(Redazione) - Fisiologia dei significati in poesia - 01 - Carico relazionale entro la natura della parola
di Giansalvo Pio Fortunato
Parlare
di un’immanenza
della relazione
è dato quanto mai dovuto, soprattutto se si analizza la costante
della natura umana. È sorprendente – a tratti positivamente
contraddittorio – analizzare come continuamente sia riproposto ciò
che, in realtà, è altamente discontinuo ed irregolare. Perché, in
fondo, la relazione è ciò che maggiormente muta nel soggetto e
nell’oggetto (obiettivo della transizione relazionale): essendo,
infatti, la relazione la linea
simmetrica o asimmetrica
che consente un contatto tra due unità esistenziali, l’accetto si
pone sull’inter
esse,
ossia su ciò che sta in mezzo, non sulle due unità che vengono
congiunte. Per cui, pur nella costante del sistema relazionale, ciò
che si relaziona varia vorticosamente (ogni soggetto può
relazionarsi a diversi oggetti ed ogni oggetto può relazionarsi a
diversi soggetti) e questo variare rappresenta una forma produttiva
discontinua – per intenderci: se A si relaziona a B, genererà
qualcosa di diverso rispetto a se A si relaziona a C – che, però,
mantiene una legge immutata: il relazionarsi.
Rimodulando una delle massime shopenhaueriane, chiamate a motivare il
senso del dolore, possiamo ritenere che il bimbo, nel suo primo
affacciarsi al mondo, pianga non perché la vita sia un allevamento
alla sofferenza; ma perché questi attua una variazione dell’oggetto
relazionale ed una transizione di alterità importante (mondo fetale
a mondo extrafetale), capace di generare una reazione.
La prima grande conseguenza di una relazione è, per l’appunto, la
reazione del soggetto; ossia una risposta circostanziata che
certifica l’apprensione di quella reazione e, in una logica
costruttiva di causalità, l’effetto nel soggetto e dal soggetto
dinanzi ad una reazione. La reazione, quindi, esemplifica il valico
discontinuo
della produttività di una relazione, perché influisce
sull’esistenza e sul palesamento di uno stato-di-cosa.
Data l’impossibilità immanentista nella natura delle unità
relazionanti, è d’obbligo parlare di uno stato-di-cosa per
definire la transitorietà, che non cerca mai perfezione ed
esaustività, del modo d’essere – dunque di presentarsi – di
soggetto ed oggetto. Il soggetto era in un modo A (I
stato-di-cosa)
prima di relazionarsi all’oggetto; a seguito della relazione il
soggetto è in un modo B (con A ≠ B), quindi assume un II
stato-di-cosa.
Viene, dunque, da chiedersi: qual è il legame tra tale inevitabile
processo e la parola? Perché questo preambolo, a tratti forse anche
lezioso, se si analizza la parola e l’influsso che essa ha nella
poesia?
Il
comunicarsi è l’operazione più comunitaria ed alta di una
relazione, è la produttività più generosa ed utilitaristica che la
vicenda relazionale abbia mai potuto vivere e sperimentare nella sua
costruzione storica ed evolutiva. In un’ottica strettamente
singolare, infatti, la reazione (precisiamo: prodotto di una
relazione), implica una mutazione di uno stato-di-cosa nel soggetto e
nell’oggetto. Volendo semplificare - anche perché tale processo
avviene simultaneamente sia nel soggetto che nell’oggetto -
prendiamo in considerazione il soggetto: questi subisce un
cambiamento nello stato-di-cosa in se stesso e la sola apertura che
avviene è verso la propria coscienza, che determina non
simultaneamente l’apprensione;
ossia la presa di coscienza del mutamento dello stato-di-cosa
generato dalla relazione. In questa formulazione, vigente prima della
venuta dell’esigenza comunicativa, è evidente che vi sia spazio
per il solo recinto del soggetto: la reazione riguarda solo un’unità
della relazione e, nell’apprensione, l’unità della relazione con
l’unità della relazione stessa. Nel momento in cui, come
analizzato in un precedente saggio Genealogie
verbali, Parole di Fedro – marzo 2024,
l’uomo scandalizza la storia dell’evoluzione con la parola
quale forma adattativa,
questi lo fa con un unico obiettivo utilitaristico: comunicarsi.
