"Genealogie verbali" - un saggio di Giansalvo Pio Fortunato
Definire
la poesia un’arte abissale è quanto di più comune, ma anche
quanto di più incompreso la storia della letteratura e
dell’esperienza poetica ci abbiano consegnato. Una simile
prominenza teoretica, infatti, pare assai spesso porre i poeti
dinanzi ad un “aut
aut”,
che si scandisce nel constatare e capire la propria pochezza o,
parallelamente, nell'arrivare all'esaltazione del proprio fenomeno
poetico. È indubbio, infatti, che, soprattutto ai giorni nostri,
l'idea di un costrutto misterico ed il fascino del “nero”(nel
senso sinestetico del termine) rendano la seconda opportunità molto
più appetibile. Eppure questa figurativa dell’abisso vuole fugare
ogni forma manieristica ed ogni obiettivo esoterico. L’appunto, che
qui emerge prepotente, è di tutt’altra direzione e pare piuttosto
abbattere le barriere elitarie e trionfalistiche della poesia.
Prima,
però, di ultimare questo percorso e giungere all’aut aut, sopra
citato, bisogna soffermarsi anzitutto su una domanda nevralgica nella
nostra riflessione: “Cos’è
la parola?”.
Pensare di argomentare sulla poesia – soprattutto se teoreticamente
– senza soffermarsi sulla cellula che la compone e la costituisce,
sarebbe un esercizio inutile ed invalidante; un esercizio inutile ed
invalidante che, nostro malgrado, si compie frequentemente oggi,
dimenticando inesorabilmente il programma e l’atto procreativo
della poesia: la sommatoria di parole necessarie.
1.
Genealogia della parola
La
parola, aldilà se sia poetica o meno, rappresenta una forma
stupefacente prim’ancora che di comunicabilità, di determinazione
degli schemi esistenziali. La “somma
delle lettere / sillabe”
impone alla storia dell’uomo un intento salvifico e protezionistico
inesorabile: si può affermare, anzi con un certa sicurezza, che la
parola abbia rappresentato uno dei primi esempi a supporto della
teoria evoluzionistica darwiniana. È plausibile, infatti, che
disponendo l’uomo della parola anche come principio della
scrittura, vi sia stato, ancor prima dell’uomo parlante,
un uomo mugugnante
o (non a caso) versificante
(tanto quanto prima dell’uomo scrivente vi fosse un uomo
semplicemente parlante), capace di aderire ad una più o meno
convenzione fonica disarticolata. Questo palinsesto eziologico è
stato, dunque, mutuato nell’adesione ad un registro ordinativo,
capace di oggettivare ogni soggetto esistente.
In
questo i Greci erano tanto più lungimiranti ed in due casi
trasmettono la prima unità percettiva della “parola”
consegnata alla storia. Eraclito ci parla di un “Logos”,
che è ascrivibile ad un duplice significato: logos quale parola,
logos quale ordine. Superando le trame prettamente concettuali –
filosofiche, che non competono a questa trattazione, è opportuno
soffermarsi sulla prospettiva che induce il filosofo preplatonico a
muoversi in questa dualità di significato. Perché l'uomo dovrebbe
puntare ad uniformare la sua ricerca conoscitiva nell’ordine che
muove tutte le cose? Perché quest’ordine è ascrivibile allo
stesso termine che significa anche PAROLA?
Ci
spostiamo nel Prologo di Giovanni ed il primo verso dello scritto
d’apertura del Quarto Vangelo si articola con la chiara
affermazione di un “Logos”
che, traducendo la Vulgata in “Verbum”,
non è reso pienamente. Dal testo greco (riporto traslitterato),
infatti, si legge: “En
archè o Logos en”
. La traduzione cantilenante afferma che In
principio fosse il Verbo
(vedi come Dio quale Parola creatrice), ma la duplicità del termine
greco non tradisce: i compilatori del vangelo giovanneo, malgrado la
vasta scelta lessicale che il greco offriva (vedi lexis
od onoma
o phonè),
optano per il sostantivo che ripudia maggiormente l’atto della
parola in sé, la sua sostanzialità materica, per privilegiarne la
prassi, la resa significante attiva: la parola come strumento e
misura d’ordine.
Il
contatto diretto, allora, con questa dimensione filologica
trasferisce in maniera sorprendentemente vantaggiosa non la ritualità
filosofica, quanto la pertinenza psicologica di ogni tempo. Questo
significa che, pur nella consapevolezza che il contesto
storico-culturale possa condizionare inesorabilmente la resa
fenomenica e superficiale di un particolare percorso intellettivo e
conoscitivo, la sua latenza, la sua struttura radicale e radicata
restano inesorabilmente quelle. In tali termini, allora, si evidenzia
una straordinaria commistione lessicale – empirica. L’uomo, per
intenderci, ha sperimentato nel sorgere pieno e comprensivo della
parola, l’instaurarsi di una condizione di ordine permanente; un
ordine – potremmo dire – teoretico nel quale, aldilà degli
ordinamenti che sono congiunti alla sfera diemica della storia
spazio-temporale, persiste la volontà implicita di comprendere (non
far assurgere) la parola, ad un ruolo strettamente utilitaristico,
intendendola in termini prettamente evolutivi: non è l’uomo che
percepisce e fa fungere la parola come una fonte di ordine
sopravvivente, ma è la parola, disposta dall’uomo, che ha fatto da
fonte di sopravvivenza. Conscio, quindi, di questo principio empirico
storico, l’uomo non ha potuto far altro che affermare, anche e
soprattutto nella matrice filologica (che è pensata e che dunque
deriva dalle stesse attitudini psicologiche che hanno vissuto la
transizione dal caos all’ordine), la coesistenza o l’equazione,
storicizzata psicologicamente: “parola
sive ordine”.
Questa
equazione, emblema dell’intero sforzo razionalistico che ha
contraddistinto la storia del pensiero, non a caso si regge
sull’obiettivo ultimo del filosofo che l’ha composta e calcolata
(nella forma originale di Deus
sive ordine):
l’esigenza di istituire un Logos che travalicasse così in maniera
viscerale le strutture radicanti della natura, da essere assimilato
al modo di Dio. Aldilà di tutti i diversi contenuti metafisici, che
non competono a questa trattazione, è essenziale evidenziare il
percorso tracciato da un’indagine concettuale semantica: la parola,
nella sua traccia segnata dalla lingua antica, ha incarnato a lungo
un percorso strettamente ordinativo; ossia – per intenderci –
l’uomo ha investito la parola del ruolo insopprimibile di porre
ordine ad un mondo pienamente consegnato al caos e questo Caos (in
una matrice primordiale) rappresenta l’alterità annichilente da
cui riuscire a scappare quanto più possibile, al fine di raggiungere
quella meta irresistibile che era la salvezza biologica o, in termini
molto più pratici, la sopravvivenza. In questo intento, la
genealogia della parola diviene esemplificativa: se, infatti, una è
la psicologia che ha concepito la necessità storica (necessità nel
suo senso ontologico, intendibile come irreversibilità) di
architettare la natura umana in una impronosticabile forma di
rallentamento degli stati entropici (quindi un rallentamento del
processo di successione, distruggente repentino degli stadi di stasis
– dunque di calma elaborante), una è anche la psicologia che ha
regolamentato la comunicabilità all’altro e a se stessi; e una è
la psicologia che ha standardizzato il senso ed il significato della
parola nella sinonimia dell’ordine. In queste poche righe si
racchiude, insomma, l’intero percorso comparato dell’istituzione
di un senso ordinativo dell’essere sociale e, pari merito, di un
percorso ordinativo della comunicazione a se stessi ed all’altro,
ascritto all’elaborazione della parola (nel suo senso universale).
Dinanzi
ad una simile conclusione possono essere diverse, tuttavia, le
rimostranze su ogni campo. Ci limiteremo ad osservare la sola più
pertinente ad un’analitica filologico – genaologica: la
sovrapponibilità tra phonè
e logos.
Anche la phonè, infatti, può essere assunta come un fenomeno
comunicativo e, addirittura, come un fenomeno comunicativo
comprensibile. In soldoni, infatti, per phonè intendiamo più
semplicemente il verso di un animale che, in un’ottica banalmente
antropocentrica, è osservato come un unico modulato, assai in
antitesi rispetto alla phonè umana che, nella semplice costituzione
materica del suono, articola diverse composizioni grafemico –
sonore, in virtù del contenuto della sua composizione. Sorgono,
legittimamente, spontanee due domande: cosa separa autenticamente la
phonè
dal logos?
È pertinente questo percorso tracciato rispetto ad una genealogia
della parola?
