazione del dettato proprio della razionalità: la possibilità di ritenersi una volta e per tutti governanti non solo dall’armonico relazionarsi tramite un’intelligenza emotiva ed istintiva; ma, attraverso anche una condizione relazionale che faccia sedimentare ed incrociare i semplici dati sensoriali, percepirsi anche come capaci di “metabolizzare” le ricezioni e la reazioni immediate, che conducano ad un sedimentare capace di valorizzare cause e qualità della risposta. Cosi si instituisce finalmente un perenne confronto e parallelismo con l’istanza da cui tutto ha avuto origine: la sopravvivenza. È l’acume critico, la riflessione personale, che rallenta il tempo della vita ed unisce alle reazioni immediate forme di rigido controllo e di comportamenti con durate perduranti, a chiedere perennemente all’uomo: può questo comportamento farmi vivere più a lungo e meglio? È la conciliazione tra il semplice dato del combattimento con la morte e la volontà di qualificare questo combattimento ad imporre un rallentamento salvifico: attraverso la razionalità, l’uomo ha finalmente la possibilità di sviluppare un’intelligenza critica.
Si pone, allora, una domanda: come la parola si ricollega con un processo così ampio? La parola è l’epifania, forse una delle più lucenti, di questo straordinario percorso che ha contraddistinto l’essere umano. Si potrebbe dire, piuttosto, che essa abbia condizionato così positivamente l’ultimarsi di questa strada storica che sia divenuta praticamente eterna. Nella nostra riflessione a posteriori, infatti, tendiamo semplicisticamente a considerare come irreversibile una persistenza dell’intero genere umano nel solco segnato dalla parola ma, seppur attraverso una strada iperbolicamente ipotetica, se la parola, così come formulata dall’essere umano, avesse rappresentato un tratto non positivistico – quindi non utile alla sopravvivenza nel processo evoluzionistico –, si sarebbero palesate due inevitabili conseguenze: o la scomparsa definitiva dell’essere umano o la sparizione della parola, perché sostituita da altri modi evoluzionistici. Giungiamo, dunque, all’interrogativo di partenza: cos’è veramente la parola?
La parola è la materia umana della salvezza, la capacità straordinaria dell’ominide di porre in una spirale ordinativa l’intero mondo. Un mondo che, nel suo scheletro, può essere definitivo duplice: esso diviene, quindi, in due strutture che sono riconoscibili per ragioni prospettiche. Da un lato, infatti, si pone in rilievo il mondo intrinseco (ab intra) e, dall’altro, si ritrova in completamento il mondo estrinseco (ab extra). Questa condizione di completamento – precisiamo – non è frutto di un percorso antropocentrico, che oggi risulterebbe non solo errato concettualmente ma anche anacronista; quanto rappresenta, piuttosto, l’assimilazione dell’uomo al dettato totale ed universale del mondo: l’individuo, infatti, può disporre di pieni poteri sul mondo intrinseco attraverso l’egida della razionalità che, adeguatamente formata, realizza una regolamentazione ferrea ed un filtraggio positivissimo sull’intera sfera irrazionale; ma non può disporre degli stessi rispetto al mondo estrinseco, dinanzi al quale è pochezza, conducibile al massimo attraverso le sole forme di volontà di potenza. In tal senso, prima di giungere al nocciolo ultimo della domanda sopra esposta, bisogna chiarire due aspetti: la razionalità ha solo una funzione contenitiva rispetto all’irrazionalità? Dunque non è giustificabile in se stessa?
Questa precisazione, seppur brevissima, è d’obbligo per evitare contestazioni da principio, pur non inficianti la strada maestra tracciata. Per questo è necessario chiarire due aspetti fondanti: per razionalità ed irrazionalità non intendiamo due strutture “sostanziali” ma due fisiologie; la razionalità ha suoi equilibri e sue dinamiche intrinseche che la fanno collaborare ed agire con l’irrazionalità, senza però determinarla. È chiaro, ormai da tempo, che la struttura strettamente “cogitativa” (o anima) non sia definibile strettamente in una sfera topografica altra rispetto al luogo cerebrale, così come né per la struttura razionale né per la struttura irrazionale esistono forme altre che siano definibili esternamente a matrici istologiche ed anatomiche; quindi sia il razionale che l’irrazionale dipendono strettamente dalla struttura e dal funzionamento del cervello. Per cui, si ragiona sulla razionalità come una specifica forma operativa (fisiologica), non come una sostanza o altri attributi metafisici. Chiarito questo primo aspetto, possiamo giungere all’autosufficienza identitaria della razionalità. Malgrado, infatti, uno dei ruoli fondamentali della razionalità sia proprio quello di riuscire a rallentare e qualificare le risposte istintive segnate da una relazione sensoriale; lo scopo fondamentale della razionalità e, parallelamente, la sua autosufficienza identitaria è quella di riuscire a gestire l’ordine ed il controllo (quindi la potenza) che l’uomo ha sul mondo. Questo rende la razionalità strettamente indipendente dall’irrazionalità non nella sua operatività, quanto nella sua definizione. La razionalità, infatti, opera in virtù delle sensazioni, quindi dei fenomeni percettivi, che compongono la matrice irrazionale (dettata dalle relazioni sensoriali, che si traducono successivamente in comportamenti istintivi oppure in emozioni), ma è definibile indipendentemente da essa: rende la sua azione attingendo dall’irrazionalità, ma attraverso proprie logiche e proprie regole. Questo aspetto definisce chiaramente la volizione potente dell’uomo, volizione che lo rende capace di dominare ed indirizzare il suo mondo attraverso diverse sfaccettature processive.
In questa dinamica si inserisce la parola: il logos (la parola nel suo senso ordinativo universale – lo ribadiamo) nomina il mondo e, nominando il mondo, genera un processo di associazione delle sensazioni al fine di comprenderlo. Lo stesso comprendere, infatti, è l’immagine evidente di questa fisiologia: l’uomo “cum – prendere”, afferra per se stesso ed in se stesso la realtà che lo circonda, determinando un peculiare comportamento che rappresenti una risposta buona. È proprio la bontà, non a caso, la nuova frontiera dell’uomo evoluto (del non ominide) ed è la felicità, che segna il margine fenomenico della bontà, a rappresentare il fine ultimo della vita. Quando l’uomo smette di pensare strettamente all’utile e conia la felicità, inizia il suo processo di completa e piena maturazione, il cui il vivere è sopravanzato dal vivere bene. Nel vivere bene, infatti, risiede il germe salvifico del vivere. Non a caso, il vivere è imprescindibile per il vivere bene: può un individuo pensare di vivere bene, se prima non vive? Ma, allo stesso modo, la nuova frontiera umana fa perseguire direttamente il vivere bene, pur non puntando al vivere nella sua semplicità; e questo, non a caso, è frutto della capacità razionale che, ordinando il mondo, ha scelto consapevolmente di rimuovere la semplice ragione materica del vivere, per coniugarla intrinsecamente al vivere bene (che è ragione che travalica la materia e che, allo stesso tempo, la comprende anche). La parola, allora, diviene uno dei manifesti di questo vivere bene perché insegna ed impone il non totalitarismo della soggettività abissale ed irrazionale, che si compone di sole reazioni non sedimentate e non metabolizzate della realtà. Se la parola, infatti, è un codice, ed ha come obiettivo il fornire una specifica identità ad ogni cosa altra rispetto all’individuo, reggendosi su una comune comprensibilità mutuata da tanti individui; essa può non essere frutto del vivere bene? Il vivere, non casualmente, dipenderebbe dalla sola sfera biologico – irrazionale, che va oltre l’ordinare a lungo termine il mondo.

