(Redazione) - Fatuari - 02 - Cosa uscì dal becco dell’aquila
Omero
il rapsodo e il dio norreno Ódhinn: come legare l’uno all’altro?
Stavo,
qualche tempo fa, in contemplazione della straordinaria opera di
Bartolomeo Passerotti titolata L’enigma
di Omero, e pensavo a
quel frammento eracliteo che sbugiarda la conoscenza supposta
dall’intelletto umano intorno agli epifenomeni e a quanto di essi
rimane tra soglia e soglia, la loro ombra di zolfo, sulla trama
lunare dell’indecente tappeto intrecciato da noi medesimi. Eraclito
riporta il famoso episodio, narrato precedentemente da Aristotele,
riguardo l’indovinello che alcuni giovani pescatori posero al padre
della poesia: «Tutto quello che abbiamo visto e preso, lo lasciamo;
tutto quello che non abbiamo visto né preso, lo portiamo con noi».1
L’interpellato non seppe trovare risoluzione al quesito, e questo
fatto, tramandano le fonti, lo avrebbe letteralmente ucciso.
Riconsiderando la fabula dal finale patetico, mi domando: quanto
della nostra integrità sapienziale, e della nostra coscienza siamo
disposti, noi contemporanei, a giocarci per giungere alla
quintessenza? Qual è, inoltre, la quintessenza? Tempo fa si pagava
con la vita lo scotto del mistero irrelato. La sostanza umida da
impiegare è molta, molto il calore innato.
La
natura dell’enigma nasce dallo smarginare igneo della parola
stessa, quella che abbiamo definito, in altra sede, fondamento
preciso. Tutto ciò
che sappiamo (che millantiamo
di sapere) nasce tramite immagini non-rivelate, plurime, di cui,
prima o dopo, sarà chiesto conto secondo modi e tempi per lo più
misteriosi (non dico misterici
perché non intendo qui aprire una discussione esulante dai fini
dello scritto).
Alla
stessa maniera di Omero, Ódhinn è messo alla prova, in uno dei più
celebri carmi eddici, dal gigante Vafthrudhnir, depositario di
saggezza: si tratta di un vero e proprio dialogo sapienziale mosso
sui ritmi sincopati della sfida, del batti e ribatti in cui l’uno
mette alla prova la scienza dell’altro. Tramite la disputa delle
parole tutto
è in gioco, l’ordine stesso dell’esistenza è interrogato e
disvelato, e con esso ogni occulta movenza che ne regola il respiro e
le tensioni: la posta è la vita. L’alterco è fondato su questioni
così espresse: «se vuoi dall’ingresso / la tua perizia mettere
alla prova / come si chiama il destriero che uno per uno trascina /
per gli uomini i giorni?».2
La replica di Ódhinn è pronta: «Skinfaxi ha nome che trascina il
chiaro / giorno per gli uomini».3
La
necessità di porre il dettato in un antro di fuliggine, talché la
luce sia perseguibile sì, forse, ma solo a prezzo amaro, quello cioè
di navigare nel tratto dissestato dell’in-essenza, è pratica
tipica dell’oracolo, i cui primi responsi, in età arcaica, erano
espressi dalla sacerdotessa nel bel mezzo di accessi di mal caduco,
in modi atrocemente incomprensibili: ed erano in metrica. Era
chiesto, quindi, di battagliare con metafore e simboli, di districare
il senso di esametri battenti, altrimenti sarebbero stati questi
ultimi a prevalere, avrebbero stritolato il postulante nella loro
spirale di bellezza terrifica. Si consideri il fato di Edipo, prima
reietto, poi glorioso (l’indovinello della Sfinge da lui è stato
sciolto, in fin dei conti), poi nuovamente defraudato della sua
umanità. O ancora: i tanti presagi inviati dagli dèi in forma di
sogno, e basterà questo a giustificare il fatto che in Grecia c’era
chi ci campava, dai proventi dell’oniromanzia – ce lo assicura,
tra gli altri, Artemidoro.