Innanzitutto,
è necessario precisare, dunque, il distinguo tra la phonè ed il
logos, per non incorrere in equivoci o in invalidamenti dal
principio. Ciò che, infatti, distingue questi due modi comunicativi
è senza dubbio la conformità. Sembra alquanto sorprendente, ma la
distinzione che si innesta non è di tipo estetico; quanto,
piuttosto, strettamente biologico e sociale, dal momento che l’uomo
elabora l’esigenza di costituire una società, che è ben distinta
dalla teorizzazione di una società, fin dai suoi primordi. Mentre,
infatti, la phonè (poniamo verso di un animale) assume delle
modulazioni che sono spontanee e che non gli vengono impartite da
nessuno – vedi anche i “mugugni” o il pianto dei neonati -, il
logos (poniamo parola nel senso universale) è frutto di
un’operazione educativa; quindi di un processo, non strettamente
scolastico, in cui l’impartire specifiche attuazioni sonore,
corrispondenti alla competenza di un grafema, è il frutto di un
conformarsi dell’individuo alla comunità. Dinanzi a tale
conclusione, certamente, potrebbe essere posta un’altra obiezione:
il logos, nei bambini, nasce dal semplice gesto dell’ascolto di una
parola elementare che è perennemente riproposta all’attenzione del
bambino, al punto che un bimbo saprà urlare e piangere, ma non
pronuncerà alcuna parola di senso compiuto – per noi – , se
questi non è in grado di udirla. È in questa fisiologia che si
genera l’esigenza del conforme e dell’ordine, un’esigenza che
travalica il semplice processo di ascolto (dunque estetico), per
vertere ad un percorso comunitario ordinativo ed educativo.
Proseguendo a ritroso e partendo da un uomo dotato della semplice
phonè – riscontrabile in un bimbo di pochi mesi -, si può scovare
l’esigenza extraestetica del logos. L’uomo ante-logos concepisce
l’esigenza alla sopravvivenza perché, pur essendo dotato di una
specifico assetto comunitario – ascrivibile alla conformazione
pratica di un branco -, evidenzia che, per deficit legati più
materialmente alla condizione della sua esistenza rispetto alla
natura in toto, deve adoperarsi al fine di sopravanzare rispetto alla
stessa sopravvivenza. Dunque, inizia ad elaborare una propria
ricostruzione del mondo, nella quale è imprescindibile l’uso di un
logos (dunque di una phonè ordinata e compresa dalla sua comunità):
questa ricostruzione del mondo è il primo esempio di ordine, il
primo processo di modulazione che non ha le fattezze di un atto
prometeico (dunque di un ratto), ma di una semplice risposta alla
naturale storia narrata dalla teoria evoluzionistica. Questo percorso
di adattamento al mondo, che nasce da un fare relazionale, parte da
un presupposto ben distinto rispetto alle altre specie: la
costruzione di una struttura razionale, il cui risultato più alto
non è l’elaborazione di un pensiero, quanto la forma più
radicante dinanzi alla quale ci si possa trovare: la limitazione
della soggettivazione derivante dall’irrazionale. Quando l’uomo
comprende, infatti, che mantenendo una soggettività non prevaricante
può una volta per tutte riuscire ad ottenere la propria materiale
sopravvivenza, è portato istintivamente ad intraprendere questo
percorso di posta in confini. Questo meccanicismo, infatti, riflette
paradossalmente il più sedimentato tra gli istinti irrazionali:
l’istinto alla sopravvivenza. Ed è proprio in virtù dell’esigenza
alla sopravvivenza che l’uomo perpetua questo inizio modulativo del
razionale. È chiaro – e va precisato – che la razionalità non è
istituita arbitrariamente dall’uomo e che per il suo sopraggiungere
non si abbia un effetto “ex nihilo”, ma si assiste, piuttosto, ad
una modulazione graduale che fa sì che azioni comportamentali –
dunque cerebrali – altre rispetto alla razionalità possano
consentire all’uomo di monitorare, ritrarre e costruire
diversamente gli scheletri della sola dittatura irrazionale.
Questa
nuova sfera dell’attività cerebrale – ritenendo, con estrema
precisione, che la materia unitaria sia rappresentata dalle sole
cellule neuronali, per cui il cervello non sviluppa mutazioni
macrocosmiche sostanziali – comincia ad essere sempre più
performativa, in virtù della sua riproposizione seriale ed in virtù
della sua attitudine nel fornire all’individuo le trame di una
nuova soggettività: l’Io.
Questa sfera, ben distinta – non casualmente – dal semplice “Es”
che certifica la sola attività cerebrale in virtù dell’esistenza
dell’soggetto (pur nella forma istintiva), ha per suo fulcro
necessario la consapevolezza d’essere procreativa; cioè
l’attitudine a rimarcare uno stato di confine preciso rispetto ad
una molteplicità e ad una molteplicità consapevole. È, anzi, la
stessa consapevolezza l’attributo necessario all’applicazione del
dettato proprio della razionalità: la possibilità di ritenersi una
volta e per tutti governanti non solo dall’armonico relazionarsi
tramite un’intelligenza emotiva ed istintiva; ma, attraverso anche
una condizione relazionale che faccia sedimentare ed incrociare i
semplici dati sensoriali, percepirsi anche come capaci di
“metabolizzare” le ricezioni e la reazioni immediate, che
conducano ad un sedimentare capace di valorizzare cause e qualità
della risposta. Cosi si instituisce finalmente un perenne confronto e
parallelismo con l’istanza da cui tutto ha avuto origine: la
sopravvivenza. È l’acume critico, la riflessione personale, che
rallenta il tempo della vita ed unisce alle reazioni immediate forme
di rigido controllo e di comportamenti con durate perduranti, a
chiedere perennemente all’uomo: può
questo comportamento farmi vivere più a lungo e meglio?
È la conciliazione tra il semplice dato del combattimento con la
morte e la volontà di qualificare questo combattimento ad imporre un
rallentamento salvifico: attraverso la razionalità, l’uomo ha
finalmente la possibilità di sviluppare un’intelligenza
critica.
Si
pone, allora, una domanda: come la parola si ricollega con un
processo così ampio? La parola
è l’epifania,
forse una delle più lucenti, di questo straordinario percorso che ha
contraddistinto l’essere umano. Si potrebbe dire, piuttosto, che
essa abbia condizionato così positivamente l’ultimarsi di questa
strada storica che sia divenuta praticamente eterna. Nella nostra
riflessione a posteriori, infatti, tendiamo semplicisticamente a
considerare come irreversibile una persistenza dell’intero genere
umano nel solco segnato dalla parola ma, seppur attraverso una strada
iperbolicamente ipotetica, se la parola, così come formulata
dall’essere umano, avesse rappresentato un tratto non positivistico
– quindi non utile alla sopravvivenza nel processo evoluzionistico
–, si sarebbero palesate due inevitabili conseguenze: o la
scomparsa definitiva dell’essere umano o la sparizione della
parola, perché sostituita da altri modi evoluzionistici. Giungiamo,
dunque, all’interrogativo di partenza: cos’è veramente la
parola?
La
parola è la materia umana della salvezza,
la capacità straordinaria dell’ominide di porre in una spirale
ordinativa l’intero mondo. Un mondo che, nel suo scheletro, può
essere definitivo duplice: esso diviene, quindi, in due strutture che
sono riconoscibili per ragioni prospettiche. Da un lato, infatti, si
pone in rilievo il mondo intrinseco (ab
intra)
e, dall’altro, si ritrova in completamento il mondo estrinseco (ab
extra).
Questa condizione di completamento – precisiamo – non è frutto
di un percorso antropocentrico, che oggi risulterebbe non solo errato
concettualmente ma anche anacronista; quanto rappresenta, piuttosto,
l’assimilazione dell’uomo al dettato totale ed universale del
mondo: l’individuo, infatti, può disporre di pieni poteri sul
mondo intrinseco attraverso l’egida della razionalità che,
adeguatamente formata, realizza una regolamentazione ferrea ed un
filtraggio positivissimo sull’intera sfera irrazionale; ma non può
disporre degli stessi rispetto al mondo estrinseco, dinanzi al quale
è pochezza, conducibile al massimo attraverso le sole forme di
volontà di potenza. In tal senso, prima di giungere al nocciolo
ultimo della domanda sopra esposta, bisogna chiarire due aspetti: la
razionalità ha solo una funzione contenitiva rispetto
all’irrazionalità? Dunque non è giustificabile in se stessa?
