Otto poesie inedite di Francesco Papallo - con nota di lettura di Sergio Daniele Donati
Ci sono scritture il cui ritmo è un richiamo al «limine», al confine tra territori limitrofi in cui si può percepire la graduale manifestazione della coscienza.
Sono le scritture del dormiveglia, dell'aurora e del tramonto; quelle in cui si manifesta la possibilità che i due poli del dire poetico (suono/timbro/ritmo e significato), invece che creare una tensione emotiva nel lettore, si fondono, quasi a volerci indicare la non sufficienza di un approccio sistematico alla lettura poetica.
Sono quelli versi che richiamano al tutto dinamico che investe chi sa lasciarsi trasportare da un flusso dai molteplici formanti, senza esserne travolto e, allo stesso tempo, senza resistere alla corrente.
È questo sicuramente il caso degli inediti di Francesco Papallo che abbiamo l'onore di potervi presentare oggi.
Poesie quelle del poeta che paiono scritte in assenza di tempo o, meglio, sapendo contemplare la compresenza di passato, presente e futuro in ogni istante.
Leggerle è un viaggio quasi-iniziatico in cui immagine evocata e suono veicolato si fondono a descrivere un insieme di percezioni (visive, auditive, quasi-tattili) che lasciano a bocca aperta per lo stupore il lettore attento.
Solo dopo subentra il significato, quasi fosse la firma di un pittore su una tela ormai conclusa.
E in questo gioco, dalle tinte post-romantiche, ci si trova come lettori non più solamente spettatori di una meraviglia che si dipana davanti ai nostri occhi, ma compartecipi di un'avventura creativa a cui ci si sente chiamati, foss'anche con un solo battito di ciglia ad esprimere un grato e breve pensiero: io ci sono.
Scritture che chiamano il lettore all'atto di presenza, perchè un aurora non è se non vi è chi la osservi, e un flusso non esiste se non per il mare che ne accoglierà i flutti.
N.d.R: questa breve e indegna nota è stata scritta ascoltando i Notturni di F. Chopin nella splendida esecuzione di Maurizio Pollini. Poche volte in vita mia testo delle composizioni e musica di sottofondo si sono alleati così magistralmente per ispirare le mie balbuzie in nota. (S.D.D.)
Per la redazione de Le parole di Fedro
il caporedattore - Sergio Daniele Donati
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FIANCO A FIANCO Bisbigliano i fantasmi a semicerchio,
capannelli di curiosi che si fermano
davanti all’incidente del risveglio.
È l’ora antelucana la mia guida,
quella che passa indenne
per una strozzatura di clessidra.
Tu dormi ed io contemplo l’incarnato
del tuo volto che cambia sfumatura
tra gli argini fluenti della chioma.
Acciambellata come un uroboro,
ti lascio qui per andare al lavoro,
alle trite scartoffie che sfiniscono
la mente nei cavilli. Aspetto sera
per ritrovare in un’aura di sacro
le pupille dilatate,
i cerchi concentrici che disegnano
le mie domande in risposta alle tue,
da rabbino a rabbino.
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NUOVO SECOLO, FALSA PARTENZA
Massima sfida sorgere a Occidente.
Caduti i muri, il secolo mostrò
scavato il suo profilo di falesia,
le carie nel sorriso del progresso.
I guardiani abbandonarono i fari
mentre i porti spalancavano fauci
pronte a inghiottire e a risputare altrove
gente che spera in coda alla deriva.
Resero il loro viaggio labirinto,
spararono alle navi di soccorso
ma un corpicino morto
sulla riva, ruggì come un profeta
nel deserto. Giocava all’armonia
con l’uragano e sui gioielli finti,
sul corredo che pure gli negarono
riscrisse le iniziali dell’umano.
MIGRANTI
Argento vivo il mare si fa incontro
con la misura della loro febbre.
Chi parte è nudo e batte i denti all’ombra
che lo avvolge in un panneggio d’onde
anomale dopo la calma piatta.
Chi parte la sventura lo spariglia,
teso fino allo strappo del suo nome
si assottiglia
come i neonati spinti a forza
dentro la bussola di un brefotrofio.
con la misura della loro febbre.
Chi parte è nudo e batte i denti all’ombra
che lo avvolge in un panneggio d’onde
anomale dopo la calma piatta.
Chi parte la sventura lo spariglia,
teso fino allo strappo del suo nome
si assottiglia
come i neonati spinti a forza
dentro la bussola di un brefotrofio.