Rimanendo
invece nell’ambito della cultura norrena precristiana, esiste, in
qualità di tecnica e formula poetica impiegata dai cantori
islandesi, gli scaldi, un particolare uso delle parole capace di
attuare la torsione del dire che sto cercando di descrivere, quella
enigmatica e volutamente opaca. Si tratta delle kenningar. Esse non
sono altro che formule perifrastiche molto vicine al concetto di
metafora, utilizzate per definire fenomeni di svariatissima natura,
eventi, divinità, elementi naturali o artificiali. Sono impiegate in
frequente misura, di cui testimonianza molto evidente è il corpus
dell’Edda,
sia in prosa (Snorri Sturluson ne fu uno degli araldi a noi più
tramandati) che in poesia (gli innumeri carmi del canzoniere eddico).
Ecco alcune immaginifiche colate di magma metaforico: la guerra è
chiamata «tempesta di spade e alimento di corvi», oppure «pioggia
di scudi rossi»; si può leggere, ad esempio, «rugiada delle armi»
per sangue, «salone della luna» per cielo.
Chi
altri se non Borges avrebbe potuto rimanere affascinato – al limite
dell’ossessione – da questo arcaico gorgo interpretativo, questo
rituale mitopoietico? Mi piace figurarmelo intento, in un’enorme
biblioteca cava in Buenos Aires, mentre investiga, perso nello
specchio di labirinti riflessi a rovescio, le ragioni delle metafore
vichinghe; cercando, insomma di spargere terra feconda sopra i «vermi
del sangue» o di cavalcare «il destriero della catena della terra».
Scrisse parecchio intorno al tema, tra cui un saggio raccolto in
Storia dell’eternità
(libro da leggere almeno una volta, in vita o in morte, come vi pare)
ove, oltre a riportarne un ampio catalogo, si interroga su quanto
l’artificiosità della kenning possa alterarne la fruizione
diacronica. È vero, «le kenningar indugiano in sofismi, in esercizi
menzogneri e languidi»4,
ma aggiunge in chiosa che esse riescono a provocare la «lucida
perplessità che è l’unico vanto della metafisica, la ricompensa e
la sua fonte».5
Così
Borges analizza le tecniche poetiche scaldiche, riportando anche una
strofa esemplificativa di come l’uso diventi, talora, parossistico:
I
tingitori dei denti del lupo
prodigarono
il sangue del cigno rosso.
Il
falco della rugiada della spada
si
nutrì di eroi della pianura.
Serpenti
della luna dei pirati
compirono
la volontà dei ferri.6
Non
analogie o semplici perifrasi, ma metafore
germinate da metafore,
florilegi di immagini, un geyser in bollore continuo e instancabile.
Ho trovato delizioso, nel medesimo libro, il riferimento al
concettismo tipico di letterati barocchi quale Baltasar Gracián, che
fanno della metafora insistita e ridondante non un mero stilema
tipico dell’esornazione secentesca, ma un precetto propriamente
ontologico; in merito Borges riporta gli studi fatti sul Gracián da
Paul Groussac, che tesse questa similitudine:
«È
frequente trovare nei templi indiani scrigni di sandalo e di lacca
delicatamente intarsiati, con triplo e quadruplo fondo chiusi da
complesse serrature: il curioso che riesca ad aprirle una dopo
l’altra, penetrando fino al misterioso ultimo nascondiglio, trova
una foglia secca, un pungo di polvere». (p. 142)
L’Edda
di Sturluson tramanda uno dei suoi carmi, intitolato Skáldskaparmál
ovvero Il linguaggio poetico,
in cui si racconta di un uomo di nome Aegir, versato assai nell’arte
magica, che apprende dal dio Bragi i segreti delle kenningar più
celebri, perlustrandone le ragioni nel folto di antiche e etiologiche
origini: perché, citando l’episodio forse più affascinante tra
quelli riportati, la poesia è chiamata «bevanda degli Asi» o
«sorso di Ódhinn»? Il buon Bragi spiega pazientemente la storia di
un uomo sapientissimo, Kvasir, creato dallo sputo di esseri divini
raccolto in un calderone, che poi fu ucciso da alcuni nani gelosi e
il cui sangue fu mischiato con miele, per ottenerne formidabile
idromele. La bevanda fu in seguito trafugata da Ódhinn in persona
dopo che ebbe assunto forma di aquila.7
Quanto
siamo disposti a intorbidare nel mistero del dettato, a scardinarne
il doppio fondo enigmatico per aprire, infine, l’agognata serratura
ed averne in cambio nient’altro che polvere, rimasuglio di vita?
