(Redazione) - Non alla poesia, non al poeta...alla «parola» - lettera aperta a Mirea Borgia a proposito della raccolta "Ismi" (Il Convivio ed., 2024) - una "non-nota di lettura" di Sergio Daniele Donati
Non alla poesia, non al poeta...alla «Parola».
Questo volevo dirti, Mirea, dopo aver letto la tua raccolta "Ismi" (Il Convivio ed., 2024).
Ché forse siamo tutti presi da un imperativo tiranno che ci porta a cercare di definire il piccolo di fronte all'eterno — o all'abisso — che si dipana davanti ai nostri occhi.
Umano, teneramente troppo umano, ridurre il reale ai limiti della nostra retina, Mirea.
Ma, leggendoti e soffermandomi sulle nenie senza tempo che proponi al lettore, io l'ho sentito quel richiamo.
Ed era sottile e tenue, celato nelle tue ripetizioni, nell'ossessione di un avvilupparsi di lemmi alla ricerca di significanti: la Parola, prima della poesia, infinitamente prima del poeta.
Hai ridato valore e spiegazione allo stento di una parola che sorge da lande melmose per divenire scia celeste, come sempre avviene; non senza fatica, non senza affanno.
«La parola così poco umana da divenire Umanità» — questo pensavo leggendoti, ché in questa tua scrittura batte forte il tamburo della consapevolezza di un dire che nella ricerca dell'altro da sé trova la sua stessa definizione.
questa cosa che non sappiamo fare
— raccogliere l'aria dal pozzo, debordare
il vuoto e digradare fino al fondo secco —
è l'inutile traguardo della sera
lasciamo il travaglio caduco alle ore
Così tu.
E io, che conosco ogni millimetro di quella ferita, di quella infiammazione delle congiuntive che alle volte mi fa lacrimare sale dagli occhi, li chiudo e ascolto.
L'ascolto, sai, è sempre l'alternativa alle pecce di una visione che ci impedisce il ricordo.
Non c'è nessuna utilità nella sera, sembri dirmi, nessun traguardo posticcio da raggiungere se non quel respiro che ci spinge al poi e a lasciar cadere a terra le fatiche dell'esistenza.
Eppure quei tuoi modi infiniti innalzano un controcanto a queste note dolenti, una sorta di esortazione all'ostinazione imperitura, a cercare la via in una compulsione davvero tanto umana e, allo stesso tempo, vicina alla cecità laboriosa del lombrico, sottoterra.
Perché io a quel pozzo cerco sempre — pur sapendomi Don Quixote davanti ai mulini a vento — di dissetarmi, e così l'Uomo da sempre e, forse, per sempre.
Siamo figli di una caduta, Mirea, e tu ce lo ricordi — figli di una caduta dalla quale ci si rialza solo se si sa vivere il male delle ossa, sino ai midolli.
E sì, hai ragione, non resta che l'ostinazione della Parola, il nostro continuare a dire e dirci, per proiettarci altrove.
resistiamo alla stagione secca
mentre il fiume pensa le ore a scorrere
e il divenire
si scopre immobile
osserviamo
ma guardiamo altro
un ragno che cede la sua pigna
schiantata dall'alto
il tronco ustionato che spiega l'impatto
e ogni cosa appare contorta
perchè non vegliamo
e ogni cosa si volta
lasciandoci come siamo
nati nudi lagnosi e sporchi
ad amare senza proferire
e divorare senza cacciare
perchè l'incompreso sia comunque nostro
precoce nel dirci
che stiamo ingannando l'attesa
che la realtà si realizza sempre
che radunarci ci consola
Parole che sono prima di ogni intento poetico, peraltro sublime, Mirea.
Parole che fermano l'uomo davanti a uno specchio di verità e ogni senso di insensatezza. Eppure parole che tracciano il percorso liberatorio — per chi la dona e per chi la riceve — della Parola.
Perchè ogni dire del limite, del crinale e del passo incerto, ogni istante dedicato a dar voce alla compresenza dell'Assenza e dell'Inciampo ai nostri respiri, mette in movimento l'universo — nella sua immensità sempre piccolo — ci libera dal sogno e ci riporta a terra dove, certo, le ossa si schiantano e la sporcizia si insinua tra le nostre ciglia. Eppure, per liberare il nostro sguardo dal fango, alziamo gli occhi un'altra volta la cielo, perchè se è ostinata la Parola che ci soccorre dicendo del nostro limite, chi siamo noi per venir meno alla sua chiamata?
La tua è poesia prima della poesia, immensamente prima della poeta, è parola prima del pensiero, immensamente prima della teoria, è un dire che avanza sull'epidermide del lettore e verifica, con la seria compitezza del chirurgo, il punto esatto dove il bisturi di una comprensione profonda possa aver accesso.
Chi riceve le tue parole, alle tua parole volta lo sguardo, poi ci torna, perchè non è con la baldanza del guerriero medievale che si affronta un dire principe.
Occorre prima disfarsi delle false corazze che ci impediscono il movimento e accettare, come il Re David davanti a Goliah, che per poter proferire la parola amore le ferite dell'amore devono averci già segnato la pelle.
E, sì, ci raduniamo tutti in cerca del calore che parole come le tue, che pur descrivono la separazione e lo strappo, donano come un piccolo segno empatico, un "guarda che anche io...", un lento dirci umani, mai troppo umani.
Sergio Daniele Donati
SINOSSI DEL LIBRO TRATTA DAL SITO DE IL CONVIVIO EDITORE
Ci troviamo di fronte a un atto estetico, che consiste nello svelare e dissipare il senso, nell'accostamento di un linguaggio letterario a uno estremamente basso e colloquiale, nel ticchettio dello scioglilingua che da un lato si associa agli ismi come ripetizione, dall'altro ne offre una parodia. Gli ismi sono la trasmissione tangibile della maniera, una coazione a ripetere di contenuti. Se tutto oggi appare trito e ritrito, dunque, la triturazione della parola e del senso e il loro ri-assemblamento non sono altro che manifestazione dell'impeto della poesia: la materializzazione del mattatoio sociale. Noi non sappiamo morire, si scrive, ma questa consapevolezza ammette anche un’altra verità: noi non sappiamo neanche vivere. La scrittura, dunque, è un atto di resistenza, ma anche un luogo di definizione e di non remissione al consueto. (Giuseppe Manitta)
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