Questa
precisazione, seppur brevissima, è d’obbligo per evitare
contestazioni da principio, pur non inficianti la strada maestra
tracciata. Per questo è necessario chiarire due aspetti fondanti:
per razionalità ed irrazionalità non intendiamo due strutture
“sostanziali”
ma due fisiologie; la razionalità ha suoi equilibri e sue dinamiche
intrinseche che la fanno collaborare ed agire con l’irrazionalità,
senza però determinarla. È chiaro, ormai da tempo, che la
struttura strettamente “cogitativa”
(o anima) non sia definibile strettamente in una sfera topografica
altra rispetto al luogo cerebrale, così come né per la struttura
razionale né per la struttura irrazionale esistono forme altre che
siano definibili esternamente a matrici istologiche ed anatomiche;
quindi sia il razionale che l’irrazionale dipendono strettamente
dalla struttura e dal funzionamento del cervello. Per cui, si ragiona
sulla razionalità come una specifica forma operativa (fisiologica),
non come una sostanza o altri attributi metafisici. Chiarito questo
primo aspetto, possiamo giungere all’autosufficienza identitaria
della razionalità. Malgrado, infatti, uno dei ruoli fondamentali
della razionalità sia proprio quello di riuscire a rallentare e
qualificare le risposte istintive segnate da una relazione
sensoriale; lo scopo fondamentale della razionalità e,
parallelamente, la sua autosufficienza identitaria è quella di
riuscire a gestire l’ordine ed il controllo (quindi la potenza) che
l’uomo ha sul mondo. Questo rende la razionalità strettamente
indipendente dall’irrazionalità non nella sua operatività, quanto
nella sua definizione. La razionalità, infatti, opera in virtù
delle sensazioni, quindi dei fenomeni percettivi, che compongono la
matrice irrazionale (dettata dalle relazioni sensoriali, che si
traducono successivamente in comportamenti istintivi oppure in
emozioni), ma è definibile indipendentemente da essa: rende la sua
azione attingendo dall’irrazionalità, ma attraverso proprie
logiche e proprie regole. Questo aspetto definisce chiaramente la
volizione potente dell’uomo, volizione che lo rende capace di
dominare ed indirizzare il suo mondo attraverso diverse sfaccettature
processive.
In
questa dinamica si inserisce la parola: il logos
(la parola nel suo senso ordinativo universale – lo ribadiamo)
nomina il mondo e, nominando il mondo, genera un processo di
associazione delle sensazioni al fine di comprenderlo. Lo stesso
comprendere, infatti, è l’immagine evidente di questa fisiologia:
l’uomo “cum
– prendere”,
afferra per se stesso ed in se stesso la realtà che lo circonda,
determinando un peculiare comportamento che rappresenti una risposta
buona. È proprio la bontà, non a caso, la nuova frontiera dell’uomo
evoluto (del non ominide) ed è la felicità, che segna il margine
fenomenico della bontà, a rappresentare il fine ultimo della vita.
Quando l’uomo smette di pensare strettamente all’utile e conia la
felicità, inizia il suo processo di completa e piena maturazione, il
cui il vivere è sopravanzato dal vivere bene. Nel vivere bene,
infatti, risiede il germe salvifico del vivere. Non a caso, il vivere
è imprescindibile per il vivere bene: può un individuo pensare di
vivere bene, se prima non vive? Ma, allo stesso modo, la nuova
frontiera umana fa perseguire direttamente il vivere bene, pur non
puntando al vivere nella sua semplicità; e questo, non a caso, è
frutto della capacità razionale che, ordinando il mondo, ha scelto
consapevolmente di rimuovere la semplice ragione materica del vivere,
per coniugarla intrinsecamente al vivere bene (che è ragione che
travalica la materia e che, allo stesso tempo, la comprende anche).
La parola, allora, diviene uno dei manifesti di questo vivere bene
perché insegna ed impone il non totalitarismo della soggettività
abissale ed irrazionale, che si compone di sole reazioni non
sedimentate e non metabolizzate della realtà. Se la parola, infatti,
è un codice, ed ha come obiettivo il fornire una specifica identità
ad ogni cosa altra rispetto all’individuo, reggendosi su una comune
comprensibilità mutuata da tanti individui; essa può non essere
frutto del vivere bene? Il vivere, non casualmente, dipenderebbe
dalla sola sfera biologico – irrazionale, che va oltre l’ordinare
a lungo termine il mondo.
2.
Il logos nella storia della sopravvivenza.
Elemento
sostanziale ed irreversibile nella ricerca genealogica della parola è
rappresentato dalla comprensione del suo esistere nel solco
dell’evoluzione, dal suo figurarsi quale sforzo ultimo verso forme
di sopravvivenza. Questo le impone una radice ed una nascita che
travalichino nettamente forme di misticismo; quanto la piega,
piuttosto, all’interno della sua stessa natura che, da quanto è
comprensibile, risulta estremamente priva di eccezionalità rispetto
al contenuto di complessità che essa racchiude. In tali termini, ci
si ritrova nello stesso imbuto di ogni forma eziologica: ogni
qualvolta, infatti, l’uomo si è trovato dinanzi ad un fenomeno
estremamente articolato, lo ha giustificato attraverso fonti ed
origini altre rispetto al proprio campo d’azione. Questo sforzo
ricostruttivo è certamente motivato anche dal mantenimento di una
certa conquista, utile al prosieguo nella storia del mondo: se,
infatti, le capacità intellettive umane sono state in grado di
elaborare un simile portento, esse saranno anche in grado di
distruggerlo o di svilupparne forme alternative; è il
rischio/vantaggio attribuito al creatore di un fenomeno. Dunque –
e si ritorna al principio – la volontà in climax di attribuire
alla parola il senso del Logos
(dunque dell’ordinamento appartenente al modo di pensiero di Dio
stesso) certifica questa volontà irrefrenabile dell’uomo di
impedire a se stesso ed alle future generazioni di ritornare al
prima, al mondo
senza parola.
Mi
piace, per chiarire definitivamente cosa sia la parola / logos,
ritornare nuovamente ad un passo biblico. Siamo in Genesi
(1, 3-5),
l'autore sacro chiarisce che Dio parlò e fu la luce, Dio chiamò la
luce giorno e le tenebre notte; così fu mattina, così fu sera.
Osserviamo il chiarissimo simbolismo che compone la ricostruzione
biblica: la sola Parola
di Dio
( il suo solo Logos)
è in grado di procreare il mondo o, in una definizione strettamente
eriugeniana, di definire le cause e gli effetti, legge irreprensibile
per riuscire a comprendere il modo di esistenza del creato. Essendo
l’atto creativo ciò che, per la cultura ebraica, è definibile
come l’epifania dell’onnipotenza di Dio, è sorprendente come
questa agisca attraverso il solo peso della Parola.
Malgrado, tuttavia, l’atto creativo possa essere iconograficamente
assimilabile maggiormente ad un atto manuale o plasmante: perché,
allora, questa scelta così complicata e poco immediata?
Proseguendo
nel racconto di Genesi, si ritrova sempre una medesima struttura
sintattica pratica ripetuta continuamente: Dio parla, dunque ordina,
e le cose sono create secondo suo ordine. Anche quando ad Adamo,
prima del peccato, vengono affidate le sorti del creato, questi, per
prima cosa, fornisce un nome a tutte le cose. Viene a manifestarsi,
allora, la necessità
della parola quale sconvolgimento storico.
In principio, un principio che è successivo all’esistenza di Dio,
le cose del mondo non esistevano, perché create dal nulla (un nulla
materico, che era, però, sempre esistenza nel pensiero di Dio). Uno
scandalo, dunque, si abbatte nella storia dell’essere: l’eterna
esistenza di Dio compone le cose materialmente e lo fa servendosi del
mezzo della sola parola; di una parola che ordina. Questa
ricostruzione, senza dubbio, non è una ricostruzione veritiera –
chiarita è stata, ormai, la natura eziologica di Genesi
–
eppure è essenziale per lo psicologismo che ha caratterizzato le
comunità che hanno formulato ed abbracciato, dopo la formulazione,
questa tesi. Perché quest’indagine psicologistica non è
ascrivibile alla sola cultura ebraica (la cultura formulatrice), ma
anche alle culture successive che, attraverso il cristianesimo, hanno
abbracciato questo modo eziologico. Se, infatti, non si fosse
assistito ad un’identica concezione della parola ordinatrice, ci
saremmo trovati dinanzi a delle forme di rigetto e di non
trasmissione, in virtù della manifesta incomprensibilità. Sono
frequenti, non a caso, gli studi di storia delle religioni che hanno
dimostrato la riluttanza che comunità strettamente matriarcali hanno
avuto, per esempio, nell’accettare il cristianesimo in virtù del
dogma trinitario: come può Dio, infatti, essere maschio (riducendo
in soldoni), se il maschio è sottomesso alla femmina? Può, allora,
Dio invertire i rapporti di forza?
L’avere,
dunque, come eredità l’idea di una parola procreatrice significa
essere rassicurati dalla psicologistica sulla completa e
corrispondente concezione del logos
(la
parola, che ha già in sé il senso dell’ordine) come scandalo
nella storia; scandalo, però, che ha motivato la persistenza e la
vittoria rispetto all’evoluzione. È un ragionamento un po'
contorto, ma che certifica l’esperienza reale che l’uomo ha fatto
del logos: un’esperienza tanto sconvolgente e siderale, da essere
utilizzata quale espletamento del modo di agire di Dio, dopo che
questi è stato pensato. Dinanzi ad una simile ricostruzione possiamo
chiarire, finalmente, cosa sia la parola.