Polvere di zolfo è quanto ci rimane del nascondimento dell’opus,
come in Atalanta
fugiens del poeta e
alchimista Maier, ove il discorso a commentario dell’epigramma XI
descrive la necessità di una «divina genialità per scorgere la
verità celata sotto le tenebre».8
Qui si parla di sbiancare
Latona, la quale si
pone come corpo imperfetto, che frammischia Sole e Luna e chiede
innalzamento a un sito più degno per poi, successivamente, essere
sprofondata in uno vilissimo in modo da attuare il processo
trasformativo.
Come
anche accade ai personaggi sopra citati: Ódhinn è pur sempre colui
che si impiccò a Yggdrasil, sacrificandosi a
sé stesso, con una
lancia nel costato (reminiscenze?) per ottenere le rune, l’alfabeto
iniziatico, lingua e sapienza.9
Sorrido
pensando a come oggi i contemporanei tratterebbero i vezzi che lo
skald usava con richiamo estatico. Noi che siamo ossessionati da un
sintetismo lirico egoriferito, e sbianchiamo alla lontana eco della
parola «artificio». La nostra weltanschauung, sommamente etica,
nulla ha a che vedere col travestimento del mondo naturale e
spirituale che percepiamo a pena, e di cui la kenning è
corrispettivo linguistico: nominare per possedere, possedere per
celarsi. Il travestimento e la menzogna sono fondamenti, la natura è
un enigma così come lo è l’identità di chi la pronunzia. Cosa ne
potremmo mai sapere di bellezza
terrifica, di polle
sapienziali, di nicchie nascoste e di ierogamie, noi che all’idea
di un gigante che impone una contesa di enigmi al dio della magia e
del sapere esoterico, sorridiamo bonariamente, con quel gesto
paternalistico tipico della cultura stabilita,
come si fa al cospetto di una storia ben congegnata per intrattenere
un poppante?
Torno
all’episodio poco sopra riportato: il dio in forma d’aquila, che
fugge dai suoi inseguitori con l’idromele nel becco, nella fretta
del volo «lasciò cadere all’indietro un po’ di met, e nessuno
se ne avvide, e lo ebbe chiunque ne volle. Noi la chiamiamo la
parte del poetastro».10
Siamo
una stirpe lurida, di poetastri, questo è il fatto.
_____
NOTE
1 - G. Colli, La sapienza greca – Vol. III, Eraclito, Adelphi, Milano, 1980, fr. 14 [A 24].2 - Il canzoniere eddico, trad. a cura di Piergiuseppe Scardigli, Milano, Garzanti, 2004, p. 40.
3 - Ibid.
4 - J. L. Borges, Storia dell’eternità, Adelphi, Milano, 1997, p. 56.
5 - Ibid.
6 - J. L. Borges, M. E. Vazquez, Letterature germaniche medievali, Adelphi, Milano, 2014, p. 141.
7 - Cfr. Snorri Sturluson, Edda, Adelphi, Milano, 1975, pp. 131-134.
8 - M. Maier, Atalanta fugiens, Ed. Mediterranee, Roma, 1984, Discorso XI.
9 - Crf. Canzone dell’eccelso, 138. Ne Il canzoniere eddico, op. cit., p. 40.
10 - Snorri Sturluson, op. cit, p. 134.
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