(Redazione) - Fatuari - 01 - Il nome è la fine; il nome è il principio.
L’Enūma
eliš racconta che,
successivamente alla creazione del mondo, Marduk dovette placare
l’ira di Tiāmat, intenzionata a vendicare la morte del dio
primigenio suo compagno Apsū, l’abisso, il custode dei segreti.
L’avvicendamento tra le due forze vide la necessità che entrambe
si armassero di tutto punto per sostenere il tremendum
dello scontro, la prima in particolare: “Tra le sua labbra egli
teneva stretto un incantesimo, / mentre tra le sue mani stringeva una
pianta per contrastare il veleno di Tiāmat”1.
La
pianta
– un talismano; e ancor di più, la parola stretta in bocca, quella
che dovrà decretare il potere sull’altro, soggiogandone le
volontà. Una tenzone verbosa è quanto i due ancestrali mettono in
atto, da subito, per primeggiare l’uno sull’altro: “Tiāmat
lancia il suo incantesimo, senza neanche voltare la testa / tra le
sue labbra stringe falsità e menzogna”2.
Solo successivamente si verifica il ferace corpo a corpo materico,
che vedrà la cruenta dipartita del drago (sempre
un drago deve perire).
L’origine
divina della parola, ci ricorda Anita Seppilli in quell’eldorado di
Poesia e magia3,
è scandita dal mito per identificare – in maniera esatta,
beninteso – la natura delle forze superiori e per agire su di esse,
come la pratica dei magi che anelano alla comunione con gli elementi,
nominandoli. Non stupiamoci, pertanto, se un incantesimo ove il nome
della persona da cui si voglia ottenere un effetto detrimentoso o
meno sarà invalidato quando mancante del lessema esatto che connoti
il destinatario, e che si trovi possibilmente in posizione rematica,
a qualificarsi come portatore del maggior dinamismo comunicazionale
possibile. Fin dall’età antica inoltre era uso appendere tavolette
incise al collo di una persona malata per stornare da colei i nefasti
effetti della febbre o della lebbra, o per impetrare sordidi vincoli
erotici nei confronti di amanti riluttanti o che avessero compiuto
torti imperdonabili. Le tavolette, per garantire efficacia, avrebbero
dovuto recare parole, formule, nominazioni marcate.
Agrippa
prescrive che oggetti o materiali di siffatta natura (non si entra
qui nella questione di cosa
fabbricare e come,
non è questo di certo un grimorio – l’altissimo me ne scampi! –
basterà pertanto a un lettore curioso sfogliare opere a piacimento
tratte dalla ciclopica mole di pubblicazioni pervenuteci per
tradizione orientale, ellenistica, europea): bisogna però non
dimenticarsi di bagnare questi mediatori di forze favorevoli4
(astrali in primo luogo; ovvero ctonie laddove il rituale richieda
una più acuta forza attrattiva sulla natura ascosa del proprio io
iniziatico) e spargerne invocazioni e versi. Versi? Senza dubbio,
citando Tibullo su tutti: carmen
significa canto tanto quanto formula magica
– Num te carminibus, num te pallentibus herbis / devovit tacito
tempore noctis anus? (“Forse
con incantesimi o con succhi / malèfici una vecchia ti stregò /
nelle silenziose ore notturne?”, trad. Guido Vitali5).
Tornando
agli usi del vicino oriente antico, ci sono state tramandate
tavolette di origine sumera e amorrea recanti formule di maledizione
nei confronti di soggetti sconosciuti, mosse per motivi di natura di
fatto politica e religiosa6.
Nuovamente, è la parola pronunciata e incisa sul materiale durevole
ad accendersi nel valore magico della comunione con forze non sempre
visibili, spesso incontrollabili e fugaci, dal momento che le
diciture più comuni scagliano possenti malefici di questo tenore:
Chi
rimuoverà il nome di Narām-Sîn, il potente, il re della quattro
regioni […] lo maledicano con una maledizione terribile [...]
Ninhurshag e Nintu non gli concedano un figlio maschio e un nome (III
millennio a. C.)7.
Il
nome è qui oggetto della formula, scrizione sull’argilla o sul
bronzo: chi non avrà téma di sostituirlo o rimuoverlo sarà punito
senza riserve, lui e la stirpe sua. Un’altra qui di seguito,
appartenente alla medesima epoca, pur di un secolo circa più
recente: “chi cancellerà il nome scritto e vi scriverà il
proprio, Utu, [re] di Sippar, distrugga la sua semenza”8.