La
parola è ed incarna lo scandalo temporale dell’evoluzione,
il modo attraverso il quale l’uomo riesce a porsi totalmente in
agonismo col mondo, al punto da frenarne la sua irruente matrice
prevaricante. Attraverso la parola, infatti, l’uomo ha
definitamente adottato il senso completo di un fare comunitario; un
fare comunitario che è altro rispetto al branco. Con la parola nasce
e si concepisce completamente l’esigenza di un’oggettività:
la formulazione di un oggettivo, infatti, non ha come linea guida il
vigore di incarnare l’assoluto, ma ha piuttosto l’esigenza di
richiamare tutte le soggettività affinché si riconoscano in unico
modulo condiviso. È in questi termini che si plasma
irrimediabilmente l’esercizio alla conformità, l’adozione di un
filtro che valga da contenuto univocamente tale per ognuno. Quando
l’uomo si dota della parola – o meglio – evolve in un soggetto
verbale, questi non si sta relazionando ad una medesima percezione
del tempo e del luogo in cui vive, ma sta inesorabilmente
individuando che il sentire empirico personale debba essere
comunicabile all’altro. Il logos
(dunque il senso pieno della parola già ammessa come ordine) è
l’urlo che si tramuta in un’espressione obbligatoriamente
disgiuntiva: o dolore o gioia; nel campo del dolore o della gioia, il
dolore o la gioia di lieve o importante intensità; nel dolore o
nella gioia di specifica intensità, il dolore o la gioia avente
specifiche caratteristiche; fino a giungere alla predicazione di una
specifica esperienza che è comunicata completamente all’altro e
che è dedotta pienamente dall’individuo che riceve la
comunicazione. In tali termini, dunque, il logos non solo riesce ad
avviare un processo comunitario, ma conduce anche ad una
specializzazione dell’individuo. Se questi può, infatti, isolare
comunicativamente una specifica percezione (che sia fisica o
intellettiva) per comunicarla all’altro, è in grado, anche e
soprattutto, di concepirla come univoca e, quindi, di differenziare
adeguatamente le percezioni al punto da introdurre reazioni distinte.
Ecco, allora, che l’uomo reagisce ad uno specifico dolore perché,
prima di comunicarlo in maniera specifica, lo concepisce come
specifico. È proprio in questo salto, del tutto psicologico e
fisiologico, che l’uomo riesce ad ordinare le cose, a creare il
mondo non come forma assolutamente invincibile, ma come realtà che,
seppur mai ampiamente controllabile e determinabile, può essere
affrontata in maniera adeguata, in virtù dell’attitudine al
controllo ed al criticismo, propri della razionalità. È il logos
(già come esercizio cerebrale) che scrive il tempo della
sopravvivenza, rallenta il ciclo azione
– reazione
ed apre la frontiera alla qualificazione della reazione, nella
consapevolezza di un’esistenza non unitaria delle cose. Il logos,
infatti, è anche la scienza e il principio di individuazione del
molteplice.
Analizziamo
la formazione di una parola: AMORE
nasce dalla congiunzione di più lettere. Le lettere, private di
questa congiunzione o in virtù di questa congiunzione, compongono o
non compongono la parola AMORE. Questo vuol dire che l’analisi
unitaria della lettera A
non è sufficiente ad intendere la sua pienezza di risvolti:
intendere la sola A implica intendere una sola unità che è
pluripotente e questa sua pluripotenza è determinata dalle reazioni
che le azioni della lettera A possono generare. A,
congiunta a M
– O- R - E,
genera la parola AMORE;
ma A,
congiunta a M
– A – R – E,
genera la parola AMARE.
Questo sistema compilativo, quindi, mostra l’esigenza di riuscire a
concepirsi unità chiamate a qualificare la propria reazione in virtù
di altre unità e, parallelamente, far sì che questa reazione possa
condurre ad uno specifico risultato. Si instaura, insomma, un regime
induttivo salvavita nel quale l’uomo riesce a rendere particolare
ciascuna esperienza e a derivarne una specifica scala di confronto
che possa rallentarne e qualificarne positivamente l’azione
consequenziale, sempre ponendosi il problema comunitario, problema
che ormai prescinde l’autosufficienza individuale. È una
risultante, dunque, di chiara matrice teoretica: la singola azione è
isolata, posta a contatto con la molteplicità. Quindi, definita una
macro-area di comportamento, sono passate in rassegna altre reazioni
simili (attraverso la memoria); con l’ausilio della prudenza si
comprende come attualizzare le altre esperienze alla luce dei fattori
contingenti (anch’essi analizzati allo stesso modo) che
interagiscono con l’unità; si elabora una soluzione (figlia di
un’indagine pro / contro) e si arriva ad un
risultato univoco e non transitorio.
Per capirci: abbiamo la sola lettera A; questa è posta a contatto
con tutte le altre lettere; la lettera A deve essere aggiunta ad
altre lettere per formare una parola (nel nostro caso la parola
AMORE); si prende coscienza che questa deve essere unita a precise
lettere – capendo che la formazione di tutte le parole richieda che
vi siano specifiche e sole lettere unite, non intercambiabili in
ordine ed identità -; si capisce quali siano le lettere (esse sole)
da dover unire alla lettera A per formare la parola AMORE. Dopo che
per M, O, R, E si è fatta la stessa cosa, si elabora l’ordine con
cui sono disposte A,M,O,R,E e si valutano, allo stesso tempo, altri
ordini plausibili e quale risultato forniscano; si arriva, quindi, ad
unica soluzione mai transitoria – A,M,O,R,E devono essere unite IN
QUESTO ORDINE per
formare la parola AMORE.
Questo
processo, che sembra essere assolutamente lento, avviene in maniera
quasi estemporanea (variazione di pochissimi millisecondi) rispetto
alla sola reazione estemporanea e rappresenta la chiave di volta del
percorso di qualificazione nel regime evolutivo. Il “quasi
estemporaneo”
è lo iato irrimediabile che fa qualificare nell’uomo ogni azione
al punto che questi, in pieno controllo del sé (razionalità),
conduce ogni sua azione in maniera tagliente, compiuta e definitiva.
Ancora una volta, infatti, abbiamo ragionato a posteriori: il logos
(ribadisco: la parola ordinata) è la dimensione fenomenica che fa
figurare un atteggiamento umano posto nel quasi estemporaneo e,
conseguentemente, nella matrice salvifica che regola – prim’ancora
che rallentare – l’istinto, garantendo all’uomo l’attitudine
ad affrontare l’ossessione alla sopravvivenza. E’ la
sopravvivenza l’obiettivo ultimo di ogni azione umana e questa
qualificazione ne è la riprova lampante; ma anche la prova della non
eccezionalità del logos. Il logos risiede nel desiderio di
contenimento che si è imposto l’uomo per sopravvivere; è il
frutto dell’indisponibilità a non sopravvivere più; il logos
è ammissione e cura per la morte.
Anche il logos, infatti, è riconducibile a questa specifica funzione
vitalizzante; anche il logos combatte con tutto se stesso la morte e
la affronta come risultante di un successo sull’evoluzione.
L’atteggiamento costitutivo, che compone irrimediabilmente la vita,
è l’atteggiamento di una valutazione sempre agonistica: il
successo della psicologia che ingiuria quanto più possibile la
morte, altro non è che comun denominatore di ogni atteggiamento
radicato. Dunque, il logos, che è frutto essenziale di questa
psicologia del “quasi estemporaneo”, rappresenta una conquista
irripetibile, una conquista che genera vita, che comincia il modo al
mondo.
In
questo espletamento storico e fisiologico si evince, tuttavia, non
solo un comportamento personale; ma anche il raggiungimento sublime
del concetto e dell’esistenza di una comunità: si instaura,
quindi, una riprova potentissima nella quale il segno della
percezione dell’altro come termine essenziale della sopravvivenza è
un passaggio inderogabile. L’altro, nel “quasi estemporaneo”,
non diviene più un avversario o una figura spodestante, ma è il
segno riconoscibilissimo dell’avvenuta consapevolezza di una
vittoria sulla morte, che può essere scritta solo nella coesistenza
con altri uomini; dunque con altre fisiologie simili. Affinché
questo sia possibile, è necessario, a maggior ragione, riuscire a
costruire un impianto condiviso, un progetto nel quale possano
rispecchiarsi tutti e dal quale possano attingere linfa tutti;
nessuno escluso. Il logos diviene, allora, anche l’immagine
evidente dell’oggettività: oggettivo
non è ciò che è valido nella sua dimensione assoluta
(non potendo l’uomo contenere un assoluto, essendo ontologicamente
particolare), ma
ciò che è valido come punto di incrocio tra tutte le soggettività.