Di questa forma verbale riflessiva va, in particolar modo,
sottolineato un aspetto: il si
a
chiusura della voce. Tale si
non
va letto in un’ottica intransitiva – che esiste già nell’atto
di coscienza precedentemente analizzato , quanto in un’ottica
dichiaratamente transitiva:
l’uomo, per intenderci, decide di trasferire la mutazione del
proprio stato-di-cosa, avendola appresa (essendone cosciente),
all’altro; al punto che quest’altro, attraverso una nuova
relazione, possa variare il suo stesso stato-di-cosa, generando una
reazione corrispettiva. In questi termini, allora, non solo si dà
grande senso e grande valore all’utilitarismo (banalmente: se gli
altri capiscono che mi sono fatto male, reagiscono aiutandomi), ma si
assume una catena incrociata che accerchia il collettivo e lo pone in
una sequenza
relazionale,
capace di creare palesamenti corrispettivi. La comunicazione,
tuttavia, consiste solo nella parola? Non posso comunicarmi
attraverso gesti o mugugni (forme foniche indistinte)? Certamente. Ma
sarò compreso? Ciò che conta nel comunicarsi transitivo – badiamo
bene – è l’esistenza di un codice noto a tutti; meglio ancora:
di una referenzialità
condivisa ed implicita, nota come “significato”.
Il
significato, infatti, rappresenta il collante oggettivato che
istituisce un palesamento ed una comunicazione comunitaria. La
referenzialità, non a caso, è amplificata al punto da essere
ristretta,
impenetrabile;
quindi rimodulabile solo attraverso un processo lungo e tortuoso. Fin
dalla sua etimologia, infatti, la parola significato
fa riferimento, indica una referenza: il significato altro non è che
l’indizio verso qualcosa che non emerge, ma che dà senso ed
esistenza alla parola, che quindi diviene esistenzialmente
significata. Il significato è identificazione che, in un’ottica
tutt’altro che aleatoria o ideale, è riproposizione
corrispondente nella temporalità. Un’identità
- che non è cosa a se stessa, ma legame
immaginativo ed ideale
– si definisce in quanto tale quando la materia, che la compone, è
più volte riproposta con le stesse caratteristiche; al punto che per
una causalità provata, è imprescindibile pensare ad una cosa (quid
generico)
senza quelle caratteristiche che siano chiamate a definirla, non a
determinarla. Mentre, infatti, la determinazione è totalmente
circostanziale
e circostanziata
– dunque dipende dalle qualità che la compongono transitoriamente
ed accidentalmente, la definizione è immanente
ed immutata;
ossia: malgrado la variazione degli accidenti con cui si palesi una
cosa, questa stessa presenta una struttura di base che non varia e
che consente, pur con tutte le variazioni contingenti, di
riconoscerla in quanto tale. Per intenderci: la definizione di uomo è
animale dotato di pensiero (vedi come esempio molto banale).
Malgrado, dunque, le diverse forme nelle quali un uomo appaia, il suo
essere animale
dotato di pensiero
lo indentifica, lo
caratterizza sempre e comunque, facendolo riconoscere. Il
significato, allora, costruisce proprio questo processo di
riproposizione seriale di un riferimento, che fa sì che la cosa
significata sia tale e sia vista come tale, malgrado le contingenze
distinte. Questo processo rappresenta una molla collante per la
comunità. Ciò che istituisce, infatti, un principio di autentica
comunicazione transitiva è l’uniformità
semantica o significativa:
rispetto ad un’esperienza (ad uno stato-di-cosa vissuto) il suo
palesamento all’altro deve essere apprendibile e, affinché sia
apprendibile, deve essere comprensibile. Tale comprensibilità –
questa transizione manifestata nel prendere
con sé
– può avvenire solo se il punto di partenza sia lo stesso, se il
significato sia lo stesso. Solo se A
si
riferisce solo ed unicamente ad AB
– non BC o altro - (impenetrabilità
referenziale o referenzialità necessaria), la comunicazione
all’altro può avvenire. Anche un minimo vacillamento, una piccola
e leggera proporzione di definizione altra fa, nello spicciolo,
saltare il bando dell’accordo.
Giungere
a questo obiettivo è operazione quanto mai complessa, perché
significa istituire un oggettivo.
Per cui, conciliando le esperienze soggettive e la loro apprensione,
si arriva ad un riduzione
minima
in cui ad essere riferite
sono solo le caratteristiche essenziali e non le qualità. Questa
operazione, allora, è possibile solo attraverso la ricerca di una
volontà di incrocio, nella quale sia possibile costruire e
sviluppare un atteggiamento collaborativo, teso a raccogliere il
riferimento comune del vissuto di una cosa. Per esempio: se A
è stato sperimentato, malgrado tutte le variabili contingenti, da
ogni soggettività come BC,
questo significa
che quando si dice A
ci si riferisce – si identifica per la sua riproposizione temporale
– a BC.
Attraverso questo campo unilaterale e necessario, si fa sì che,
quando, dopo esperienza personale, si sceglie di utilizzare A, è
perché si vuol fare in modo che tutti si riferiscano e comprendano
BC
e
BC
solo.