E ancora, in lingua accadica, dal I millennio: “Chi rimuoverà la
mia iscrizione e il mio nome, i Sibitti, gli dèi di Amurru, lo
colpiscano con il morso di un serpente”9.
Dalla lettura delle due ultime testimonianze riportate mi pare emerga
un dettaglio assai rimarchevole: si menziona la parola
scritta,
come se il sigillo del segno fosse il decreto che salda il nome alla
sua origine trascendente.
Figura 1 (vedi sotto i riferimenti fotografici) |
Voglio
portare un caso geograficamente vicino al precedente, pur già
proiettato in una dimensione religiosa altra, citando un passo del
salmista:
inclinate
aurem vestram in verba oris mei.
Aperiam
in parabolis os meum;
loquar
propositiones ab initio;
quanta
audivimus et cognovimus ea
et
patre nostris narraverunt nobis.
Non
sunt occultata a filiis eorum in generatione altera10.
Intimando
questo al popolo, il detto stesso sgorga i misteri ab
initio. Percepisco
un’intenzione non solo fondativa, bensì ancestrale, nella parola
concessa dal nume, come se non ci sia modo altro di accedere a quello
stato per forza rituale, senza il quale non esistono né conclusioni
né iniziazioni.
Al
contrario, oggi permettiamo alla parola di sfarsi in polvere
circonfusa, attendendo che la lingua possa raggrumare tra le spire di
una immanenza orizzontale, senza averne compassione o non sentendo il
peso che essa esercita sul vissuto intimo ed estrinseco dell’essere
umano proteso all’alterità. Cosa, mi domando, può reclamarsi
poesia, qualora non si pasca in seno a una volontà che muove financo
i popoli primitivi?
Le
popolazioni Fataleka, autoctone delle isole Salomone, celebrano riti
mortuari clanici scanditi da una sequenza molto rigida e precisa di
avvenimenti11.
La nominazione costituisce l’atto mnemonico più importante di
tutta la liturgia funebre; nel corso della terza sequenza rituale,
poi, il nome “reale” del defunto pare interdetto per essere
sostituito da uno pseudonimo che “determina un grado di
proscrizione tra i discendenti vivi”12.
Il sacrificatore, nondimeno, è tenuto a conoscere una sequela di
nomi veri e pronunciarli: questo assicura la natura esoterica a
livello gnoseologico, come se tracciasse un confine di discernimento
fra il sapere e il non-sapere.
Solamente
occultando il nome, pertanto, i Fataleka concepiscono il decesso come
evento compiuto e permettono alla morte il destinato cangiamento in
principio.
Racconto
inoltre un mito boscimano riportato da Seppilli nel volume di cui
poc’anzi ho riferito. La Luna affida alla Lepre il compito di
trasmettere agli uomini un importante messaggio: “Come io morendo
resuscito, così resusciterete voi dopo la morte”. Le Lepre
tuttavia disattende il dovere, e, diméntica del fatale messaggio,
riferisce agli uomini un detto inappropriato: “Quando morirete,
sarete morti per sempre”. E quello fu il destino effettivo che
spettò loro13.
Le genti tribali – anche quelle che praticano cannibalismo –
sono, in questa consapevolezza, più accorte di quanto siamo noi
transumani: la parola ha potere di modellare e stabilire, di
ricostruire la glossa sacra, cifrario degli dèi, lingua degli
uccelli, impregnata di fatum:
ma solo se essa è quella precisa,
pronunciata con la giusta significanza e cadenza dovuta.
