(Redazione) - Specchi e labirinti - 28 - Girando intorno a Elsa Morante, poeta #1
di Paola Deplano
Siamo abituati a pensarla romanziera, una romanziera di prim’ordine: Menzogna e sortilegio, L’Isola di Arturo, Aracoeli, La storia sono tutti titoli che confermano questa sicura vocazione allo scrivere in prosa. Ce lo conferma lei stessa, quasi timidamente, nella premessa al suo primo libro di poesie, dal titolo Alibi:
«L’Autrice
prega i lettori di perdonarle l’esiguo valore e peso di queste
pagine. Essendo infatti, lei, per sua consuetudine (oltre che per sua
natura e per suo destino) scrittrice di storie in prosa, i suoi radi
versi sono, in parte, nient’altro che un’eco, o, se si voglia, un
coro, dei suoi romanzi; e, in parte, nient’altro che un
divertimento, o gioco, al quale essa ama talvolta abbandonarsi senza
troppo impegno, per semplice piacere della musica. Se, dunque, si è
ridotta a pubblicare questi versi (dei quali poi alcuni, come si vede
dalle date poste in fondo, risalgono agli antichi tempi della sua
prima giovinezza) l’Autrice l’ha fatto soltanto nella speranza di
rendere, a chi li leggerà, un poco di quel riposo, e divertimento,
che lei stessa ne ha tratto al comporli.
Roma,
marzo 1958.
Elsa Morante»1
Questo
annullarsi, questo chiedere perdono, questo minimizzare, fanno
trapelare il disagio, diremmo quasi il terrore, di deludere chi la
leggerà. In apparenza, pare una questione di vergogna nel calarsi in
un genere letterario che lei dice di non trovare congeniale, il
timore di scivolare in un terreno sdrucciolevole e non molto
praticato, quasi sconosciuto. Dietro quest’apparenza c’è, però,
forse qualcosa d’altro. Queste poesie di Alibi
mettono
in luce, senza il velo compiacente della prosa, molto dei suoi
sentimenti di donna, molti dei suoi amori – non solo romantici.
Quindi,
lei non si piace – o fa finta di non piacersi, come quelle donne
insicure che durante l’amore chiedono all’amante se sono belle o
no – lei non si piace, dicevamo, e con questo tono dimesso chiede
al lettore una sorta di validazione delle sue parole e, ancor di più,
dei suoi sentimenti. Quindi, prendiamola per buona: la Morante, come
poeta, non si piace. Eppure, per me, ha un fascino indiscutibile e
non credo sia per la mia solita predilezione per le opere cosiddette
“minori” di un autore. Io credo di aver trovato, in lei, qualcosa
di originale, raccontato riecheggiando i grandi autori del passato e
fornito di una musica molto piacevole e molto personale.
È
innegabile che questo libro sia nato, come ci racconta colla sua
consueta lievità Cesare Garboli nell’introduzione, in un modo
inaspettato, diremmo quasi per caso: nel 1958 Nico Naldini diede
vita, per Longanesi, ad una collana di poesia. Il primo volume era
Croce
e delizia
di Sandro Penna, il terzo L’usignolo
della Chiesa Cattolica di
Pasolini e il secondo proprio la silloge di cui stiamo parlando.
Sembrava una scelta ragionata e, in qualche modo, ponderata,
destinata a lasciare il segno sul grande pubblico e tra gli addetti
ai lavori. «Ma poi si vide che la Morante, Pasolini, Penna, erano
stati messi insieme da Naldini solo perché li aveva sottomano. Non
avrebbero fatto scuola. Il fuoco era di paglia. Tutti si chetarono.
Alibi
fu dimenticato.»2
Questo
ci dice Garboli, ma per me, che amo i gatti, questo libro non può
essere dimenticato: non si può dimenticare una silloge che si apre
con un dolce ritratto felino. Un ritratto dolce, ma - si badi bene –
tutt’altro che lezioso. Un ritratto che apre squarci di riflessione
sul senso della vita e sul sottile legame che ci unisce agli animali,
nostri imprescindibili compagni di cammino tra le meraviglie del
Creato. Eccola, Minna, la gattina di Elsa:
MINNA
LA SIAMESE
Ciò ch’io le metto nel piatto, essa mangia,
e ciò che le metto nella scodella, beve.
Sulle ginocchia mi viene, mi guarda, e poi dorme,
tale che mi dimentico d’averla. Ma se poi,
memore, a nome la chiamo, nel sonno un orecchio
le trema: ombrato dal suo nome è il suo sonno.
Gioie per dire, e grazie, una chitarretta essa ha:
se la testina le gratto, o il collo, dolce suona.
Se penso a quanto di secoli e cose noi due divide,
spaúro. Per me spaúro: ch’essa di ciò nulla sa.
Ma se la vedo con un filo scherzare,
se miro l’iridi sue celesti, l’allegria mi riprende.
I giorni di festa, che gli uomini tutti fan festa,
di lei pietà mi viene, che non distingue i giorni.
Perché celebri anch’essa, a pranzo le do un pesciolino;
né la causa essa intende: pur beata lo mangia.
Il cielo, per armarla, unghie le ha dato, e denti:
ma lei, tanto è gentile, sol per gioco li adopra.
Pietà mi viene al pensiero che, se pur la uccidessi,
processo io non ne avrei, né inferno, né prigione.
Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io m’illudo,
ma so che un’altra padrona, o me, per lei fa uguale.
Mi segue, sì da illudermi che tutto io sia per lei,
ma so che la mia morte non potrebbe sfiorarla.