L’oggettivo diviene il campo di formazione e di costruzione della
comunità: individui, dotati di una propria attitudine al vivere,
decidono di dotarsi di un meccanismo comunicativo basato sulla
collettiva e reciproca comprensione. Questa dotazione è del tutto
provvidenziale perché certifica la formazione di un mondo condiviso
e, pari merito, l’esigenza di una filtrazione che possa rendere il
peso emotivo e pulsionale della vita meno forte ed imperante. Il
logos, nella sua stessa formazione, non ha mai la capacità di
contenere l’intero sentito e sperimentato perché, basandosi su una
conciliazione di soggettività, richiederebbe la prevaricazione di
una soggettività sulle altre, quindi si tratterebbe di una
soggettività tirannica e non di una condivisione comunitaria di
soggettività. Per dar spazio, dunque, a questo spazio comune,
ciascun uomo rifiuta di comunicarsi totalmente per rendersi
comprensibile, dunque per schiudersi ad un altro in modo che questi
possa com
– prenderlo,
contenerlo con sé. È il se
stesso
che, in questi termini, viene mitigato, lasciando grande spazio a
quella sfera che è ammissibile nel solo sé:
come ciascun uomo (sé) sa e riesce a vivere la vita secondo
l’insegnamento della comunità? Come ciascun uomo riesce ad essere
univocamente tale e, quindi, vivendo univocamente, riesce ad
esprimersi univocamente? Come può l’uomo pensarsi esattamente in
uno specifico modo tanto da ripresentarsi all’altro attraverso
un’unica macro-sfaccettatura?
Queste
domande ci consentono, ancora una volta, di fiondarci in una
costruzione psicologista estremamente utile: il modello della parola
diviene anche e soprattutto il modello di chi ha pensato la parola. È
nel senso di inversione attribuito al verum
ipsum factum
di Vico o nell’operatività galileiana: analizzando una creatura
dell’uomo, si può comprendere l’uomo stesso. Il logos
diviene, innanzitutto, una straordinaria progressione canonizzante e
conformista, il logos nasce come una struttura di necessità, come un
blocco da applicare alla natura. Semplicemente, l’uomo preverbale è
anzitutto stanco della profonda mutevolezza della natura e,
comprendendo che una simile mutevolezza possa distruggere intere
esistenze, decide di cristallizzarle; dunque di fermarle in momenti
che non siano nulla di diverso da se stessi. Questa frammentazione
rispetto alla totalità della realtà è nullitudine; ma per l’uomo
rappresenta la pienezza con la quale questi può cominciare ad
assumere il sopravvento sulla vita, attraverso una ricerca
statistica. Per intenderci: VITA=
ciò che rende ogni essere tale.
La parola “vita”
è logos nel momento in cui essa ha assunto una ragione di esistenza
collettiva; ossia si è caricata non dell’essere un semplice suono
o una somma di grafemi, ma ha assunto un suo campo di esistenza.
Quando, infatti, tutti hanno fatto esperienza della vita (e questa è
un’esperienza necessaria) ed hanno, nella loro soggettività,
compreso che sia un’esperienza riscontrabile in ciascun essere
umano; l’hanno caricata di un significato (ossia l’hanno
correlata a quella peculiare esperienza) ed hanno, in virtù
dell’educazione, consentito che ognuno, legandosi a quella
esperienza, potesse riconoscere all’ascolto della parola “vita”
un peculiare empirismo che è addossato ad un unico significante,
fino a relazionarsi solo e perennemente a quell’univoco
significato che in esso risiede, escludendo tutti gli altri. Per
essere ancora più chiari: tutti gli uomini sperimentano l’essere
vivi e questa sperimentazione non è persistente perché alla fine si
è destinati a morire / non vivere (in questo vedi il particolare
cristallizzato rispetto alla mutevolezza), nel momento cristallizzato
si riconosce l’esperienza che ciascuna soggettività fa dell’essere
vivi e si raccoglie la molteplicità di esperienze che ciascun uomo
ha della vita; quindi si ricava il tratto comune: tutti gli uomini,
perché sono, vivono; dunque l’uomo che è, vive. Per cui il suo
essere è vita (non ci caliamo ovviamente in tutte le basi teoretiche
del caso). VITA,
allora, è l’essere che rendere l’ente essere; quindi VITA=
ciò che rende ogni essere tale.
Ottenuto questo percorso di formazione, l’uomo procede
all’educazione, quindi al conformarsi: si assicura, in questi
termini, che i suoi contemporanei e le successive generazioni possano
dare alla “vita”
quello specifico significato e che tutti, dinanzi alla “vita”,
possano adottare uno stesso comportamento in quel – già sopra
citato – “quasi
estemporaneo”.
Se un uomo lotta con un altro uomo per una preda, e in questa lotta
un uomo colpisce l’altro, diverso sarà il comportamento suo e
della sua comunità se l’altro è vivo o meno. Se l’altro è
vivo, il nostro uomo saprà che dovrà continuare a lottare perché
questo è sempre tale (quindi vuole sempre la stessa cosa); se
l’altro è morto / non vivo, l’uomo smetterà di lottare perché
avrà ottenuto la preda. È questa deduzione a garantire il pieno
significato che viene affibbiato alla parola “Vita”:
l’uomo non vivo non è più tale e non può fare più nulla; è
inerme. Tutto diviene univoco: l’uomo che vive, può fare ed è
uomo; l’uomo non vivo, non può fare più nulla e non è più uomo.
Quando la comunità vedrà l’uomo non vivo, sperimenterà che
questi non è più uomo e non può fare più nulla; per cui, come
l’uomo che ha ucciso, capirà che il vivere implica il “semplice”
essere dell’uomo. Così cristallizzerà questa esperienza ed
attribuirà ai due stadi una separazione: vita
è vita, morte è morte.
Alla parola succede il logos:
vita avrà un suo significato (una sua esperienza correlata e,
quindi, un suo risvolto) che sarà disponibile per tutti perché da
tutti sperimentato. Con il logos avviene la conformità: al sentire
la parola “vita”
si avrà una reazione, al sentire la parola “morte”
si avrà un’altra reazione perché diverse saranno le esperienze
tramandate. È nella tradizione (trasmissione), che è valida per
tutti, che si genera la salvezza: la vita è vita, dunque è ciò che
rende gli uomini tali; quindi va inseguita. La morte è non vita,
quindi ciò che non rende più gli uomini tali, per cui va sfuggita.
Basterà pronunciare la sola parola “morte”
e tutti arretreranno, basterà pronunciare la sola parola “vita”
e tutti verranno incontro, in virtù del “quasi estemporaneo” a
cui sono stati educati.
3.
Parola e Parola poetica
In
questa costruzione è lampante ed evidente la mancanza di ogni base
fenomenologica di natura estetica. Dirò anche di più:
indipendentemente da quale sia il significato che forniamo
all’estetica, la parola comunque non è ad essa correlata. Questo
vuol dire che sia nel significato classico e più puro, sia nel
significato comune e successivo di estetica non esiste spazio alcuno
per la parola.
Se
per estetica intendiamo la sua autentica connotazione originaria
(αἴσϑησις: sensibilità o conoscenza sensibile), il campo di
azione della parola è ad esso estraneo almeno per due motivi.
Innanzitutto perché, come forma gnoseologica, il logos
(dunque la parola con il suo corrispettivo termine significante) è
formulazione di una conoscenza principalmente noetica
– dunque astrattiva – e per questo posta in una dimensione
conoscitiva che travalica la sola sensibilità, per addensarsi
nell’intorno di una definizione ragionata, razionalistica ed
ideale. Anzi, si può dire che sia lo stesso logos la materia
plasmante del ragionamento sul mondo e sulla conoscenza empirica;
così com’è il logos
(diamo
particolare attenzione alla dimensione concettuale)
a rappresentare il distinguo attraverso cui la conoscenza sensibile
si distingue da quella ideale (che è processo alla sensibilità).
Per cui pare ovvio che il logos non possa essere posto in una sfera
gnoseologica sensibile – dunque estetica – essendo garanzia ed
unità costitutiva di una forma conoscitiva distinta.