2. Il logos nella storia della sopravvivenza.
Elemento sostanziale ed irreversibile nella ricerca genealogica della parola è rappresentato dalla comprensione del suo esistere nel solco dell’evoluzione, dal suo figurarsi quale sforzo ultimo verso forme di sopravvivenza. Questo le impone una radice ed una nascita che travalichino nettamente forme di misticismo; quanto la piega, piuttosto, all’interno della sua stessa natura che, da quanto è comprensibile, risulta estremamente priva di eccezionalità rispetto al contenuto di complessità che essa racchiude. In tali termini, ci si ritrova nello stesso imbuto di ogni forma eziologica: ogni qualvolta, infatti, l’uomo si è trovato dinanzi ad un fenomeno estremamente articolato, lo ha giustificato attraverso fonti ed origini altre rispetto al proprio campo d’azione. Questo sforzo ricostruttivo è certamente motivato anche dal mantenimento di una certa conquista, utile al prosieguo nella storia del mondo: se, infatti, le capacità intellettive umane sono state in grado di elaborare un simile portento, esse saranno anche in grado di distruggerlo o di svilupparne forme alternative; è il rischio/vantaggio attribuito al creatore di un fenomeno. Dunque – e si ritorna al principio – la volontà in climax di attribuire alla parola il senso del Logos (dunque dell’ordinamento appartenente al modo di pensiero di Dio stesso) certifica questa volontà irrefrenabile dell’uomo di impedire a se stesso ed alle future generazioni di ritornare al prima, al mondo senza parola.
Mi piace, per chiarire definitivamente cosa sia la parola / logos, ritornare nuovamente ad un passo biblico. Siamo in Genesi (1, 3-5), l'autore sacro chiarisce che Dio parlò e fu la luce, Dio chiamò la luce giorno e le tenebre notte; così fu mattina, così fu sera. Osserviamo il chiarissimo simbolismo che compone la ricostruzione biblica: la sola Parola di Dio ( il suo solo Logos) è in grado di procreare il mondo o, in una definizione strettamente eriugeniana, di definire le cause e gli effetti, legge irreprensibile per riuscire a comprendere il modo di esistenza del creato. Essendo l’atto creativo ciò che, per la cultura ebraica, è definibile come l’epifania dell’onnipotenza di Dio, è sorprendente come questa agisca attraverso il solo peso della Parola. Malgrado, tuttavia, l’atto creativo possa essere iconograficamente assimilabile maggiormente ad un atto manuale o plasmante: perché, allora, questa scelta così complicata e poco immediata?
Proseguendo nel racconto di Genesi, si ritrova sempre una medesima struttura sintattica pratica ripetuta continuamente: Dio parla, dunque ordina, e le cose sono create secondo suo ordine. Anche quando ad Adamo, prima del peccato, vengono affidate le sorti del creato, questi, per prima cosa, fornisce un nome a tutte le cose. Viene a manifestarsi, allora, la necessità della parola quale sconvolgimento storico. In principio, un principio che è successivo all’esistenza di Dio, le cose del mondo non esistevano, perché create dal nulla (un nulla materico, che era, però, sempre esistenza nel pensiero di Dio). Uno scandalo, dunque, si abbatte nella storia dell’essere: l’eterna esistenza di Dio compone le cose materialmente e lo fa servendosi del mezzo della sola parola; di una parola che ordina. Questa ricostruzione, senza dubbio, non è una ricostruzione veritiera – chiarita è stata, ormai, la natura eziologica di Genesi – eppure è essenziale per lo psicologismo che ha caratterizzato le comunità che hanno formulato ed abbracciato, dopo la formulazione, questa tesi. Perché quest’indagine psicologistica non è ascrivibile alla sola cultura ebraica (la cultura formulatrice), ma anche alle culture successive che, attraverso il cristianesimo, hanno abbracciato questo modo eziologico. Se, infatti, non si fosse assistito ad un’identica concezione della parola ordinatrice, ci saremmo trovati dinanzi a delle forme di rigetto e di non trasmissione, in virtù della manifesta incomprensibilità. Sono frequenti, non a caso, gli studi di storia delle religioni che hanno dimostrato la riluttanza che comunità strettamente matriarcali hanno avuto, per esempio, nell’accettare il cristianesimo in virtù del dogma trinitario: come può Dio, infatti, essere maschio (riducendo in soldoni), se il maschio è sottomesso alla femmina? Può, allora, Dio invertire i rapporti di forza?
L’avere, dunque, come eredità l’idea di una parola procreatrice significa essere rassicurati dalla psicologistica sulla completa e corrispondente concezione del logos (la parola, che ha già in sé il senso dell’ordine) come scandalo nella storia; scandalo, però, che ha motivato la persistenza e la vittoria rispetto all’evoluzione. È un ragionamento un po' contorto, ma che certifica l’esperienza reale che l’uomo ha fatto del logos: un’esperienza tanto sconvolgente e siderale, da essere utilizzata quale espletamento del modo di agire di Dio, dopo che questi è stato pensato. Dinanzi ad una simile ricostruzione possiamo chiarire, finalmente, cosa sia la parola.