Tento
di chiudere il cerchio. La tenzone
a parole, che precede
o al limite sostituisce quella effettiva come riferivamo poco sopra
al caso del poema teogonico babilonese, è un evento letterario e
para-letterario in cui ci si imbatte con frequenza. Senza sostare
oltre sui loci
offerti copiosamente dalla poesia epica (lunghi sono gli agoni di
retorica omerica che coinvolgono gli eroi acheo-traci prima che essi
giungano a incrociare il bronzo – commovente addirittura l’episodio
dell’Iliade in cui le parole rimuovono le intenzioni belligeranti:
mi riferisco a Diomede e Glauco che, scoperte le vicendevoli
comunanze nel nome della sacra ospitalità, abbandonano le armi
balzando giù dai carri a stringersi la mano; e la similitudine che
apre l’episodio disegna uno degli esametri in lingua greca al mio
orecchio più suadenti, per perfezione in cesura e tratteggio
melanconico: “Tale e quale la stirpe delle foglie è la stirpe
degli uomini”14),
ritengo di affascinante complessione il poemetto medievale Sir
Gawain e il Cavaliere Verde,
appartenente al ciclo bretone. Vi si narra che durante i
festeggiamenti del Capodanno un enigmatico personaggio bardato di
armatura smeraldina, dall’aspetto imponente, si presenti come
ospite alla corte alta di Artù. Egli pretende soddisfazione, ma non
con la violenza: “mi concederai di buon grado il gioco che
chiedo”15.
Domanda infatti che un cavaliere di Camelot si offra a sferrare sul
suo collo un fendente d’ascia. Dopo un anno e un mese, sarà invece
egli stesso a restituire il colpo allo sfidante. Dopo che Gawain,
giovane e prode tra i prodi, accoglie il guanto di sfida prestandosi
al gioco sopraddetto e tronca di netto il capo al misterioso astante,
costui nemmeno barcolla: “Eppure l’altro non cadde, neppure si
mosse / ma risoluto avanzò sulle gambe possenti”16.
Raccoglie invece la testa, che prese a parlare per ricordare gli
accordi precedenti allo sventurato giovane.
Nella
medesima struttura del pometto (pervenutoci in un’unica copia
manoscritta del XIV secolo) mi pare di trovare una fra le innumere
chiavi di lettura, dato che in corrispondenza dei cinque versi finali
di ogni stanza, gli unici costretti in uno schema fisso secondo cui a
un breve bob
rimato A seguono i 4 versi wheel
sequenziati
BABA, la tensione
cumulatasi dalla vicende cantata tende a risolversi con una sequenza
di parole-formula concise, che fendono quella sola posizione
ricordando – con le dovute intemperanze strutturali – la guisa
dei congedi nelle sestine metriche. Quasi che in questa cauda
si dia sintesi del flusso formulare dell’intera strofe, un sigillo
scandito da necessari ritmi convenzionali. Così accade, ad esempio,
nel primo canto dell’opera:
Saldo
s’accomoda in sella, come se nulla
Gli
fosse accaduto, benché non avesse
la
testa.
Volse
il torso d’attorno
Il
corpo orrendo di sangue,
molti
ebbero paura
quando
finì di parlare.17
Ma
finito
non aveva, non del tutto, dal momento che la tenzone avrebbe previsto
un colpo di risposta.
Robert
Graves, con i suoi modi tortuosi, interpreta il cavaliere verde come
simbolo della pianta d’agrifoglio (tinne,
l’ottava lettera dell’alfabeto arboreo celtico beth-luis-nion)
destinata ad assurgere “a maggiore gloria della quercia”18
(qui rappresentata a sua volta da Gawain) come segno di rinascita del
ciclo stagionale: “secondo il mito gallese, il Cavaliere
dell’agrifoglio e il Cavaliere della quercia combattono ogni
Calendimaggio sino al giorno del Giudizio”19.
Ma
più interessante mi pare l’associazione della lettera T di tinne
al dito medio, il cosiddetto “dito del matto”, tenendo presente
lo schema della mano come tastiera alfabetica druidica: si tratta con
evidenza del Cavaliere Verde stesso che, pur decapitato, si rialza e
parla, sacralizzando di fatto il patto cortese. Il matto – il
non-numerato tra gli arcani maggiori – è colui che dice, la voce
oracolare.
Questo
itinerario di iniziazione tra la morte e la vita si maschera da
arguto gioco araldico, animato da pentangoli e cinture fatate, come
spesso accade tra le intercapedini della poesia arturiana: l’anno
successivo Gawain non potrà sottrarsi al colpo dell’avversario,
che infine gli risparmierà la vita. Le buone norme del vassallaggio
glielo impongono: ha
dato parola, e – i
melanesiani già lo sapevano – il corso deve conoscere la sua
propria rigenerazione, giacché “di rado l’inizio è uguale alla
fine”20.