A
questa distinzione profondamente epistemologica, che mira a collocare
la parola (da
questo momento in poi “parola” e “logos” coincidono perché
non facciamo più riferimento alla conformazione scheletrica della
parola, ma alla sua dimensione strettamente concettuale)
all’interno di una specifica sfera gnoseologica, va aggiunta, a
maggior ragione, una sfera squisitamente teoretica, che mira ad
analizzare il parto concettuale che è dietro ogni parola. La parola,
infatti, rappresenta anzitutto la fuga dall’abisso, ossia da ciò
che con più volti aguzzi risiede al di sotto di ciò che è
linearmente ordinato sulla superficie. Questa costruzione è priva di
ogni matrice poetante, ma certifica una sola utilità metaforica tesa
sempre, però, a non evirarne i significati. L’abisso può essere
letto quale universo che è nella semplicità delle cose; quindi, in
paradosso rispetto a ciò che si possa immaginare, l’abisso altro
non è che la cosa semplicemente esistente con la sua conformazione e
con la sua capacità relazionante rispetto ad individuo che conosce.
Questa conoscenza, che a lungo tempo ha rappresentato la forma più
brutale di conoscenza, altro non è che la relazione empirica nella
sua processualità: il
senso / il sensibile.
Quella sensibilità (che è tanto abusata da tanti poeti) è
semplicemente il modo di stare al mondo dell’uomo.
L’uomo non può essere biologicamente e fisiologicamente privato
della sua capacità di relazionarsi con tutto ciò che lo circonda e
di disporre da questo contatto una percezione. La percezione –
forma autentica di un fenomeno estetico – va a comporre quel grande
calderone, o meglio, quella rilevantissima sommatoria che è il
sensibile,
che è, a sua volta, mutuato in quanto tale dalla sensibilità;
ossia dall’estetica.
In questi termini, dunque, l’uomo è dotato anzitutto di
sensibilità e tale sensibilità (come chiarisce magistralmente Kant
nella Critica
alla ragion pura)
è strettamente correlata alla natura umana, rappresentando una
forma, dunque un modo conoscitivo e fisiologico con il quale l’uomo
si relaziona alla realtà. Questa visione, che pare essere poco
correlata al discorso sulla parola, è imprescindibile per riuscire a
collocarla in un campo di esistenza specifico, che travalichi
pienamente l’orbita estetica. La sensibilità, dunque, altro non è
che la conoscenza intuita - quindi derivata nella forma più semplice
esistente - dalla relazione con l’oggetto con cui si relaziona il
soggetto che conosce; ma rappresenta, allo stesso tempo, l’insieme
dei meccanismi fisiologici e biologici che determinano la conoscenza
(i
sensi).
A questo punto, ovviamente, si prosegue a regime: la sensibilità
(estetica) è sinonimo della conoscenza sensibile, il sensibile è il
singolo fenomeno empirico (nato dall’azione complessiva della
sensibilità), la percezione è ciò che attiva la sensibilità e
quindi è elemento inducente il sensibile. Per intenderci: un uomo
tocca un piatto caldo (percepisce il calore del piatto), il solo
relazionarsi attiva la sensibilità in virtù dell’azione dei
termocettori a contatto con il piatto, il calore percepito è il
sensibile, ossia il singolo fenomeno empirico (avvenuto in quel
preciso spazio ed in quel preciso tempo); il caldo (che magari genera
un distacco istintivo) è il risultato conoscitivo di questo atto,
dunque è sensibilità. Perché
dilungarsi in un esempio che pare essere tanto distante dal senso e
dal ruolo della parola?
La
risposta è già fornita nella domanda: questo esempio semplicissimo
dimostra in maniera irreversibile che la parola non è in alcun modo
un fenomeno estetico perché il circuito estetico si compie
completamente senza fare alcun ricorso ad essa. È la lontananza così
lampante a certificare questo fenomeno di estraneità della parola e
a far affermare, con ancora maggiore forza, che la parola non è e
non sarà mai un fenomeno estetico. Questa conclusione vale anche per
la stessa parola poetica che è fenomeno estetico, come vedremo, ma
di estetica diversa; potremmo dire di estetica non elementare. In
questa importante conclusione sta anche la riflessione sulla parola
quale unità concettuale (rendendola così sinonimo del logos),
perché è proprio nell’esercizio conoscitivo distinto dalla
matrice estetica che risiede il ruolo fondamentale ed innovatore
della parola. La parola non solo è evidenza del “quasi
estemporaneo” (come detto precedentemente), non solo è frutto di
un’oggettività reale (quindi non assoluta, ma squisitamente
canonica – come già chiarito in precedenza); ma è soprattutto ed
innanzitutto il modo con cui l’uomo riesce ad ardere in luce
l’abisso, ad incanalare nella frontiera ideale e concettuale tutte
le cose conosciute attraverso la sensibilità. La parola altro non è
che espressione di questo processo: la parola ha senso se l’uomo è
riuscito ad idealizzare ciò che ha percepito, dunque se è riuscito
a ritrarlo e a definirlo in un ordine specifico, talmente specifico
da essere compreso da tutti gli altri. È questo processo, quasi a
chiudere il cerchio aperto nei precedenti interventi, che distingue
la phonè
dal
logos;
è questa attitudine, questa modalità sul mondo che genera relazioni
strettamente mentali (reali, ma non esterne) con le quali l’uomo
affronta ogni giorno la vita.
In
questi termini, allora, la parola assume un’esistenza ed una
rilevanza a posteriori rispetto all’esperienza e, quindi, alla
sensibilità (estetica) che consente di determinarla. Questo implica
anche che la parola non rappresenti in alcun modo un fenomeno pieno
ed esaustivo; ossia che, in se stessa, la parola non è in grado di
trasmettere completamente la pienezza di vissuto dell’esperienza
fatta, ma può avvicinarsi solo quanto più possibile al modo
empirico, senza riuscire mai ad interromperlo. In tali condizioni,
dunque, l’uomo fa piena esperienza di una sensazione, ma la parola
non è in grado di farne altrettanto perché appartiene ad un
registro generativo che è totalmente distinto. Essa agisce, infatti,
in un secondo momento ed agisce come metabolismo intellettivo di ciò
che è stato vissuto o sperimentato, al punto che, seppur la storia
ci abbia insegnato l’impossibilità di disgiungere il vissuto dalla
parola, il vissuto e la parola posseggono due fisiologie distinte, ma
mai disunite. È la capacità di contenere l’esperienza sensoriale
ed estetica nella mente, il suo processo razionale, a garantire
l’adesione entro una gamma conforme, che è l’educazione alla
parola condotta fin da piccoli su di noi; a far esprimere in modo
filtrato e stereotipato la soggettività illogica vissuta da ognuno.
Questo suo essere illogico (non
vedere mai come non coordinato, perché anche la sensibilità dispone
di un suo ordine specifico)
è la chiave da cui si innesta finalmente l’atteggiamento di fuga
della parola, che rende la parola l’arte radente l’oscuro, il non
abisso.
Può
essere illuminato l’interno di una noce avvolto nel suo solo
involucro? Può essere illuminato se si rompe quell’involucro e lo
si apre al mondo, facendolo divenire parte del mondo altro. Questa
conformazione della noce rende, tuttavia, la medesima potenza e la
medesima identità che era della noce col proprio involucro? No. Sarà
sempre perennemente manchevole e questo suo scarto, letto nel
registro fisiologico della parola, rappresenta la distanza dalla
pienezza dello sperimentato e l’infinito “tendere
a”
della parola. Il mondo della parola, dunque, non può sollecitare,
non può ammettere mai perennemente ciò che è vissuto al di fuori
della parola, perché è altro vivere, è altro agire, è altro
essere. Di questo altro vivere ne ha giovato non solo l’evoluzione
verso il “quasi estemporaneo”, ma ne ha giovato soprattutto la
formazione di una società, che è stata quanto mai scelta azzeccata
per la sopravvivenza dell’essere umano.
Ritorniamo,
qui, ad un discorso che si è sempre mosso nella trattazione in
maniera quasi ombrosa, incognita e latente. La parola ha fondato la
società e lo ha fatto per la consapevolezza dell’utile esistenza
con l’altro. Il logos
(come
già chiarito prima, ora diviene sinonimo della parola significante)
non ha chiarificato l’esistenza dell’altro, che è già
chiarificata dalla semplice estetica (la quale ne riconosce la
semplice esistenza), ma ha aperto il grande varco all’esistenza con
l’altro; cioè ha concepito l’utile di coesistere e di muoversi
con altri individui non solo come un branco, ma, anche e soprattutto,
come individui che possono, seppur nei margini onnipresenti della
parola rispetto al vissuto, perforare la soggettività e
schematizzarla. La parola è il portato in luce attraverso una
regolamentazione condivisa e tramite una scala che si costruisce
nell’insieme, non nell’imposizione singolare. Per intenderci:
l’esperienza che si fa del dolore – è scelto il dolore in
termini strettamente fisiologici - è estremamente soggettiva e,
come tale, nasce da intensità distinte nei nocicettori (dunque, da
percezioni distinte). Questo fattore è un fattore problematico
perché implica un processo inevitabile di solitudine: come possono
due individui capire il dolore l’uno dell’altro, dunque adottare
delle risposte salvifiche in reazione, se soggettiva (quindi diversa)
è l’esperienza che ambo ne fanno? Può esservi un punto di
incontro, se essi si esprimono attraverso una scala condivisa, quindi
da ambo sperimentata: questa scala è, appunto, la parola. I due
uomini, dunque, non si serviranno più di una ricerca prettamente e
strettamente soggettiva, ma arriveranno ad una fonte di espressione
comune che risiede nella parola
/ termine.
