Selezione di poesie di Elisa Ruotolo tratte da "Alveare" (Crocetti ed., 2023) - con nota di lettura di Sergio Daniele Donati

 
ELISA RUOTOLO
FOTO DI RICCARDO PICCIRILLO

Esiste un modo di attraversare il grande mare delle voci poetiche contemporanee che è molto simile alla navigazione a vela, e in quei casi la prima qualità richiesta è sempre quella dell'ascolto. 
Il mare stesso, ma soprattutto i venti, ci parlano e sta a noi decidere se lasciarci da loro trascinare, rinunciando alla meta per perderci dove ci condurranno oppure affrontarle de visu, controvento, magari con l'astuzia di chi conosce gli angoli esatti di un procedere di bolina. 
Quando poi si incontrano voci poetiche il cui richiamo ha il suono delle stesse profondità marine, la scelta è altra.
Ci tufferemo per unire ai suoni visione  di ciò che quel richiamo ci propone o, al contrario, resteremo sulla rena a farci commuovere da un altrove limitrofo ma distante mentre ci dona le sue narrazioni?
Io non so nemmeno dire perchè,  ma nella lettura della raccolta "Alveare" (Crocetti ed. 2023) di Elisa Ruotolo, di cui oggi presentiamo un estratto, ho vissuto l'intesa e costante sensazione di un richiamo a cui dovevo, di volta in volta, donare differenti risposte.
Sono poesie quelle di Elisa Ruotolo dove è molto presente il gioco — a volte sotteso, a volte patente —
tra domanda e risposta. 
Un richiamo costante questo ad una delle qualità e funzioni primarie della poesia, specie se in odore di antichità: il saper solleticare, nutrendosene peraltro, il dominio del pensiero attraverso il richiamo timbrico e sonoro.  
Siamo dunque di fronte a una scrittura che si situa sul crinale stretto, ma estremamente fertile, del saper dire, senza rinunciare, se non in parte, a dirsi. 
Una poesia, in altre parole, estremamente e intimamente dialogica in cui si avverte, quasi come in un Coro della tragedia greca, più voci che si rincorrono con maestria contrappuntistica e portatrici in primis dell'effetto di solleticare la mente del lettore non solo verso la meraviglia quasi estatica ma anche, e soprattutto, verso ciò di cui si parla sempre troppo poco in poesia: la comprensione.
La scrittura della poeta, in altre parole, è composta di tratti da prendere dentro di sé o, meglio, dentro ad un Sé che l'abilità linguistica indubitabile di Elisa Ruotolo delicatamente trascina verso un ascolto totale e fermo. 
Le linee poetiche presenti nelle composizioni che vi proponiamo — ve ne accorgerete senza esitazione — sono capaci in un certo senso di fermare la mente del lettore nel luogo di ricezione di un suono che immediatamente si trasforma in pensiero lieve e profondo; pensiero questo che viene elaborato nella direzione di un tacito dialogo con la poeta avente come principale caratteristica ed effetto proprio la sua spinta ad un ritorno verso le profondità stesse della parola.
Consigliamo pertanto a tutti di leggere e rileggere queste poesie come un dono capace di fare luce sul nostro rapporto con la poesia stessa, perchè non resti mai una domanda mai (o mal) posta, da parte del lettore, quella che attiene alla sorgente della sua sete di lettura.
Sono infatti poesie queste che ci stimolano a chiarire, prima di soffermarci sui loro significanti, a noi stessi sulla motivazione che ci spinge ad esserci e a prendere il ruolo di un lettore attivo e capace di ridare alla maestria e abilità della poeta ogni dovuto tributo.