La parola è ed incarna lo scandalo temporale dell’evoluzione, il modo attraverso il quale l’uomo riesce a porsi totalmente in agonismo col mondo, al punto da frenarne la sua irruente matrice prevaricante. Attraverso la parola, infatti, l’uomo ha definitamente adottato il senso completo di un fare comunitario; un fare comunitario che è altro rispetto al branco. Con la parola nasce e si concepisce completamente l’esigenza di un’oggettività: la formulazione di un oggettivo, infatti, non ha come linea guida il vigore di incarnare l’assoluto, ma ha piuttosto l’esigenza di richiamare tutte le soggettività affinché si riconoscano in unico modulo condiviso. È in questi termini che si plasma irrimediabilmente l’esercizio alla conformità, l’adozione di un filtro che valga da contenuto univocamente tale per ognuno. Quando l’uomo si dota della parola – o meglio – evolve in un soggetto verbale, questi non si sta relazionando ad una medesima percezione del tempo e del luogo in cui vive, ma sta inesorabilmente individuando che il sentire empirico personale debba essere comunicabile all’altro. Il logos (dunque il senso pieno della parola già ammessa come ordine) è l’urlo che si tramuta in un’espressione obbligatoriamente disgiuntiva: o dolore o gioia; nel campo del dolore o della gioia, il dolore o la gioia di lieve o importante intensità; nel dolore o nella gioia di specifica intensità, il dolore o la gioia avente specifiche caratteristiche; fino a giungere alla predicazione di una specifica esperienza che è comunicata completamente all’altro e che è dedotta pienamente dall’individuo che riceve la comunicazione. In tali termini, dunque, il logos non solo riesce ad avviare un processo comunitario, ma conduce anche ad una specializzazione dell’individuo. Se questi può, infatti, isolare comunicativamente una specifica percezione (che sia fisica o intellettiva) per comunicarla all’altro, è in grado, anche e soprattutto, di concepirla come univoca e, quindi, di differenziare adeguatamente le percezioni al punto da introdurre reazioni distinte. Ecco, allora, che l’uomo reagisce ad uno specifico dolore perché, prima di comunicarlo in maniera specifica, lo concepisce come specifico. È proprio in questo salto, del tutto psicologico e fisiologico, che l’uomo riesce ad ordinare le cose, a creare il mondo non come forma assolutamente invincibile, ma come realtà che, seppur mai ampiamente controllabile e determinabile, può essere affrontata in maniera adeguata, in virtù dell’attitudine al controllo ed al criticismo, propri della razionalità. È il logos (già come esercizio cerebrale) che scrive il tempo della sopravvivenza, rallenta il ciclo azione – reazione ed apre la frontiera alla qualificazione della reazione, nella consapevolezza di un’esistenza non unitaria delle cose. Il logos, infatti, è anche la scienza e il principio di individuazione del molteplice.
Analizziamo la formazione di una parola: AMORE nasce dalla congiunzione di più lettere. Le lettere, private di questa congiunzione o in virtù di questa congiunzione, compongono o non compongono la parola AMORE. Questo vuol dire che l’analisi unitaria della lettera A non è sufficiente ad intendere la sua pienezza di risvolti: intendere la sola A implica intendere una sola unità che è pluripotente e questa sua pluripotenza è determinata dalle reazioni che le azioni della lettera A possono generare. A, congiunta a M – O- R - E, genera la parola AMORE; ma A, congiunta a M – A – R – E, genera la parola AMARE. Questo sistema compilativo, quindi, mostra l’esigenza di riuscire a concepirsi unità chiamate a qualificare la propria reazione in virtù di altre unità e, parallelamente, far sì che questa reazione possa condurre ad uno specifico risultato. Si instaura, insomma, un regime induttivo salvavita nel quale l’uomo riesce a rendere particolare ciascuna esperienza e a derivarne una specifica scala di confronto che possa rallentarne e qualificarne positivamente l’azione consequenziale, sempre ponendosi il problema comunitario, problema che ormai prescinde l’autosufficienza individuale. È una risultante, dunque, di chiara matrice teoretica: la singola azione è isolata, posta a contatto con la molteplicità. Quindi, definita una macro-area di comportamento, sono passate in rassegna altre reazioni simili (attraverso la memoria); con l’ausilio della prudenza si comprende come attualizzare le altre esperienze alla luce dei fattori contingenti (anch’essi analizzati allo stesso modo) che interagiscono con l’unità; si elabora una soluzione (figlia di un’indagine pro / contro) e si arriva ad un risultato univoco e non transitorio. Per capirci: abbiamo la sola lettera A; questa è posta a contatto con tutte le altre lettere; la lettera A deve essere aggiunta ad altre lettere per formare una parola (nel nostro caso la parola AMORE); si prende coscienza che questa deve essere unita a precise lettere – capendo che la formazione di tutte le parole richieda che vi siano specifiche e sole lettere unite, non intercambiabili in ordine ed identità -; si capisce quali siano le lettere (esse sole) da dover unire alla lettera A per formare la parola AMORE. Dopo che per M, O, R, E si è fatta la stessa cosa, si elabora l’ordine con cui sono disposte A,M,O,R,E e si valutano, allo stesso tempo, altri ordini plausibili e quale risultato forniscano; si arriva, quindi, ad unica soluzione mai transitoria – A,M,O,R,E devono essere unite IN QUESTO ORDINE per formare la parola AMORE.
Questo processo, che sembra essere assolutamente lento, avviene in maniera quasi estemporanea (variazione di pochissimi millisecondi) rispetto alla sola reazione estemporanea e rappresenta la chiave di volta del percorso di qualificazione nel regime evolutivo. Il “quasi estemporaneo” è lo iato irrimediabile che fa qualificare nell’uomo ogni azione al punto che questi, in pieno controllo del sé (razionalità), conduce ogni sua azione in maniera tagliente, compiuta e definitiva. Ancora una volta, infatti, abbiamo ragionato a posteriori: il logos (ribadisco: la parola ordinata) è la dimensione fenomenica che fa figurare un atteggiamento umano posto nel quasi estemporaneo e, conseguentemente, nella matrice salvifica che regola – prim’ancora che rallentare – l’istinto, garantendo all’uomo l’attitudine ad affrontare l’ossessione alla sopravvivenza. E’ la sopravvivenza l’obiettivo ultimo di ogni azione umana e questa qualificazione ne è la riprova lampante; ma anche la prova della non eccezionalità del logos. Il logos risiede nel desiderio di contenimento che si è imposto l’uomo per sopravvivere; è il frutto dell’indisponibilità a non sopravvivere più; il logos è ammissione e cura per la morte. Anche il logos, infatti, è riconducibile a questa specifica funzione vitalizzante; anche il logos combatte con tutto se stesso la morte e la affronta come risultante di un successo sull’evoluzione. L’atteggiamento costitutivo, che compone irrimediabilmente la vita, è l’atteggiamento di una valutazione sempre agonistica: il successo della psicologia che ingiuria quanto più possibile la morte, altro non è che comun denominatore di ogni atteggiamento radicato. Dunque, il logos, che è frutto essenziale di questa psicologia del “quasi estemporaneo”, rappresenta una conquista irripetibile, una conquista che genera vita, che comincia il modo al mondo.