Non è questo un caso: la parola è un termine, ossia una limitazione
che definisce il necessario, che dipana la luce ed inscrive in unico
modo possibile ciò che è vissuto. La necessità (leggi come ciò
che è e non può non essere)
diviene la frontiera della coesistenza: gli uomini possono vivere tra
loro solo se riconoscono in una forma chiara e definita, una forma
che sia quanto più collimante possibile al reale. Questo collimare è
necessario non per convenzioni etiche e morali, quanto, piuttosto,
per risposte pratiche, per attendersi che qualcuno agisca
coerentemente rispetto ad una propria esigenza. Riflettiamo
attentamente: se ho dolore al ginocchio e questo dolore è
invalidante e non ho modo di far capire l’intensità e la gravità
del mio dolore ad un altro individuo, sarò destinato a soffrire o,
chissà, a morire. Se, invece, ho modo, disponendo della parola, di
far comprendere all’altro il mio dolore perché lo qualifico in uno
specifico modo, l’altro può reagire in maniera adeguata (diamo per
ovvio – precisiamo – che l’uomo si sia già costituito
all’interno di gruppi solidali, dunque umani). In
che modo si può attuare questa qualificazione univoca del dolore o
di ogni altra sensazione?
Attraverso
il campo semantico e lessicale, cioè attraverso il congiungere ad
ogni parola uno specifico significato, quindi uno specifico campo di
esistenza che valga unitariamente per tutti. È il principio per cui
A significhi ABCD per tutti e che A significhi solo esattamente ABCD
in quest’ordine ed in quest’identità. La base del principio
aristotelico (e non solo) di non contraddizione dimostra la sua
imprescindibilità logica proprio per questo motivo: la parola ha
esigenza di esistere in un solo specifico modo, ammettente sia ratio
materialis
univoca sia significato univoco, al fine di garantire la sua stessa
ragione d’essere. Una parola, infatti, che non sa comunicarsi,
dunque che non è pienamente compresa dall’altro, che senso avrà
mai? Essa contravviene, infatti, al suo obiettivo di formulazione
primario: l’esistenza non per uno solo, ma per tutti. Qual è,
appunto, la necessità di aderire ad un codice, se ci si comunica a
se stessi? È nella visione dell’insieme, nella consapevolezza
irreversibile di una comunità umana (distinta – lo ribadisco –
dal branco) come fonte per riuscire a sopravvivere che l’uomo ha
inserito la parola quale completo adempimento di questo progetto.
Ancora una volta si rilegge e rimodula, non casualmente, Aristotele e
la sua congrua differenza comunicativa (ormai storicizzata come
“esistenziale”) tra l’uomo e gli altri essere viventi: l’uomo
raggiunge la felicità - dunque la suprema tra tutte le virtù,
perché autosufficiente – poiché è in grado di aprirsi in una
molteplicità definita che è compresa da tutti; ossia,
pur nella sussistenza di ogni parola di uno ed un solo significato,
la dilatazione semantica è direttamente proporzionale al modo con
cui l’uomo vuole che l’altro uomo coesista della medesima
esperienza e sviluppi una reazione agonistica (mai contraria) per
giungere ad un effetto.
Da qui, dunque, avviene una crescita del vocabolario e
dell’indicazione concettuale: tanto più si sente l’esigenza di
condividere, tanto più si amalgama in un metro comune, che è quello
del linguaggio, il proprio vissuto. Ecco perché la parola è prova
lampante del grado di civiltà (non solo dell’esistenza di una
civiltà): maggiore è la limitazione dell’abisso non comunicato,
perché soggettivo, maggiore sarà la percezione di una civiltà che
vuole abbattere le frontiere dell’esperienza personale per
ratificarsi in uno spazio comune di comprensione. Da come si evince,
allora, la parola è tutt’altro che fenomeno estetico anche
nell’accezione moderna; ossia è tutt’altro che formulazione che
possa ricercare il
bello.
Rappresenta, piuttosto, una forma inevitabile di fisiologia storica,
prima conquistata e poi indotta attraverso l’educazione, che
necessita di essere intesa nella sua semplicità evoluzionistica,
aldilà di ogni stilema artistico. Questo dettaglio, quindi,
distrugge anche l’eccezionalità della parola, eccezionalità
tutt’altro che giustificata perché la parola altro non è che
sbocco individuale e comunitario.
L’eccezionalità
si pone, senza dubbio, nella parola poetica. Questa, infatti, è
fenomeno estetico nella misura in cui essa si attua come sviluppo di
una techné.
È,
infatti, impensabile per qualsiasi forma di techné
(l’utilizzo
della parola greca non è per atteggiamento professorale, ma per
muovermi nel più generale possibile) non ammettere una ricerca del
“bello”;
anzi la techné
evolve
perennemente nel definire nuovi canoni e nuove esperienze di bello. A
tal proposito, ricorro ancora alla filosofia classica. Stavolta però
ci muoviamo in quella platonica, evidenziando come la conoscenza (in
una conoscenza noetica
– leggi come “ideale” – e non estetica)
sia definibile per Platone all’interno di una domanda sconvolgente:
Cos’è
il “bello” e come questo si distingue dalla “cosa bella”?
Il
testo originale platonico è ancor più perentorio nella sua resa
terminologico e, traducendo alla lettera, pone l’accento su un
interrogativo ancora più intenso: cos’è il bello
in se stesso
e cosa sono invece le cose
belle?
L’intento di Platone non è quello di fornire una definizione
estetica (credendo che l’estetica sia fenomeno sensibile e non
ideale), ma, piuttosto, quello di mostrare univocamente la forma più
alta e massima di conoscenza: la conoscenza della cosa in se stessa
e, dunque, dell’idea della cosa. Ci si rende conto, in questi
termini, che fornire una definizione del bello e, dunque, del
risultato ultimo di ogni techné
è
operazione estremamente difficile e fuorviante, soprattutto se
Platone la colloca a principio del suo intero schema teoretico e
gnoseologico, che farà la sua fortuna nella filosofia di ogni tempo.
È sorprendente -almeno, per me, non molto sorprendente - che a
fornire il ruolo ed il significato della parola nell’arte poetica
non sia un poeta, ma Platone. È chiaro, anzitutto, che lo stesso
incedere stilistico del filosofo ateniese sia uno dei più densi che
la storia della letteratura greca ci abbia consegnato: la sua tecnica
dialogica rappresenta la migliore traduzione in un registro ed in un
ritmo scritto del modo e ritmo discorsivo e di dissensio.
Così com’è chiaro che Platone raccolga tutti i frutti letterari e
filosofici fino ad allora raggiunti: dalla sofistica alla
tragediografia, dalla misura delle forme d’arte all’eleganza
delle composizioni corali e musicali. Tuttavia è poco chiaro perché
nel suo pragmatismo esemplare, Platone abbia scelto come domanda di
riferimento il cos’è
il bello in se stesso e
non, per esempio, cos’è
l’amore in se stesso
o cos’è
la felicità in se stessa.
In questa scelta si innesta la discussione poetica.
Per
il filosofo ateniese, infatti, non esiste conoscenza più grande se
non la conoscenza di se stessi (dunque la conoscenza che l’io fa di
se stesso) e questa, ovviamente, risiede in una sfera anteriore e
superiore a quella umana: l’iperuranio, dove sono le idee. Se
riflettiamo un attimo, la ricostruzione compiuta da Platone è una
riflessione più che giusta (non si rida dinanzi a questa
semplificazione): la conoscenza si compone di idee; ossia io conosco
la “rosa”
fin quando ho l’idea della “rosa”,
ossia la parola “rosa” corrisponde ad uno specifico concetto che
è tale e non può mutare. Dunque, se la forma di conoscenza più
sublime è l’io che conosce se stesso, la conoscenza (io) è
formata di idee e le idee rappresentano non altro che la forma
massima di conoscenza perché la conoscenza, conoscendo le idee,
conosce ciò che la forma; dunque conosce se stessa. Ora è chiaro
che la resa sostanziale che ne fa Platone non è corretta (questo non
è argomento di trattazione), ma è interessante marcare questo se
stessi,
marcare questa decifrazione del se stessi entro il “bello”.