Resti di polveriera
li chiama la risacca,
figli della diaspora
che ovunque voli inseguono
lo sfarfallio radiato
dal luogo dell’addio.
li chiama la risacca,
figli della diaspora
che ovunque voli inseguono
lo sfarfallio radiato
dal luogo dell’addio.
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AGLI AMICI
L’inchiostro si raffredda sulla carta,
nerolucente sciara di vulcano.
È in un pudore arcano
che si dona agli amici il proprio errore,
la curva presa male di una virgola
e la tangente che non puoi evitare.
Come l’amanuense che ricopia
fedelmente lascia refusi e lapsus
anche accordando il fiato antico al suo,
questo sei tu, ti scrivo,
quest’altro sono io.
E ci si specchia nella confluenza
tant’è la solitudine che unisce
acque salate e dolci.
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IMPARARE A TREMARE All’ennesima prova superata,
lo chiamarono eroe. Ma lui sapeva
che un astro non si china ad aiutare
il tronco abbattuto dell’orizzonte
e l’arma più potente è nulla
davanti al sangue della foglia d’acero
che staglia il suo tridente contro il cielo.
Lasciò così che gli altri si accanissero
a colpi d’intelletto
sull’idra dello scibile
e si risolse all’ignoto.
Come altrimenti scongiurare in sé
questa miseria d’uomo
che è non saper tremare?
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PANDEMIA
Stanca di aggiornare il bestiario dell’epoca
con gli ibridi e con gli idoli
che sforna innumerevoli,
la mente arretra al mondo vegetale,
prende i cipressi dalla sua faretra
o sposta l’attenzione
agli alberi da frutto nel giardino.
A tratti la gazzarra degli uccelli
festeggia un vuoto d’uomo rapaci,
ma l’agile viavai più non lo tollera
un corpo senza leggerezza, quasi
umiliato dal guizzo delle ali.
Il sole avvinto in edera di nuvole
si arrende come frana sconsolata
lungo i fianchi la mano di un bambino
che non arriva a suonare il campanello.
Eppure, collegando dimensioni,
un pigolio diventa stillicidio,
scava gabbie toraciche
e rileva dalle fosse comuni
il battito dei morti che non sono morti
ai troppi vivi
che vivi più non erano.
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VEGGENTE A METÀ
A leggerti la mano sono bravo
per poche ore al giorno:
col favore della luce
non mi rimprovero l’inganno
di fingerti un futuro. Ma l’errore
a cui ti induco è credermi veggente
a tempo pieno. Sapessi la notte
come mi nega le formule esatte.
Quanti sogni negrieri si arricchiscono
nel traffico dei miei interrogativi.
per poche ore al giorno:
col favore della luce
non mi rimprovero l’inganno
di fingerti un futuro. Ma l’errore
a cui ti induco è credermi veggente
a tempo pieno. Sapessi la notte
come mi nega le formule esatte.
Quanti sogni negrieri si arricchiscono
nel traffico dei miei interrogativi.
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NUOVO INIZIO
Il giorno che al sigillo delle giare
ti ha avvicinato quella mano esperta
(e la tua si vergogna
di non avere macchie, calli e rughe)
o quando perdi l’occhio
poiché lanciato ad arco
al punto in cui si incrociano le ogive,
allora assurgi alla tua vera altezza
e da lassù le chiavi dei ricordi
tintinnano serafiche e sulfuree.
Accanto a te una donna tutta brividi
affiora e scompare sotto il pelo dell’acqua.
Così cali di nuovo dentro il tempo
tra i nodi che rafforzano
le maglie del destino.
Racconti il massacro nelle voliere,
l’amico impazzito per il dolore
che ancora il giorno prima di morire
caricava e puntava un fucile invisibile:
“il colpo in canna è per il falco
che mi divora il fegato;
quest’altro invece per la prima rondine
che mi attraverserà la mente azzurra.”
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NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
Francesco Papallo è nato nel 1987 a
Napoli. Alcuni suoi componimenti poetici sono stati pubblicati nella
rivista di Elio Pecora “Poeti e Poesia”, nella rivista “La
clessidra” all’interno di una rassegna dedicata ai poeti campani,
e in altre riviste tra cui “Atelier”, “Inverso”, “Kairos”,
sul blog “Transiti poetici” di Giuseppe Vetromile, e
nell’antologia “L’assedio della poesia 2020” curati da
Antonio Spagnuolo. Alcuni suoi articoli e racconti brevi sono apparsi
sul “Manifesto” e sul “Mattino” di Napoli.
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