In questo espletamento storico e fisiologico si evince, tuttavia, non solo un comportamento personale; ma anche il raggiungimento sublime del concetto e dell’esistenza di una comunità: si instaura, quindi, una riprova potentissima nella quale il segno della percezione dell’altro come termine essenziale della sopravvivenza è un passaggio inderogabile. L’altro, nel “quasi estemporaneo”, non diviene più un avversario o una figura spodestante, ma è il segno riconoscibilissimo dell’avvenuta consapevolezza di una vittoria sulla morte, che può essere scritta solo nella coesistenza con altri uomini; dunque con altre fisiologie simili. Affinché questo sia possibile, è necessario, a maggior ragione, riuscire a costruire un impianto condiviso, un progetto nel quale possano rispecchiarsi tutti e dal quale possano attingere linfa tutti; nessuno escluso. Il logos diviene, allora, anche l’immagine evidente dell’oggettività: oggettivo non è ciò che è valido nella sua dimensione assoluta (non potendo l’uomo contenere un assoluto, essendo ontologicamente particolare), ma ciò che è valido come punto di incrocio tra tutte le soggettività. L’oggettivo diviene il campo di formazione e di costruzione della comunità: individui, dotati di una propria attitudine al vivere, decidono di dotarsi di un meccanismo comunicativo basato sulla collettiva e reciproca comprensione. Questa dotazione è del tutto provvidenziale perché certifica la formazione di un mondo condiviso e, pari merito, l’esigenza di una filtrazione che possa rendere il peso emotivo e pulsionale della vita meno forte ed imperante. Il logos, nella sua stessa formazione, non ha mai la capacità di contenere l’intero sentito e sperimentato perché, basandosi su una conciliazione di soggettività, richiederebbe la prevaricazione di una soggettività sulle altre, quindi si tratterebbe di una soggettività tirannica e non di una condivisione comunitaria di soggettività. Per dar spazio, dunque, a questo spazio comune, ciascun uomo rifiuta di comunicarsi totalmente per rendersi comprensibile, dunque per schiudersi ad un altro in modo che questi possa com – prenderlo, contenerlo con sé. È il se stesso che, in questi termini, viene mitigato, lasciando grande spazio a quella sfera che è ammissibile nel solo : come ciascun uomo (sé) sa e riesce a vivere la vita secondo l’insegnamento della comunità? Come ciascun uomo riesce ad essere univocamente tale e, quindi, vivendo univocamente, riesce ad esprimersi univocamente? Come può l’uomo pensarsi esattamente in uno specifico modo tanto da ripresentarsi all’altro attraverso un’unica macro-sfaccettatura?
Queste domande ci consentono, ancora una volta, di fiondarci in una costruzione psicologista estremamente utile: il modello della parola diviene anche e soprattutto il modello di chi ha pensato la parola. È nel senso di inversione attribuito al verum ipsum factum di Vico o nell’operatività galileiana: analizzando una creatura dell’uomo, si può comprendere l’uomo stesso. Il logos diviene, innanzitutto, una straordinaria progressione canonizzante e conformista, il logos nasce come una struttura di necessità, come un blocco da applicare alla natura. Semplicemente, l’uomo preverbale è anzitutto stanco della profonda mutevolezza della natura e, comprendendo che una simile mutevolezza possa distruggere intere esistenze, decide di cristallizzarle; dunque di fermarle in momenti che non siano nulla di diverso da se stessi. Questa frammentazione rispetto alla totalità della realtà è nullitudine; ma per l’uomo rappresenta la pienezza con la quale questi può cominciare ad assumere il sopravvento sulla vita, attraverso una ricerca statistica. Per intenderci: VITA= ciò che rende ogni essere tale. La parola “vita” è logos nel momento in cui essa ha assunto una ragione di esistenza collettiva; ossia si è caricata non dell’essere un semplice suono o una somma di grafemi, ma ha assunto un suo campo di esistenza. Quando, infatti, tutti hanno fatto esperienza della vita (e questa è un’esperienza necessaria) ed hanno, nella loro soggettività, compreso che sia un’esperienza riscontrabile in ciascun essere umano; l’hanno caricata di un significato (ossia l’hanno correlata a quella peculiare esperienza) ed hanno, in virtù dell’educazione, consentito che ognuno, legandosi a quella esperienza, potesse riconoscere all’ascolto della parola “vita” un peculiare empirismo che è addossato ad un unico significante, fino a relazionarsi solo e perennemente a quell’univoco significato che in esso risiede, escludendo tutti gli altri. Per essere ancora più chiari: tutti gli uomini sperimentano l’essere vivi e questa sperimentazione non è persistente perché alla fine si è destinati a morire / non vivere (in questo vedi il particolare cristallizzato rispetto alla mutevolezza), nel momento cristallizzato si riconosce l’esperienza che ciascuna soggettività fa dell’essere vivi e si raccoglie la molteplicità di esperienze che ciascun uomo ha della vita; quindi si ricava il tratto comune: tutti gli uomini, perché sono, vivono; dunque l’uomo che è, vive. Per cui il suo essere è vita (non ci caliamo ovviamente in tutte le basi teoretiche del caso). VITA, allora, è l’essere che rendere l’ente essere; quindi VITA= ciò che rende ogni essere tale. Ottenuto questo percorso di formazione, l’uomo procede all’educazione, quindi al conformarsi: si assicura, in questi termini, che i suoi contemporanei e le successive generazioni possano dare alla “vita” quello specifico significato e che tutti, dinanzi alla “vita”, possano adottare uno stesso comportamento in quel – già sopra citato – “quasi estemporaneo”. Se un uomo lotta con un altro uomo per una preda, e in questa lotta un uomo colpisce l’altro, diverso sarà il comportamento suo e della sua comunità se l’altro è vivo o meno. Se l’altro è vivo, il nostro uomo saprà che dovrà continuare a lottare perché questo è sempre tale (quindi vuole sempre la stessa cosa); se l’altro è morto / non vivo, l’uomo smetterà di lottare perché avrà ottenuto la preda. È questa deduzione a garantire il pieno significato che viene affibbiato alla parola “Vita”: l’uomo non vivo non è più tale e non può fare più nulla; è inerme. Tutto diviene univoco: l’uomo che vive, può fare ed è uomo; l’uomo non vivo, non può fare più nulla e non è più uomo. Quando la comunità vedrà l’uomo non vivo, sperimenterà che questi non è più uomo e non può fare più nulla; per cui, come l’uomo che ha ucciso, capirà che il vivere implica il “semplice” essere dell’uomo. Così cristallizzerà questa esperienza ed attribuirà ai due stadi una separazione: vita è vita, morte è morte. Alla parola succede il logos: vita avrà un suo significato (una sua esperienza correlata e, quindi, un suo risvolto) che sarà disponibile per tutti perché da tutti sperimentato. Con il logos avviene la conformità: al sentire la parola “vita” si avrà una reazione, al sentire la parola “morte” si avrà un’altra reazione perché diverse saranno le esperienze tramandate. È nella tradizione (trasmissione), che è valida per tutti, che si genera la salvezza: la vita è vita, dunque è ciò che rende gli uomini tali; quindi va inseguita. La morte è non vita, quindi ciò che non rende più gli uomini tali, per cui va sfuggita. Basterà pronunciare la sola parola “morte” e tutti arretreranno, basterà pronunciare la sola parola “vita” e tutti verranno incontro, in virtù del “quasi estemporaneo” a cui sono stati educati.

