Dieci poesie inedite di Francesco D'Angiò

 

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L'equilibrio degli scarti

Se fossi il tuo ventre in attesa,
aspetterei la piegatura delle primule
prima di attraversare il deserto,
e c'è stato un tempo dove le madri
alla ruota, facevano la preghiera
con i piedi bagnati nel sangue rotto,
ora però la vista si è affievolita
e di notte cerca forza nei pezzi di ferro
poggiati sul cuscino, e non farci caso
se ti sei già perso tra queste parole,
a volte la notte più lunga passa
come il viaggio da fermo
con il posto davanti al finestrino.
Pensa, c'è chi ha visto la ruggine
ballare con il ferro più esperto,
e noi al di fuori nel silenzio
viviamo l'equilibrio degli scarti.
Oggi non scriverò nulla
e non dovrai riconoscermi.

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Ad Alda e le altre

La coerenza della sua assenza
è nell'indole dei giardini dei vecchi manicomi,
ben curati a trattenere nei tre gradini finali
l'odore di candeggina senza sangue,
ed è la stessa che trovi
nei corpi forgiati con i teli di lino
che restano affissi alle pareti
più a lungo dell'alone giallo,
così è la coerenza delle gambe aperte
di chi espelle flebo di memoria.
Il pensiero più inferocito
non è nella sua assenza,
così quieta quella misura che non ti danna
mentre vibra sul corpo il segno del nome dolce,
ed un cordone a forma di fiore in gola
ci spia nei gemiti che si vorrebbe donare di vita.
Non si prega mai nel primo pomeriggio
dopo aver legato i lacci al ferro arrugginito,
e per coerenza si conserva il cucchiaio della minestra
sotto il cuscino.

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L'ora d'aria

L'attesa deturpata del volto dei belli
è come la lingua muta dei poeti,
sempre sulla soglia
tra il presente e il nulla,
paziente nel forgiare l'alba
di un universo sbrigativo
nelle sue pendenze.
Tra noi e la recita c'è un pessimo impresario
con poca gratitudine quando ci mordiamo
i dispiaceri con consumata maestria.
Basterebbe spogliarsi dall'asfissia
del già tutto previsto,
ignoto come la regola del retro delle cose,
e frequentare poco il bel giardino
orlato di sterpi
per guarire ammalandosi di comprensione,
per aspettare maggio e la sua piaga
del buono per diletto, solitario nostro
a specchio d'acqua che sembrano liquami,
ma sono solo secchi rami di compagnia
all'ora d'aria,
la prigione è fuori.

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Il padre di mio figlio

Il padre di mio figlio non ha
una madre
ma una piccola statua di gesso
con una frattura all'altezza
del collo
e le mani in segno di resa.
Il padre di mio figlio quando nessuno
è sterile
smette di giocare alla miseria
e muore di solitudine solo nei giorni
pari,
in quelli dispari sa che per lui
non c'è assolutamente nulla.
Il padre di mio figlio quando chiede
la carità
ha una risata che non gli muore
mai del tutto dentro,
al padre di mio figlio hanno tolto la sedia
ma gli mancava già il suo corpo
e per questo non ha sofferto molto.
Il padre di mio figlio ha i piedi molto gonfi
ma se si sdraia e fa il morto
tutto torna normale.

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Medea

Si esce così in fretta dalla comprensione
che ti chiedi dov'è il tuo sbaglio,
al mattino una luce collega
ciò che si danneggia nel chiarore
con la carne caritatevole
dei tranelli di pazienza,
rotte quelle volontà
di cruda babele,
tu che fai la supplica solo
per chi non ti ruba la luce,
le cose stanno alla bellezza
come l'arsura allo spargimento
di sabbia.
Vedo che fa giorno quando raschiano
la terra del vangelo,
predicano la belva travestita
da sereno.



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Il lamento degli usurai


Non sono vivo, ma ditemi
voi a chi consumate le vostre
mani di pietra
quando accarezzate il vento,
l'erba incolta la taglia
lo spruzzo d'acqua che non è sorto,
bevi dai tuoi dolori
la gioia del dopo festa.
Ho visto il vuoto di ogni alba
tendere agli umiliati fecondi,
quel che avreste voluto dirvi
non può impallidire dopo la fine,
e vi siete garantiti eterno amore
scorniciando il prezzo di chi vi ama.
Si torna sfigurati da ogni poesia
se si pratica il lamento degli usurai,
tenere in vita la sofferenza altrui.