E se l’esperienza personale non ha eguali ed è totalmente inedita,
perché altamente soggettivante?
Rappresenta,
questa, una problematica estremamente invitante ed interessante; una
problematica che va risolta chiarendo, anzitutto, due aspetti: la
comunicazione transitiva è comunicazione volontaria; il linguaggio è
un codice. La
volontarietà della comunicazione transitiva è imprescindibile per
la sua storicizzazione: è impossibile – per capirci – ammettere
la transizione del comunicato a se stesso nell’altro senza la
volontà di farlo; ossia senza
l’individuazione della necessità comunitaria quale baluardo del
regime evolutivo. Solo,
infatti, un percorso che riconosce nell’interazione con l’altro
la sua linea guida, si può ammettere l’esistenza di una
comunicazione. Per cui – e questo è nella storicizzazione, ma
anche nell’analisi dell’atto unitario – ogni singolo atto
comunicativo transitivo è voluto, ogni apertura all’altro è
voluta.
In
questa volontà – direbbe qualcuno: in questa
tensione
– si attua la codificazione del linguaggio. È proprio, come
precedentemente analizzato, nel meccanismo della referenzialità e
della sua impenetrabilità che si inscrive l’attuazione di un
codice. Un codice che non solo è segnico,
perché la parola (referente) si riferisce a ciò che esula la
materia ideale della parola (riferito); ma che è anche frutto di un
stato continuo di apprensione
trasferita,
che è possibile nella stragrande maggioranza delle circostanze. Un
simile trasferimento, infatti, è possibile sempre alla luce di
un’azione pedagogica; ossia di un lavoro, fin dalla più tenera
età, teso alla costruzione di un lessico
che, in soldoni, altro non è che la sommatoria di referenti con il
loro riferito sott’acqua. Il dizionario, allora, altro non è che
la Charta
(con tutta la carica legislativa possibile) che sancisce una volta e
per tutte l’uniformità segnica di cui ogni ente è dotato. Quindi:
ogni io
trasmittente,
attraverso, nel nostro caso, il linguaggio della parola (perché
esistono altri linguaggi – vedi: suono, disegno, mani – che
seguono la stessa costruzione codificante, pur con segni distinti),
comunica all’altro in modo che quest’ultimo possa apprendere in
un solo modo possibile; ed ogni io
ricevente
apprende esattamente (nel solo modo possibile) ciò che gli è
trasmesso. Fin qui, tutto pare regolare. E perché è regolare?
Perché si tratta di parola
e di parola
quotidiana!
Tale precisazione significa che l’io abbia totalmente preso
coscienza di uno specifico stato-di-cosa, al punto da tradurlo entro
un codice che possa filtrare, perdendo di qualche vivacità, lo
stato di coscienza reattivo in uno stato di coscienza reattivo
trasferito all’oggetto (all’altro); e che lo stato-di-cosa sia
stato sperimentato o in maniera identica o in maniera altamente
somigliante dall’altro, al punto che questi – aldilà del
linguaggio – possa interiorizzare pienamente ciò che gli è stato
comunicato. E se questo non dovesse avvenire?
Quando
si parla di compartimento strettamente emotivo o di ipersensibilità
soggettivante
si fa riferimento, senza peccare di immodestia, ad uno stato
personalissimo. Uno stato nel quale il palesamento o la
comunicazione, con tutte le difficoltà del caso, può e riesce ad
essere solo
ed unicamente intransitivo.
Questo – precisiamo – avviene su due gradi fisiologici ed
eziologici distinti: grado
estemporaneo e
grado
latente.
Il
grado estemporaneo è il grado estetico nella sua forma più
elementare: tutto
ciò che è pertinente la reazione al contenuto di una percezione.
Tocco una tazza bollente, per mio istinto allontano la mano.
L’istinto esemplifica proprio il grado estemporaneo: la sensazione
di dolore (sensazione fisica), che prevarica la sua comunicazione
all’altro, implica una reclusione intransitiva; ossia un
palesamento del tutto concluso in se stesso ed estemporaneo (quindi
immediato). La sua comunicazione all’altro è solo successiva e
dopo che l’intero atto è stato metabolizzato. Banalmente: penso
prima a spostare la mano dalla tazza calda e poi dico al mio amico
che, essendo bollente, ho provato dolore, tanto da spostare
all’istante la mano. Il grado latente, invece, si predispone in
tutt’altra pasta e radicalizza la comunicazione strettamente
intransitiva. Questo radicalizzarsi emerge, tuttavia, in maniera
ancora più fragorosa perché indipendente dalla conformazione
temporale. Quando lo si riscontra? Nella poesia – per esempio. E
come? Questo sarà materia del prossimo articolo!
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