3. Parola e Parola poetica
In questa costruzione è lampante ed evidente la mancanza di ogni base fenomenologica di natura estetica. Dirò anche di più: indipendentemente da quale sia il significato che forniamo all’estetica, la parola comunque non è ad essa correlata. Questo vuol dire che sia nel significato classico e più puro, sia nel significato comune e successivo di estetica non esiste spazio alcuno per la parola.
Se per estetica intendiamo la sua autentica connotazione originaria (αἴσϑησις: sensibilità o conoscenza sensibile), il campo di azione della parola è ad esso estraneo almeno per due motivi. Innanzitutto perché, come forma gnoseologica, il logos (dunque la parola con il suo corrispettivo termine significante) è formulazione di una conoscenza principalmente noetica – dunque astrattiva – e per questo posta in una dimensione conoscitiva che travalica la sola sensibilità, per addensarsi nell’intorno di una definizione ragionata, razionalistica ed ideale. Anzi, si può dire che sia lo stesso logos la materia plasmante del ragionamento sul mondo e sulla conoscenza empirica; così com’è il logos (diamo particolare attenzione alla dimensione concettuale) a rappresentare il distinguo attraverso cui la conoscenza sensibile si distingue da quella ideale (che è processo alla sensibilità). Per cui pare ovvio che il logos non possa essere posto in una sfera gnoseologica sensibile – dunque estetica – essendo garanzia ed unità costitutiva di una forma conoscitiva distinta.
A questa distinzione profondamente epistemologica, che mira a collocare la parola (da questo momento in poi “parola” e “logos” coincidono perché non facciamo più riferimento alla conformazione scheletrica della parola, ma alla sua dimensione strettamente concettuale) all’interno di una specifica sfera gnoseologica, va aggiunta, a maggior ragione, una sfera squisitamente teoretica, che mira ad analizzare il parto concettuale che è dietro ogni parola. La parola, infatti, rappresenta anzitutto la fuga dall’abisso, ossia da ciò che con più volti aguzzi risiede al di sotto di ciò che è linearmente ordinato sulla superficie. Questa costruzione è priva di ogni matrice poetante, ma certifica una sola utilità metaforica tesa sempre, però, a non evirarne i significati. L’abisso può essere letto quale universo che è nella semplicità delle cose; quindi, in paradosso rispetto a ciò che si possa immaginare, l’abisso altro non è che la cosa semplicemente esistente con la sua conformazione e con la sua capacità relazionante rispetto ad individuo che conosce. Questa conoscenza, che a lungo tempo ha rappresentato la forma più brutale di conoscenza, altro non è che la relazione empirica nella sua processualità: il senso / il sensibile. Quella sensibilità (che è tanto abusata da tanti poeti) è semplicemente il modo di stare al mondo dell’uomo. L’uomo non può essere biologicamente e fisiologicamente privato della sua capacità di relazionarsi con tutto ciò che lo circonda e di disporre da questo contatto una percezione. La percezione – forma autentica di un fenomeno estetico – va a comporre quel grande calderone, o meglio, quella rilevantissima sommatoria che è il sensibile, che è, a sua volta, mutuato in quanto tale dalla sensibilità; ossia dall’estetica. In questi termini, dunque, l’uomo è dotato anzitutto di sensibilità e tale sensibilità (come chiarisce magistralmente Kant nella Critica alla ragion pura) è strettamente correlata alla natura umana, rappresentando una forma, dunque un modo conoscitivo e fisiologico con il quale l’uomo si relaziona alla realtà. Questa visione, che pare essere poco correlata al discorso sulla parola, è imprescindibile per riuscire a collocarla in un campo di esistenza specifico, che travalichi pienamente l’orbita estetica. La sensibilità, dunque, altro non è che la conoscenza intuita - quindi derivata nella forma più semplice esistente - dalla relazione con l’oggetto con cui si relaziona il soggetto che conosce; ma rappresenta, allo stesso tempo, l’insieme dei meccanismi fisiologici e biologici che determinano la conoscenza (i sensi). A questo punto, ovviamente, si prosegue a regime: la sensibilità (estetica) è sinonimo della conoscenza sensibile, il sensibile è il singolo fenomeno empirico (nato dall’azione complessiva della sensibilità), la percezione è ciò che attiva la sensibilità e quindi è elemento inducente il sensibile. Per intenderci: un uomo tocca un piatto caldo (percepisce il calore del piatto), il solo relazionarsi attiva la sensibilità in virtù dell’azione dei termocettori a contatto con il piatto, il calore percepito è il sensibile, ossia il singolo fenomeno empirico (avvenuto in quel preciso spazio ed in quel preciso tempo); il caldo (che magari genera un distacco istintivo) è il risultato conoscitivo di questo atto, dunque è sensibilità. Perché dilungarsi in un esempio che pare essere tanto distante dal senso e dal ruolo della parola?
La risposta è già fornita nella domanda: questo esempio semplicissimo dimostra in maniera irreversibile che la parola non è in alcun modo un fenomeno estetico perché il circuito estetico si compie completamente senza fare alcun ricorso ad essa. È la lontananza così lampante a certificare questo fenomeno di estraneità della parola e a far affermare, con ancora maggiore forza, che la parola non è e non sarà mai un fenomeno estetico. Questa conclusione vale anche per la stessa parola poetica che è fenomeno estetico, come vedremo, ma di estetica diversa; potremmo dire di estetica non elementare. In questa importante conclusione sta anche la riflessione sulla parola quale unità concettuale (rendendola così sinonimo del logos), perché è proprio nell’esercizio conoscitivo distinto dalla matrice estetica che risiede il ruolo fondamentale ed innovatore della parola. La parola non solo è evidenza del “quasi estemporaneo” (come detto precedentemente), non solo è frutto di un’oggettività reale (quindi non assoluta, ma squisitamente canonica – come già chiarito in precedenza); ma è soprattutto ed innanzitutto il modo con cui l’uomo riesce ad ardere in luce l’abisso, ad incanalare nella frontiera ideale e concettuale tutte le cose conosciute attraverso la sensibilità. La parola altro non è che espressione di questo processo: la parola ha senso se l’uomo è riuscito ad idealizzare ciò che ha percepito, dunque se è riuscito a ritrarlo e a definirlo in un ordine specifico, talmente specifico da essere compreso da tutti gli altri. È questo processo, quasi a chiudere il cerchio aperto nei precedenti interventi, che distingue la phonè dal logos; è questa attitudine, questa modalità sul mondo che genera relazioni strettamente mentali (reali, ma non esterne) con le quali l’uomo affronta ogni giorno la vita.