Per la Redazione de Le parole di Fedro
Il caporedattore - Sergio Daniele Donati


ESTRATTO DALL'OPERA —

INVERNO

Ogni voce è persa e dagli occhi non arriva
grazia. Inospitale, il gelo ci fa dormire e ottunde
la profezia del verde. Tutto cade dall’alto
la pioggia lava, poi la neve imbianca
e fa di noi soldati che obbediscono contro cuore
alla trincea e già raccontare non sanno
la propria memoria.
Mentre l’inverno apparecchia sventure alle linfe
impariamo una nuova preghiera
e il congedo dai chiodi dell’estate.
La morchia della terra mescolata all’umore
l’innesto del sonno sul moto mercuriale dei corpi
la breve paga del riposo, ci annodano in un torpore
ingordo, che distanzia ogni amore di veglia.
Il glomere pulsa di fiamma e protezione
nel suo miracolo un delirio senza tregua
– ventre nero, dubbio di vita, antro in cui si scende
da cavatori in cerca di un rimedio
alla stagione
I campi sono nudi e i fiori, nel bavaglio del freddo
non chiamano da tempo.
Ogni promessa è rimandata e persino il cielo,
sempre fermo
persino lui ci lascia e va lontano, quasi crudele
va a cercare altrove, in altri deserti
la sua dolcezza.
È inverno, e lui sa farci piccole davvero
mentre la resurrezione è remota,
irreale
quanto la primavera.


L’APICOLTORE

Il buio è madre
tutto accade in un ventre.
La luce poi lo insidia
diventa così tanta
da chiudere gli occhi.
Sotto le palpebre restano scintille
ronzanti come sciami.
Tu puoi lottare per tenerla fuori
ma è luce che t’insegue
ovunque
più invadente dell’erba
a primavera, più sfrontata dell’ozio
che divora il gesto,
più assidua del malanno
nel tentare la ferita.
E quando penetra nell’alveare
imbratta il nero
lo trafigge.
Carezza un brulichio di affanni
una fatica che brucia
come sale.
Lo sentite?
Sentite anche voi là dentro
il rumore delle vite?
Ognuna che lavora, vuole, rinuncia,
edifica e distrugge
uccide
e poi alleva.
In questa meccanica non hanno bisogno
di me ed è la mia pena.
Pur non sorvegliando
so che quel lavoro continuerebbe
– come il desiderio a spingere
la rinuncia a incrudelire
la distruzione a fare danni fino a patteggiare
con la pietra che cresce.
È la morte ad accudirle
nella culla, e poi la vita le distenderà
nell'asciutto nido d’una cassa.
Mi avvicino senza essere visto
con la cautela di chi ha paura.
Di me hanno un’idea incerta
sono per loro una specie di infinito
che minaccia
– un estraneo
l’orma di un ordine primario
la possibilità di non discendere dal niente
e non doverci tornare
alla fine.
Amarli? Di loro ho bisogno
o non sarei
– come non esiste fondo senza mare
né figlio senza madre
o grano senza un seme
divorato dalla terra.
Il pastore può forse amare
la moltitudine che si dà ciecamente
al suo governo?
Non è forse dominato dal ritmo
del branco, dal belato che comanda
di restare sulla pietra a sorvegliare,
a contare il patrimonio in zecche e lana,
a vegliare quell’odore di stalla?
Il pastore non ama
ma calcola, pretende,
teme la disgrazia della perdita
e nel suo buio invidia
chi ha giorni fatti di stanze
e di casa.
Come lui lo è del gregge
io sono la creatura dell’alveare
che ogni giorno fa di me l’apicoltore,
il dio d’un nettare che sgorga
non in obbedienza d’un volere
ma in soddisfazione d’una necessità.
Sono imperfetto e fragile
e come gli dei di sempre
annodo alla terra il mio bisogno.
Resto lontano, al riparo
dall’assalto – che non venga a toccarmi
il veleno dello sciame
turbato dalla peste della mia fame.
Dentro è caldo di folla e buio
la mia onnipotenza invece sta nel chiaro
risponde al nome che meno desidero
sa d’una eternità destinata a finire
mentre loro – i vivi dell’alveare
si rinnovano.
Ammassati in un inferno ridotto in scala
pulsano d’un calore che mi esclude,
che osservo senza comprendere
restando incompreso.
Il rischio di provarci, di ferirsi
disgusta ogni voglia
– il mio sapore non sazia

non ho miele da dare, io.