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L'odore dei tigli

È una di quelle domeniche
d'estate profonda,
non si sta più nudi alla canicola
con lo zolfo che macchia la vigna,
picchiava forte ogni cosa
il vecchio senza parole
e la fame negli occhi che bucavano
la cinta da sfilare, nemmeno lui
sta più sotto quella luna
che se fosse scesa giù, avrebbe
mangiato anche quella.
Tutto ciò che si fa di stagione
in stagione, porta sempre un inverno
che non passa, ed anche l'odore
dei tigli si capacita dei bisbigli funerari
mentre le veglie fumano nelle forme
dell'indolenza dei vinti, ripagati
dei giorni di lutto rimossi in fretta.

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A nessuna sorella a nessun fratello

Ricorrere in fretta alle ultime dolcezze
inchiodate ai capelli sprangati,
e folle sul petto scrivono in una lingua
bloccata dal vento ignaro
della velocità delle ombre obese
e cariche di un solo cervello,
per gli altri, disciolti di pioggia
spostata da una stanza all'altra,
c'è un'incontinenza tenera
a metà di ogni morte,
poi l'alba ha la febbre
con l'aria che sa di canfora
e non porta il male
mai lontano dalla stanza.

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La sua utilità

Ci scappa un arrivederci quando
non so da che parte stai,
e forse sarebbe un bene
se facessi un corso da elettricista
o da idraulico,
sai quelle cose che servono sempre
tra una poesia e l'altra, quando c'è
da tagliare l'erba
e la schiena si piega da un'altra parte.
Come le domande che ci facciamo
per non accumulare aloni nel cielo
e soffitte da scortare in ogni stanza,
perché ci siamo persi l'odio che era il bene
e tante cose che non si dicono,
ma il vero miracolo è che non esiste
il tempo, pur urtando quell'ora che scendeva
senza il riparo delle nostre menzogne.

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Il caro morire d'artista

Ciò che resta da dirci
sarà in quel che non ci resta da vivere,
non nego la gioia che avremmo visto
nella maestria del volo del nibbio,
accogliendo l'illeggibile pena dei panni
d'estate, tesi a tramare corpi sradicati.
Resta trattenere il fiato
delle vele gonfie senza approdo,
non siamo mai partiti per tornare
se non nella stanza dove accaldati
cerchiamo il desiderio di colla densa,
le mani possono non avere
una circostanza precisa nell'amore.
Saldi i giorni dissoluti
ci hanno condotto nella lontananza
dalla meta, ed il caro morire d'artista
è dentro i refettori che sanno sempre
di ultima cena, e di bacio per ognuno.

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NOTIZIE BIOBIBLIOGRAFICHE

Francesco D'Angiò è nato nel 1968 a San Vitaliano (Na). Risiede da diversi anni a Matera.
Il debutto letterario risale al 1997 grazie alla vittoria di un concorso per esordienti promosso da “Alea Editrice Bari” che prevedeva come premio la pubblicazione di un racconto.
Dopo una lunga interruzione, la narrazione riprende nell'ottobre del 2020 con la pubblicazione da parte di Planet Book, del romanzo breve “Lo sconosciuto”. Nel giugno 2021, a cura delle Edizioni Tripla EEE, viene data alle stampe la prima raccolta di versi dal titolo “Clessidre orizzontali”.
È di marzo 2022 la pubblicazione della seconda raccolta di versi, “Verranno a perderci in trionfo”, a cura della G.C.L. Edizioni, dopo essere stato finalista al “Torneo dei Poeti” prima edizione 2021.
Ad ottobre 2022 viene pubblicata anche una raccolta di due racconti dal titolo “Siamo tutti normali” Dialoghi Edizioni.
Nel 2024 ha pubblicato per G.C.L. Edizioni la raccolta poetica "L'equilibrio degli scarti", con nota critica di Alfonso Guida.
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