In questi termini, allora, la parola assume un’esistenza ed una rilevanza a posteriori rispetto all’esperienza e, quindi, alla sensibilità (estetica) che consente di determinarla. Questo implica anche che la parola non rappresenti in alcun modo un fenomeno pieno ed esaustivo; ossia che, in se stessa, la parola non è in grado di trasmettere completamente la pienezza di vissuto dell’esperienza fatta, ma può avvicinarsi solo quanto più possibile al modo empirico, senza riuscire mai ad interromperlo. In tali condizioni, dunque, l’uomo fa piena esperienza di una sensazione, ma la parola non è in grado di farne altrettanto perché appartiene ad un registro generativo che è totalmente distinto. Essa agisce, infatti, in un secondo momento ed agisce come metabolismo intellettivo di ciò che è stato vissuto o sperimentato, al punto che, seppur la storia ci abbia insegnato l’impossibilità di disgiungere il vissuto dalla parola, il vissuto e la parola posseggono due fisiologie distinte, ma mai disunite. È la capacità di contenere l’esperienza sensoriale ed estetica nella mente, il suo processo razionale, a garantire l’adesione entro una gamma conforme, che è l’educazione alla parola condotta fin da piccoli su di noi; a far esprimere in modo filtrato e stereotipato la soggettività illogica vissuta da ognuno. Questo suo essere illogico (non vedere mai come non coordinato, perché anche la sensibilità dispone di un suo ordine specifico) è la chiave da cui si innesta finalmente l’atteggiamento di fuga della parola, che rende la parola l’arte radente l’oscuro, il non abisso.
Può essere illuminato l’interno di una noce avvolto nel suo solo involucro? Può essere illuminato se si rompe quell’involucro e lo si apre al mondo, facendolo divenire parte del mondo altro. Questa conformazione della noce rende, tuttavia, la medesima potenza e la medesima identità che era della noce col proprio involucro? No. Sarà sempre perennemente manchevole e questo suo scarto, letto nel registro fisiologico della parola, rappresenta la distanza dalla pienezza dello sperimentato e l’infinito “tendere a” della parola. Il mondo della parola, dunque, non può sollecitare, non può ammettere mai perennemente ciò che è vissuto al di fuori della parola, perché è altro vivere, è altro agire, è altro essere. Di questo altro vivere ne ha giovato non solo l’evoluzione verso il “quasi estemporaneo”, ma ne ha giovato soprattutto la formazione di una società, che è stata quanto mai scelta azzeccata per la sopravvivenza dell’essere umano.
Ritorniamo, qui, ad un discorso che si è sempre mosso nella trattazione in maniera quasi ombrosa, incognita e latente. La parola ha fondato la società e lo ha fatto per la consapevolezza dell’utile esistenza con l’altro. Il logos (come già chiarito prima, ora diviene sinonimo della parola significante) non ha chiarificato l’esistenza dell’altro, che è già chiarificata dalla semplice estetica (la quale ne riconosce la semplice esistenza), ma ha aperto il grande varco all’esistenza con l’altro; cioè ha concepito l’utile di coesistere e di muoversi con altri individui non solo come un branco, ma, anche e soprattutto, come individui che possono, seppur nei margini onnipresenti della parola rispetto al vissuto, perforare la soggettività e schematizzarla. La parola è il portato in luce attraverso una regolamentazione condivisa e tramite una scala che si costruisce nell’insieme, non nell’imposizione singolare. Per intenderci: l’esperienza che si fa del dolore – è scelto il dolore in termini strettamente fisiologici - è estremamente soggettiva e, come tale, nasce da intensità distinte nei nocicettori (dunque, da percezioni distinte). Questo fattore è un fattore problematico perché implica un processo inevitabile di solitudine: come possono due individui capire il dolore l’uno dell’altro, dunque adottare delle risposte salvifiche in reazione, se soggettiva (quindi diversa) è l’esperienza che ambo ne fanno? Può esservi un punto di incontro, se essi si esprimono attraverso una scala condivisa, quindi da ambo sperimentata: questa scala è, appunto, la parola. I due uomini, dunque, non si serviranno più di una ricerca prettamente e strettamente soggettiva, ma arriveranno ad una fonte di espressione comune che risiede nella parola / termine. Non è questo un caso: la parola è un termine, ossia una limitazione che definisce il necessario, che dipana la luce ed inscrive in unico modo possibile ciò che è vissuto. La necessità (leggi come ciò che è e non può non essere) diviene la frontiera della coesistenza: gli uomini possono vivere tra loro solo se riconoscono in una forma chiara e definita, una forma che sia quanto più collimante possibile al reale. Questo collimare è necessario non per convenzioni etiche e morali, quanto, piuttosto, per risposte pratiche, per attendersi che qualcuno agisca coerentemente rispetto ad una propria esigenza. Riflettiamo attentamente: se ho dolore al ginocchio e questo dolore è invalidante e non ho modo di far capire l’intensità e la gravità del mio dolore ad un altro individuo, sarò destinato a soffrire o, chissà, a morire. Se, invece, ho modo, disponendo della parola, di far comprendere all’altro il mio dolore perché lo qualifico in uno specifico modo, l’altro può reagire in maniera adeguata (diamo per ovvio – precisiamo – che l’uomo si sia già costituito all’interno di gruppi solidali, dunque umani). In che modo si può attuare questa qualificazione univoca del dolore o di ogni altra sensazione?
Attraverso il campo semantico e lessicale, cioè attraverso il congiungere ad ogni parola uno specifico significato, quindi uno specifico campo di esistenza che valga unitariamente per tutti. È il principio per cui A significhi ABCD per tutti e che A significhi solo esattamente ABCD in quest’ordine ed in quest’identità. La base del principio aristotelico (e non solo) di non contraddizione dimostra la sua imprescindibilità logica proprio per questo motivo: la parola ha esigenza di esistere in un solo specifico modo, ammettente sia ratio materialis univoca sia significato univoco, al fine di garantire la sua stessa ragione d’essere. Una parola, infatti, che non sa comunicarsi, dunque che non è pienamente compresa dall’altro, che senso avrà mai? Essa contravviene, infatti, al suo obiettivo di formulazione primario: l’esistenza non per uno solo, ma per tutti. Qual è, appunto, la necessità di aderire ad un codice, se ci si comunica a se stessi? È nella visione dell’insieme, nella consapevolezza irreversibile di una comunità umana (distinta – lo ribadisco – dal branco) come fonte per riuscire a sopravvivere che l’uomo ha inserito la parola quale completo adempimento di questo progetto. Ancora una volta si rilegge e rimodula, non casualmente, Aristotele e la sua congrua differenza comunicativa (ormai storicizzata come “esistenziale”) tra l’uomo e gli altri essere viventi: l’uomo raggiunge la felicità - dunque la suprema tra tutte le virtù, perché autosufficiente – poiché è in grado di aprirsi in una molteplicità definita che è compresa da tutti; ossia, pur nella sussistenza di ogni parola di uno ed un solo significato, la dilatazione semantica è direttamente proporzionale al modo con cui l’uomo vuole che l’altro uomo coesista della medesima esperienza e sviluppi una reazione agonistica (mai contraria) per giungere ad un effetto. Da qui, dunque, avviene una crescita del vocabolario e dell’indicazione concettuale: tanto più si sente l’esigenza di condividere, tanto più si amalgama in un metro comune, che è quello del linguaggio, il proprio vissuto. Ecco perché la parola è prova lampante del grado di civiltà (non solo dell’esistenza di una civiltà): maggiore è la limitazione dell’abisso non comunicato, perché soggettivo, maggiore sarà la percezione di una civiltà che vuole abbattere le frontiere dell’esperienza personale per ratificarsi in uno spazio comune di comprensione. Da come si evince, allora, la parola è tutt’altro che fenomeno estetico anche nell’accezione moderna; ossia è tutt’altro che formulazione che possa ricercare il bello. Rappresenta, piuttosto, una forma inevitabile di fisiologia storica, prima conquistata e poi indotta attraverso l’educazione, che necessita di essere intesa nella sua semplicità evoluzionistica, aldilà di ogni stilema artistico. Questo dettaglio, quindi, distrugge anche l’eccezionalità della parola, eccezionalità tutt’altro che giustificata perché la parola altro non è che sbocco individuale e comunitario.