L’ARCHITETTO

Credo ai distruttori – al loro connaturato
ingegno, dipende da essi
il rinnovarsi della terra.
Il mondo si sbilancerebbe, senza l’assillo
del tarlo o il bradisismo dei vulcani
senza l’infierire del piccone
o l’erosione delle correnti
– che mutano in residuo la pietra.
Non potrei costruire
se un’altra forza non agisse contraria
regredendo all’abbozzo
facendo un fossile di ciò che è vivo.
Né potrei sollevare quel che
– derivando dalla polvere –
ne ha nostalgia di ritorno.
Sostanza è un organismo insondabile
meticciato di fatica, spasimo, prigionia.
Ciò che possiede una forma avrà anche un compito
la funzione produrrà sfinimento
e questo guadagnerà l’asfissia d’una segreta.
Edificare con questo materiale
è come affidarsi alla paglia
e in segreto temerne il bruciore.
Si potrà andare superbi per l’edificato
presentendo l’esatto luogo in cui l’elemento
comincia a dormire
o a morire?
Creazione è un precipitarsi alla rovina
è turbamento, ma perché la materia ci confonda
in profondità deve averla affollata
lo spirito.
Io, creatura della costruzione – mentre riempio vuoti
o misuro perimetri, mentre disegno l’esagono perfetto
in cui lo spazio non si pieghi al sacrificio
ma all’utilità – la maneggio cautamente
ricordando che ogni asilo
cauterizza il vagabondaggio
e che credere in una casa significa
ipotizzare Dio.


L’ANCELLA

È tutto un gioco di mani
questo servire – tutto un agevolare
il gesto altrui mancato.
L’azione combacia con l’inerzia
e sono l’una per l’altra
maternità.
Alla stasi oppongo frenesia
all’inappetenza un pasto ingordo
una semplificazione che nutre il dovere
non il sangue.
Dramma è questo essere sete e acqua
nutrimento e poi fame che sciupa in me
ogni stagione.
Ben triste sarebbe impazzire di gioia
e accadrebbe – se ciascuno non allevasse
quotidianamente la propria ferita
originale.
Nascere innocenti – eppure sfigurati
da un taglio vorace – è cibo da predatori
ma l’assapora anche il bottino stanato
nella radura, se vive senza domanda
quest’ora di fuga.
So che aver immaginato la fine
annulla ogni creazione
e preghiera è
non chiedere nulla.


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NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
ELISA RUOTOLO - Scrittrice, poetessa è nata a Santa Maria a Vico (Ce), dove vive. Esordisce nel 2010 con la raccolta di racconti pubblicata da nottetempo Ho rubato la pioggia, Premio Renato Fucini e finalista al Premio Carlo Cocito. Il suo primo romanzo Ovunque, proteggici - uscito per nottetempo nel 2014 e riproposto da Feltrinelli nel 2021 - è finalista al Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane e Selezione Premio Strega 2014. È del 2018 il suo primo testo per ragazzi intitolato Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole (edizioni RueBallu) cui fanno seguito, nel 2019, la curatela del volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi (Edizioni Interno Poesia) e la pubblicazione della raccolta poetica Corpo di pane (nottetempo). Il suo secondo romanzo, Quel luogo a me proibito (Feltrinelli, 2021) è finalista al Premio Rapallo e al Premio Bergamo ed è tradotto in Francia dall’editore Cambourakis. Nel febbraio 2023 con l’Editore Bompiani pubblica Il lungo inverno di Ugo Singer (finalista al Premio Campiello junior). Il suo secondo testo poetico è Alveare (Crocetti, 2023).
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