Diego
Riccobene
_____
NOTE
1 - Testi tratti da Mitologia assiro-babilonese, nella traduzione a cura di G. Pettinato, UTET, Torino 2005.
2 - Ibid.
3 - A. Seppilli, Poesia e magia, Einaudi, Torino, 1962.
4 - E. C. Agrippa, De philosophia occulta, Ed. Mediterranee, Roma 1972.
5 - Elegia I, 9, vv. 17-18. Versione tratta dall’edizione delle Elegie di Nicola Zanichelli, Bologna, 1943. I distici successivi, ancorché notissimi, sono ancor più eloquenti: “cantus vicinis fruges traducit ab agris […] cantus et e curru Lunam deducere temptat”.
6 - Cfr. Formule di maledizione della Mesopotamia preclassica, a cura di F. Pomponio, Paideia Editore, Brescia, 1990.
7 - Ibid.
8 - Ibid.
9 - Ibid.
10 - Salmi, LXXVII, 1-4.
11 - Testimonianze e osservazioni tratte dallo studio compiuto da Remo Guidieri, Il cammino dei morti, Adelphi, Milano 1988.
12 - Ibid.
13 - A. Seppilli, op. cit.
14 - Omero, Iliade, Rizzoli, Milano, 1996, trad. di G. Cerri.
15 - Edizione di riferimento in questa sede è quella curata da Pietro Boitani: Sir Gawain e il Cavaliere Verde, Adelphi, Milano 1986, v. 274.
16 - Ibid., vv. 430-431.
17 - Ibid., vv. 437-443.
18 - R. Graves, La dea bianca, Adelphi, Milano 1992.
19 - Ibid.
20 - Sir Gawain e il Cavaliere Verde, op. cit., v. 499.
_____
RIFERIMENTI FOTOGRAFICI
Figura 1 - Simboli delle principali divinità babilonesi, scolpiti sulla sommità di una stele confinaria, da Formule di maledizione della Mesopotamia preclassica, op. cit.
Figura 2 - Miniatura presente sul manoscritto originale di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, artista sconosciuto.
______
N.d.R: Diego Riccobene ha contribuito allo speciale della Redazione de Le parole di Fedro "I Mostri" con un articolo dal titolo "L'uomo con le zampe d'uccello" (nel link qui a fianco troverete i collegamenti a tutti gli interventi dello Speciale). Della sua raccolta poetica Synagoga (Fallone, ed, 2023), Le parole di Fedro ospita una nota di lettura di Sergio Daniele Donati.
Guillaume de Machaut, grande compositore dell'Ars Nova Francese, amico di Philippe de Vitry che era amico di Petrarca, scrisse un rondel, oggi diremmo rondeau, il cui titolo e testo è Ma fin est mon comencement. È di fatto un "motet" a tre voci. Il tenor, che poi nella musica successiva, con l'avvento della musica tonale, si svilupperà nella forma di basso, ha una melodia che giunta a metà del percorso ritorna indietro ripercorrendo al rovescio tutte le note intonate fino a quel punto. Le due voci superiori intonano entrambe la stessa melodia, ma procedendo l'una al rovescio dell'altra, volessimo designare alfabeticamente le note se una intona a ..... z, l'altra canta z ...... a. Si tratta certo di un'esibizione di sapienza contrappuntistica. Ma è anche una sorta di scongiuro magico. E sfida una definizione della musica che della musica mette in risalto sia l'aspetto di artificio intellettuale - è una scientia - sia di quello finalizzato al piacere, alla gioia dell'intrattenimento. Ecco il testo: Musique est une science / qui veut qu'on rie et chante et dance. La musica è una scienza (nel senso anche di arte) che fa ridere e cantare e danzare. Ho sempre trovato questa una definizione bellissima della musica. E in fondo di qualsiasi arte.
RispondiEliminaCaro Dino, il tuo contributo qui mi è oltremdo prezioso. Visto che citi Petrarca, mi viene anche in mente come nel Canzoniere sia presente un componimento che è a tutti gli effetti un devinalh (Pace non trovo...) classico componimento enigmatico che, guarda caso, trova la sua soluzione proprio alla fine, nel verso di chiusura del sonetto. Grazie ancora per aver allargato questo discorso che è, in potenza, non mai finito.
RispondiElimina