L’eccezionalità si pone, senza dubbio, nella parola poetica. Questa, infatti, è fenomeno estetico nella misura in cui essa si attua come sviluppo di una techné. È, infatti, impensabile per qualsiasi forma di techné (l’utilizzo della parola greca non è per atteggiamento professorale, ma per muovermi nel più generale possibile) non ammettere una ricerca del “bello”; anzi la techné evolve perennemente nel definire nuovi canoni e nuove esperienze di bello. A tal proposito, ricorro ancora alla filosofia classica. Stavolta però ci muoviamo in quella platonica, evidenziando come la conoscenza (in una conoscenza noetica – leggi come “ideale” – e non estetica) sia definibile per Platone all’interno di una domanda sconvolgente: Cos’è il “bello” e come questo si distingue dalla “cosa bella”?
Il testo originale platonico è ancor più perentorio nella sua resa terminologico e, traducendo alla lettera, pone l’accento su un interrogativo ancora più intenso: cos’è il bello in se stesso e cosa sono invece le cose belle? L’intento di Platone non è quello di fornire una definizione estetica (credendo che l’estetica sia fenomeno sensibile e non ideale), ma, piuttosto, quello di mostrare univocamente la forma più alta e massima di conoscenza: la conoscenza della cosa in se stessa e, dunque, dell’idea della cosa. Ci si rende conto, in questi termini, che fornire una definizione del bello e, dunque, del risultato ultimo di ogni techné è operazione estremamente difficile e fuorviante, soprattutto se Platone la colloca a principio del suo intero schema teoretico e gnoseologico, che farà la sua fortuna nella filosofia di ogni tempo. È sorprendente -almeno, per me, non molto sorprendente - che a fornire il ruolo ed il significato della parola nell’arte poetica non sia un poeta, ma Platone. È chiaro, anzitutto, che lo stesso incedere stilistico del filosofo ateniese sia uno dei più densi che la storia della letteratura greca ci abbia consegnato: la sua tecnica dialogica rappresenta la migliore traduzione in un registro ed in un ritmo scritto del modo e ritmo discorsivo e di dissensio. Così com’è chiaro che Platone raccolga tutti i frutti letterari e filosofici fino ad allora raggiunti: dalla sofistica alla tragediografia, dalla misura delle forme d’arte all’eleganza delle composizioni corali e musicali. Tuttavia è poco chiaro perché nel suo pragmatismo esemplare, Platone abbia scelto come domanda di riferimento il cos’è il bello in se stesso e non, per esempio, cos’è l’amore in se stesso o cos’è la felicità in se stessa. In questa scelta si innesta la discussione poetica.
Per il filosofo ateniese, infatti, non esiste conoscenza più grande se non la conoscenza di se stessi (dunque la conoscenza che l’io fa di se stesso) e questa, ovviamente, risiede in una sfera anteriore e superiore a quella umana: l’iperuranio, dove sono le idee. Se riflettiamo un attimo, la ricostruzione compiuta da Platone è una riflessione più che giusta (non si rida dinanzi a questa semplificazione): la conoscenza si compone di idee; ossia io conosco la “rosa” fin quando ho l’idea della “rosa”, ossia la parola “rosa” corrisponde ad uno specifico concetto che è tale e non può mutare. Dunque, se la forma di conoscenza più sublime è l’io che conosce se stesso, la conoscenza (io) è formata di idee e le idee rappresentano non altro che la forma massima di conoscenza perché la conoscenza, conoscendo le idee, conosce ciò che la forma; dunque conosce se stessa. Ora è chiaro che la resa sostanziale che ne fa Platone non è corretta (questo non è argomento di trattazione), ma è interessante marcare questo se stessi, marcare questa decifrazione del se stessi entro il “bello”. La parola poetica più sublime (dunque più bella) è la parola che sa conoscere se stessi; quella parola che sa invertire la rotta dell’apertura all’altro per esistere in se stessa. In questo se stessa, noi non solo intendiamo la parola poetica che conosce essa stessa e, dunque, la teoretica della parola poetica; ma intendiamo, anche e soprattutto, la parola che sa essere ricollegata ad un’intimità singolare che la scrive e la pronuncia. In questo ambito, allora, come si costruisce il senso del “bello”? Si instaura nel significato classico che si attribuisce al bello, o meglio alla sua identificazione universale: per la cultura classica, infatti, l’esemplificazione del bello risiede nella natura, che è compimento sopraffino di ordine ed armonia, ma anche immutabilità del suo essere prodotto univoco nell’atto (è esistente ciò che incarna la potenza di ogni cosa nel suo solo e definitivo atto). In questi termini il “bello” altro non è che il se stesso, il naturale, la conformazione semplice e necessaria di ogni cosa; il to kalòn (il bello in se stesso) è ciò che riesce ad avvicinarsi quanto più possibile al modo esistenziale di ogni cosa e a descriverne perfettamente la natura senza alterazioni o variazioni di sorta. È qui che si innesta il coraggio della bellezza e, parallelamente, dell’esistenza della conoscenza; così come qui si innesta il coraggio e la bellezza della parola poetica autentica, della parola poetica che non sa mai circoscrivere, ma lascia perennemente un percorso di fuga.