La parola poetica più sublime (dunque più bella) è la parola che
sa conoscere se stessi; quella parola che sa invertire la rotta
dell’apertura all’altro per esistere in se stessa. In questo se
stessa,
noi non solo intendiamo la parola poetica che conosce essa stessa e,
dunque, la teoretica della parola poetica; ma intendiamo, anche e
soprattutto, la parola che sa essere ricollegata ad un’intimità
singolare che la scrive e la pronuncia. In questo ambito, allora,
come si costruisce il senso del “bello”?
Si instaura nel significato classico che si attribuisce al bello, o
meglio alla sua identificazione universale: per la cultura classica,
infatti, l’esemplificazione del bello risiede nella natura, che è
compimento sopraffino di ordine ed armonia, ma anche immutabilità
del suo essere prodotto univoco nell’atto (è esistente ciò che
incarna la potenza di ogni cosa nel suo solo e definitivo atto). In
questi termini il “bello”
altro non è che il se stesso, il naturale, la conformazione semplice
e necessaria di ogni cosa; il to
kalòn (il
bello in se stesso) è ciò che riesce ad avvicinarsi quanto più
possibile al modo esistenziale di ogni cosa e a descriverne
perfettamente la natura senza alterazioni o variazioni di sorta. È
qui che si innesta il coraggio della bellezza e, parallelamente,
dell’esistenza della conoscenza; così come qui si innesta il
coraggio e la bellezza della parola poetica autentica, della parola
poetica che non sa mai circoscrivere, ma lascia perennemente un
percorso di fuga.
La
parola poetica, infatti, è necessità, privata però del suo campo
di uniformità;
anzi, è la stessa necessità che la dispone oltre il confine
dell’oggettivo, oltre quel vasto campo che è l’esperienza
condivisa. In questa sua irreversibile opera solitaria, la parola
poetica risponde al naturale; al punto che più la parola poetica è
naturale tanto più essa sa essere bella e tanto più sa essere
ideale, quindi, in termini platonici, volta ad una costruzione di una
conoscenza pura ed immanente, ad una conoscenza vera. La parola
poetica, (in climax) la poesia, non si compone di deliri, ma accetta
di scavare il non usuale, il non lucente, la forza vorace
dell’abisso, per martellarla, scomporla, fletterla fino ad offrirne
un’analitica che, seppur in una matrice oggettiva (quale la parola
stessa è), riesce a rimarcare sempre uno stadio mai totalmente
compreso né al poeta, né al lettore. Si istituisce, insomma, una
comprensione per gradi, malgrado questa comprensione sia
discensionale nel rapporto tra poeta e lettore; mai ascensionale. È
il poeta stesso, purtroppo, che dispone di una fatica enorme per
raggiungere il risultato poetico: si muove, per intenderci, entro
grandi stadi di refrattarietà per consegnarci lo stadio più breve –
quello scritto – che, paradossalmente, è la fuga dal generale, dal
più grande. Ogni poesia è semplicemente, anche dannatamente, lo
spettro più breve di un processo di parto e di abbandono. È il
parto perché implica una sedimentazione profondissima entro quel
grande confine che è la singola esistenza al mondo. È l’abbandono
perché, posta per iscritto la poesia, genera una forma continua e
vigorosa di allontanamento rispetto al meccanismo pulsionale che l’ha
generata, in ottemperanza al modo esistenziale e gnoseologico proprio
della parola. È stato già precisato, non a caso, in parti
antecedenti della trattazione, che la parola è rifiuto
dell’espressione completa della soggettività non perché non
esista parola soggettiva (è questa la parola poetica), ma
perché non è in grado di trasmettere l’universo visto
dall’occhio, toccato dalla carne, sancito dal pensiero di uno solo.
La parola poetica, dunque, diviene pieno percorso ideale, in virtù
anche della sua capacità di irrompere negli schematismi già
preselezionati, capace di giungere al più grande risultato che lo
stesso Platone prevede per il riconoscimento delle cose del mondo. La
parola poetica continua a ripetere il Gnothi
s’autòn socratico
per far dire al poeta di essere soli al mondo, soli nella sua
conoscenza, soli nella sua visione e nel suo vissuto. Malgrado,
infatti, la forza irrefrenabile e salvifica che viene dall’esistere
con l’altro, malgrado la forza che giunge dalla parola poetica già
detta e trasmessa, la vera poesia (quindi non il semplice esercizio
artistico o emulativo-tecnico) sa solo protrarsi in strade che altri
non hanno mai percorso perché è disarticolazione e disancorarsi. È
in questi termini che si compone la forza estetica, che si pone quale
ricerca del bello, ma anche la forza estetica che è sensibilità al
mondo: l’uomo che si serve della parola poetica sviluppa un
percorso ermeneutico capace di costruire una relazione monolaterale
col mondo; una relazione, per certi versi, primitiva e dalla portata
esplosiva; ma che significa, allo stesso modo, attuare una
misurazione non ovvia del mondo. In questa misurazione si inscrive la
vera traduzione poetica, la sua irrefrenabile riscossa, la sua
fisiologia distinta: la parola poetica sa costruire un posto solo
proprio nel mondo, sa innalzare il baricentro oltre il limite del
visto da tutti per divenire anakakleusi.
È l’uomo dei primordi (preverbale), pienamente avvolto nel ritmo
complessivo di un vivere nella reclusione di un essere perennemente
inquadrato in se stesso, che fa esperienza del coesistere e del
vivere collettivo, che si dota di un processo di apertura totale
entro una luce sempre velata e mai piena (perché – lo ribadiamo –
la parola non restituisce mai pienamente la soggettività) e che,
poi, impiega questa sua enorme scoperta per inoltrarsi nella materia
del velo fino a trasmetterlo, con una forza lancinante ed oltre la
logica oggettiva, a se stesso, anzitutto, ed a quanti sono chiamati a
godere di quei frutti tracciati dal verso. Si compone, allora, lo
straordinario portento del ritorno maturo alle origini: l’uomo
civile che esiste e si plasma sull’onestà, seppur incontrollata,
primitiva e che sa vivere nella dirompenza del pieno se
stesso.
Questa costruzione, che è il ricongiungimento dell’inizio e della
fine, genera la capacità di vedere l’abisso, di discuterlo oltre
ed entro la parola; ma il tutto attraverso una non eccezionalità,
attraverso l’oscuro (il non detto mai prima, il non pronunciato mai
a voce alta) che non è santificazione, quanto il naturale percorso
fisiologico di essere umani che hanno recuperato la loro identità
primaria, conducendola però a maturazione.
In
questo esercizio si compone l’aut
aut
che ha aperto la nostra discussione: sono oscuro per scelta, perché
scelgo di non guardare autenticamente me stesso e proclamo un falso
sfuggire (che altro non è che il mis-conoscere se stessi), o sono
oscuro per fisiologia, assumendomi il rischio di catturare
l’incomprensione parziale di molti per poter essere fedele a quella
soggettività che è mia? E
se scelgo questa seconda strada, la
mia oscurità è ripiena di un percorso analitico (dunque di un
percorso ideale) autentico oppure è oscurità ingiustificata e non
materica?
Questi sono interrogativi con i quali la poesia contemporanea urge
che si confronti. Questi sono interrogativi che, soprattutto, possono
essere posti solo dopo che la poesia contemporanea ha maturato la sua
ricerca sul senso della parola, solo dopo che è riuscita a scomporsi
entro una ricerca conducente all’unità primigenia. Ma, a dire il
vero, per i discorsi sulla poesia contemporanea c’è ancora tanto e
tanto tempo. Abbiamo parlato di genealogie verbali, che implicano la
distruzione di luoghi comuni: annientiamo una cosa per volta!
Parla
anche tu,
parla
per ultimo,
di’
la tua.
Parla
–
ma
non separare il no dal sì.
Da’
al tuo detto anche il senso:
dagli
ombra.
(Paul
Celan)
Giansalvo
Pio Fortunato
BIOBIBLIOGRAFIA
Giansalvo Pio Fortunato è nato a Santa Maria Capua Vetere, il 20/03/2002. Attualmente risiede a San Marcellino (Ce) e frequenta la Facoltà di Filosofia presso l’Università Federico II (Napoli). Nel 2022, la pubblicazione della sua prima raccolta edita “Ulivi nascenti” (Albatros, il Filo) e, nel 2023, la sua seconda raccolta edita “Civiltà di Sodoma” (RP Libri). Collabora col mensile culturale “Agorà Giovani” (Ed. Scuderi), con la rivista internazionale di poesia “FormaFluens – International Literature Magazine” e con la rivista nazionale di poesia “Metaphorica”. Vincitore già di alcuni riconoscimenti letterari (tra cui il premio internazionale “Scriptura”, ed il secondo posto al Premio Città di Caserta), suoi versi sono stati tradotti in spagnolo dal Centro Cultural Tina Modotti, in albanese, in arabo per la rivista internazionale “FormaFluens”. Collabora con Alessandria Today.
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