(1941)
In
questa silloge incede anche un altro gatto, dal carattere totalmente
diverso: enigmatico, potente, quasi una sfinge. Abita nelle ultime
pagine di Menzogna
e sortilegio,
ma, per una delle magie che possono fare solo i gatti (specialmente
quello di Schrödinger) esiste e non esiste anche in Alibi.
Queste magie sono possibili tutte le volte che la misteriosa felinità
incontra un poeta disposto ad amarla e a cantarla. Alla lieve e
ingenua Minna fa quindi da contraltare Alvaro, degno discendente del
dio Anubi:
CANTO
PER IL GATTO ALVARO
o pigro, o focoso genio, o lucente,
o mio futile! Mezzogiorni e tenebre
son tue magioni, e ti trasformi
di colomba in gufo, e dalle tombe
voli alle regioni dei fumi.
Quando ogni luce è spenta, accendi al nero
le tue pupille, o doppiero
del mio dormiveglia, e s’incrina
la tregua solenne, ardono effimere
mille torce, tigri infantili
s’inseguono nei dolci deliri.
Poi riposi le fatue lampade
che saranno al mattino il vanto
del mio davanzale, il fior gemello
occhibello.
E t’ero uguale!
Uguale! Ricordi, tu,
arrogante mestizia? Di foglie
tetro e sfolgorante, un giardino
abitammo insieme, fra il popolo
barbaro del Paradiso. Fu per me l’esilio,
ma la camera tua là rimane,
e nella mia terrestre fugace passi
giocante pellegrino. Perché mi concedi
il tuo favore, o selvaggio?
Mentre i tuoi pari, gli animali celesti
gustan le folli indolenze, le antelucane feste
di guerre e cacce senza cuori, perché
tu qui con me? Perenne, tu, libero, ingenuo,
e io tre cose ho in sorte:
prigione peccato e morte.
Fra lune e soli, fra lucenti spini, erbe e chimere
saltano le immortali giovani fiere,
i galanti fratelli dai bei nomi: Ricciuto,
Atropo, Viola, Fior di Passione, Palomba,
nel fastoso uragano del primo giorno…
E tu? Per amor mio?
Non mi rispondi? Le confidenze invidiate
imprigioni tu, come spada di Damasco le storie d’oro
in velluto zebrato. Segreti di fiere
non si dicono a donne. Chiudi gli occhi e cantami
lusinghe lusinghe coi tuoi sospiri ronzanti,
ape mia, fila i tuoi mieli.
Si ripiega la memoria ombrosa
d’ogni domanda io voglio riposarmi.
L’allegria d’averti amico
basta al cuore. E di mie fole e stragi
coi tuoi baci, coi tuoi dolci lamenti,
tu mi consoli,
o gatto mio!
gustan le folli indolenze, le antelucane feste
di guerre e cacce senza cuori, perché
tu qui con me? Perenne, tu, libero, ingenuo,
e io tre cose ho in sorte:
prigione peccato e morte.
Fra lune e soli, fra lucenti spini, erbe e chimere
saltano le immortali giovani fiere,
i galanti fratelli dai bei nomi: Ricciuto,
Atropo, Viola, Fior di Passione, Palomba,
nel fastoso uragano del primo giorno…
E tu? Per amor mio?
Non mi rispondi? Le confidenze invidiate
imprigioni tu, come spada di Damasco le storie d’oro
in velluto zebrato. Segreti di fiere
non si dicono a donne. Chiudi gli occhi e cantami
lusinghe lusinghe coi tuoi sospiri ronzanti,
ape mia, fila i tuoi mieli.
Si ripiega la memoria ombrosa
d’ogni domanda io voglio riposarmi.
L’allegria d’averti amico
basta al cuore. E di mie fole e stragi
coi tuoi baci, coi tuoi dolci lamenti,
tu mi consoli,
o gatto mio!
Alvaro
è il simbolo del Mistero per eccellenza, custode di tutti i segreti.
Poi, dopo di lui, un altro felino conclude la silloge e chiude il
cerchio poetico di queste pagine. Il dialogo fra predatore mancato La
silloge si conclude com’è iniziata, con un gatto, un gatto che
parla con un uccellino:
IL
GATTO ALL’UCCELLINO
SCHERZO
– DEDICATO A S.P.
Hallalì! Hallalì!
Sul filo periglioso tu, pieno di grazia
ti posavi, e in volo a me ti rubi:
a me che giro digiuno in cerchi insani,
io futile minotauro negato al volo.
O tu beato e inerme che mi canzoni
io misero cacciatore di terrestri unghie armato!
Tu sai che di te mi tormento, o fragile e santo
Mio pasto non consumato.
O vita della mia carne, alato sangue,
galante sposo delle uccelle,
o tenorino
narciso
feudatario dei luoghi più alti.
Hallalì! Hallalì!
E tu del mostro ridi.
E un topolino di terra fu la mia preda.
(1957)
Il dialogo fra il predatore mancato e l’agognata preda ci presenta un gatto ancora più simbolico del precedente. Esso adombra l’autrice, che visse parecchi amori non corrisposti e per molti versi impossibili. Ma di questo - e anche di altro - parleremo la prossima volta, se avrete la pazienza di leggermi ancora.
_______
NOTE
1 - In Elsa Morante, Alibi. In appendice: Quaderno inedito di Narciso, a cura di C. Garboli, Einaudi, Torino 2004.
2 - Dalla prefazione di Cesare Garboli al volume, pagina VII.
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RispondiEliminaGrazie mille per questo commento così gentile e delicato (Paola Deplano)
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