La parola poetica, infatti, è necessità, privata però del suo campo di uniformità; anzi, è la stessa necessità che la dispone oltre il confine dell’oggettivo, oltre quel vasto campo che è l’esperienza condivisa. In questa sua irreversibile opera solitaria, la parola poetica risponde al naturale; al punto che più la parola poetica è naturale tanto più essa sa essere bella e tanto più sa essere ideale, quindi, in termini platonici, volta ad una costruzione di una conoscenza pura ed immanente, ad una conoscenza vera. La parola poetica, (in climax) la poesia, non si compone di deliri, ma accetta di scavare il non usuale, il non lucente, la forza vorace dell’abisso, per martellarla, scomporla, fletterla fino ad offrirne un’analitica che, seppur in una matrice oggettiva (quale la parola stessa è), riesce a rimarcare sempre uno stadio mai totalmente compreso né al poeta, né al lettore. Si istituisce, insomma, una comprensione per gradi, malgrado questa comprensione sia discensionale nel rapporto tra poeta e lettore; mai ascensionale. È il poeta stesso, purtroppo, che dispone di una fatica enorme per raggiungere il risultato poetico: si muove, per intenderci, entro grandi stadi di refrattarietà per consegnarci lo stadio più breve – quello scritto – che, paradossalmente, è la fuga dal generale, dal più grande. Ogni poesia è semplicemente, anche dannatamente, lo spettro più breve di un processo di parto e di abbandono. È il parto perché implica una sedimentazione profondissima entro quel grande confine che è la singola esistenza al mondo. È l’abbandono perché, posta per iscritto la poesia, genera una forma continua e vigorosa di allontanamento rispetto al meccanismo pulsionale che l’ha generata, in ottemperanza al modo esistenziale e gnoseologico proprio della parola. È stato già precisato, non a caso, in parti antecedenti della trattazione, che la parola è rifiuto dell’espressione completa della soggettività non perché non esista parola soggettiva (è questa la parola poetica), ma perché non è in grado di trasmettere l’universo visto dall’occhio, toccato dalla carne, sancito dal pensiero di uno solo. La parola poetica, dunque, diviene pieno percorso ideale, in virtù anche della sua capacità di irrompere negli schematismi già preselezionati, capace di giungere al più grande risultato che lo stesso Platone prevede per il riconoscimento delle cose del mondo. La parola poetica continua a ripetere il Gnothi s’autòn socratico per far dire al poeta di essere soli al mondo, soli nella sua conoscenza, soli nella sua visione e nel suo vissuto. Malgrado, infatti, la forza irrefrenabile e salvifica che viene dall’esistere con l’altro, malgrado la forza che giunge dalla parola poetica già detta e trasmessa, la vera poesia (quindi non il semplice esercizio artistico o emulativo-tecnico) sa solo protrarsi in strade che altri non hanno mai percorso perché è disarticolazione e disancorarsi. È in questi termini che si compone la forza estetica, che si pone quale ricerca del bello, ma anche la forza estetica che è sensibilità al mondo: l’uomo che si serve della parola poetica sviluppa un percorso ermeneutico capace di costruire una relazione monolaterale col mondo; una relazione, per certi versi, primitiva e dalla portata esplosiva; ma che significa, allo stesso modo, attuare una misurazione non ovvia del mondo. In questa misurazione si inscrive la vera traduzione poetica, la sua irrefrenabile riscossa, la sua fisiologia distinta: la parola poetica sa costruire un posto solo proprio nel mondo, sa innalzare il baricentro oltre il limite del visto da tutti per divenire anakakleusi. È l’uomo dei primordi (preverbale), pienamente avvolto nel ritmo complessivo di un vivere nella reclusione di un essere perennemente inquadrato in se stesso, che fa esperienza del coesistere e del vivere collettivo, che si dota di un processo di apertura totale entro una luce sempre velata e mai piena (perché – lo ribadiamo – la parola non restituisce mai pienamente la soggettività) e che, poi, impiega questa sua enorme scoperta per inoltrarsi nella materia del velo fino a trasmetterlo, con una forza lancinante ed oltre la logica oggettiva, a se stesso, anzitutto, ed a quanti sono chiamati a godere di quei frutti tracciati dal verso. Si compone, allora, lo straordinario portento del ritorno maturo alle origini: l’uomo civile che esiste e si plasma sull’onestà, seppur incontrollata, primitiva e che sa vivere nella dirompenza del pieno se stesso. Questa costruzione, che è il ricongiungimento dell’inizio e della fine, genera la capacità di vedere l’abisso, di discuterlo oltre ed entro la parola; ma il tutto attraverso una non eccezionalità, attraverso l’oscuro (il non detto mai prima, il non pronunciato mai a voce alta) che non è santificazione, quanto il naturale percorso fisiologico di essere umani che hanno recuperato la loro identità primaria, conducendola però a maturazione.
In questo esercizio si compone l’aut aut che ha aperto la nostra discussione: sono oscuro per scelta, perché scelgo di non guardare autenticamente me stesso e proclamo un falso sfuggire (che altro non è che il mis-conoscere se stessi), o sono oscuro per fisiologia, assumendomi il rischio di catturare l’incomprensione parziale di molti per poter essere fedele a quella soggettività che è mia? E se scelgo questa seconda strada, la mia oscurità è ripiena di un percorso analitico (dunque di un percorso ideale) autentico oppure è oscurità ingiustificata e non materica? Questi sono interrogativi con i quali la poesia contemporanea urge che si confronti. Questi sono interrogativi che, soprattutto, possono essere posti solo dopo che la poesia contemporanea ha maturato la sua ricerca sul senso della parola, solo dopo che è riuscita a scomporsi entro una ricerca conducente all’unità primigenia. Ma, a dire il vero, per i discorsi sulla poesia contemporanea c’è ancora tanto e tanto tempo. Abbiamo parlato di genealogie verbali, che implicano la distruzione di luoghi comuni: annientiamo una cosa per volta!

Parla anche tu,
parla per ultimo,
di’ la tua.
Parla –
ma non separare il no dal sì.
Da’ al tuo detto anche il senso:
dagli ombra.

(Paul Celan)
Giansalvo Pio Fortunato

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BIOBIBLIOGRAFIA
Giansalvo Pio Fortunato è nato a Santa Maria Capua Vetere, il 20/03/2002. Attualmente risiede a San Marcellino (Ce) e frequenta la Facoltà di Filosofia presso l’Università Federico II (Napoli). Nel 2022, la pubblicazione della sua prima raccolta edita “Ulivi nascenti” (Albatros, il Filo) e, nel 2023, la sua seconda raccolta edita “Civiltà di Sodoma” (RP Libri). Collabora col mensile culturale “Agorà Giovani” (Ed. Scuderi), con la rivista internazionale di poesia “FormaFluens – International Literature Magazine” e con la rivista nazionale di poesia “Metaphorica”. Vincitore già di alcuni riconoscimenti letterari (tra cui il premio internazionale “Scriptura”, ed il secondo posto al Premio Città di Caserta), suoi versi sono stati tradotti in spagnolo dal Centro Cultural Tina Modotti, in albanese, in arabo per la rivista internazionale “FormaFluens”. Collabora con Alessandria Today.


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