(Redazione) - Parola Eretica - 04 - “Angelus Novus” (La violenza della Storia nella poesia di Raffaele Floris)
di Gabriela Fantato
Walter Benjamin: un grande pensatore, il filosofo che meglio di tutti incarna la modernità, i suoi lati oscuri, le problematiche ad essa connessa e le sue tensioni. Anche la sua formazione, il suo pensiero politico sono fuori dalle mode del tempo: Benjamin era un pensatore “eretico”. Critico della società dei consumi, non risparmiò attacchi duri al potere sovietico, al quale non si allineò mai del tutto, seppure di scuola marxista, praticò un marxismo riletto attraverso suggestioni ebraiche. Persino il suo modo di scrivere era sui generis, di fatto i suoi saggi sono a frammenti, come intuizioni emerse dal flusso cogente del logos e, in questo, lontani da ogni tentativo sistematico di trattazione esauriente, il che lo colloca fuori da determinati ambiti del pensiero filosofico. Benjamin è vicino alla poesia in questo suo procedere per intuizioni e immagini. Per riflettere sul rapporto tra la storia e la poesia, dunque, partirò da una nota intuizione del grande pensatore, svolta a partire dal famosissimo Angelus Novus, il quadro di Paul Klee:
«C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal Paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.»
Così annotava Benjamin, superando di fatto ogni concezione ottimistica e positivistica della Storia come progresso, negando anche la visione della storia del marxismo, anch’essa collegata a un’ipotesi del divenire in senso positivo, ma in tale concezione il filosofo supera anche una qualsiasi lettura religiosa della Storia che cerchi il suo procedere verso il Bene.
Il grande filosofo tedesco ci suggerisce un’intuizione che ha al centro una visione poetica: nel flusso della Storia domina la potenza di una tempesta che travolge l’angelo dipinto da Klee, ma travolge anche noi tutti, con la nostra umana presunzione di dominio e controllo. Concezione senz’altro pessimistica, anche fatalistica, che trovo per presente in parte anche nella poesia di Raffaele
Floris,
in tutti i suoi libri, ma in particolare nell’ultimo La
macchina del tempo
(Puntoacapo,
2022). In questa nuova raccolta, Floris rivolge attenzione al mondo
al mondo
dei dimenticati
dalla Storia scritta sui libri, dando voce a chi è
senza parola,
a tutti coloro che sono travolti e disegnando di fatto in versi una
«geografia del dolore», come annota acutamente Ivan Fedeli in
prefazione. Non resta traccia della loro vita, ma molti testi in
questo libro certamente aiutano a “non dimenticare”, proprio
rimettendo in scena le tragedie e lo strazio presenti di tante parti
del mondo. Ci sono testi che fermano un gesto, uno sguardo, un volto
al centro di una strage al mercato, altri dove si dà voce al dolore
per la violenza subita da bambini e donne. Per esempio, c’è un
testo intenso e drammatico su Damasco
#Damasco (2017)
La bimba alza la testa e guarda il cielo
sola, nel labirinto degli androni,
gli occhi disposti a immaginare un mondo
senza fragore. Ondeggiano le case
sventrate dall’ingiuria del mortaio.
Quanti sogni sepolti quante vite
sotto scacco, quanti cieli perduti
sulla via di Damasco, ora Via Crucis.
In
un altro, leggiamo come il rumore delle armi si confonde alle parole
di una invocazione o quasi a una preghiera, mentre una donna sogna
per i suoi figli un essere altrove:
#Gwoza (2014)
La campagna si è arresa al crepitio
furioso dei kalashnikov. Le giacche
mimetiche la kefiah, Allah u Akbar,
sbucano dai cespugli, sulle piste
di terra battuta. Gwoza è una preda
braccata. C’è una donna sull’abisso:
ha sognato i suoi figli in un altrove
possibile, ma sa che non c’è scampo
a quello strazio assurdo, a quel dolore.
In
tutto il libro vediamo dominare il Male
nella Storia:
soprusi, stragi violenze dominano, è “la macchina del tempo” in
atto, così che tutto viene travolto, restano segni enigmatici, lievi
ombre da intuire attraverso lo sguardo attento della poesia, ma
nessuno vuole ascoltare. Così che emerge una sorta di inappartenenza
al mondo ed è
come
se il poeta volesse mostrarci la sua condizione di estraneità alla
Storia stessa: ogni vivente viene frantumato e violato dal flusso del
divenire, tutto si ripete identico nel Male e in più mancano
“radici” e anche dei punti di riferimento: non c’è direzione,
né memoria. Sicuramente la Storia passata non insegna, ma travolge
con la sua violenza, scrive nei suoi testi Floris, e di fronte al
tragico svanire dei viventi resistono solo gli oggetti tangibili,
come il muro, per esempio, che resisterà nel tempo oltre l’umana
sparizione.
Nei
testi di Floris si scorge davvero quel vento
di tempesta della
Storia che è la forza dipinta da Klee che travolge l’Angelo e che
ha sottolineato Benjamin! Certo, c’è grande commozione del poeta,
ma anche sempre una presa d’atto che questo “massacro” è il
divenire stesso della storia, dove il Bene e la Giustizia sono
promesse mai realizzate. Ogni tanto il poeta ci lascia una speranza:
il bagliore di un attimo nell’immane passare, come il colore di un
fiore, il brillio delle lucciole o la fragranza di arance sulla
stufa: attimi di una bellezza minima e improvvisa, che si sporge …
e resta negli occhi. Una bellezza che regala una gioia fragile, tale
da dar senso, forse in parte, ai giorni e così proteggerci dal
dolore che potrebbe sommergerci.
In
tutto l’accadere della Storia sono il silenzio e la penombra che
mancano, ma Floris sa che è impossibile, rallentare la corsa del
tempo, impossibile e, quindi, la figura del pipistrello emerge da un
testo e ci appare emblema del poeta stesso: entrambi “reietti”
della Storia, entrambi esuli ovunque e allontanati, entrambi amanti
dei segreti celati nell’ombra e della vita dei dimenticati.
Pipistrelli
Accade di rimpiangere le lucciole,
stelle cadenti dei nostri cortili,
ma i pipistrelli, araldi del sapere
notturno, disconoscono il tragitto
del tempo. Smemorati rabdomanti,
apolidi negletti – ricusati
dai portici cadenti, dagli anfratti
scoscesi dei tuguri, delle grotte –
non trovano scandaglio nella luce.
Reietti, si sottraggono al ludibrio
di questo tempo ostile alla penombra.
Per questo si rimpiangono le lucciole.
Un intenso ritorno all'immaginario di Klee e alla filosofia di Benjamin, un ritorno alle ricerche del senso della storia. Grazie Gabriela Fantato.
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