(Redazione) - Genere In-verso - 10 - Le Bambine. Riti ed educazione a Roma. Con lampi di presente

di David La Mantia

Cominciamo da una affermazione ovvia, lapalissiana. A Roma l’educazione era concepita in funzione
della società nella quale la futura donna si sarebbe poi inserita.
Il termine bambina a Roma era molto ambiguo, non ben definito. Lo capiamo dal fatto che nel latino c’erano più vocaboli che la individuavano: puera, puella, infantula. In ambito giuridico, prima del matrimonio, il termine usato era virgo (vergine); dopo il matrimonio, invece, era upso, uxor (moglie), oppure matrona (madre) e, quando non era più in grado di procreare, diventava anus (vecchia).
Della bambina emerge sempre una rappresentazione utilitaristica: spicca la funzione che lei sarà chiamata ad assumere a livello sociale, quella della donna. Sin dalle origini, a Roma la bambina educata a diventare una donna con ruoli e compiti tipici e ricorrenti: procreare, allevare e curare la prole. Questa Weltanshauung continua fino al ‘900, o, se vogliamo essere più feroci, al 1857, quando Flaubert pubblicò Madame Bovary, libro per cui venne processato due volte (esemplare la frase
pronunciata da Emma in riferimento al marito Charles, lo amo, lo amo, ma non sono parole che segnano uno scarto decisivo rispetto ai ruoli della donna).
La divisione tra i generi cominciava già alla nascita. Spettava al padre la decisione di accettare e accogliere il neonato in famiglia, con il solo gesto di sollevarlo da terra, oppure di abbandonarlo. Subito dopo averlo accettato, se era un maschio lo si consegnava alla levatrice, se femmina alla madre o alla nutrice. Soprattutto nelle classi economiche più basse, segnate dal disagio e molto ignoranti, se il neonato non veniva accettato (in particolare, quando il padre dubitava della sua paternità, per problemi economici, o soprattutto se c’erano difetti evidenti o malformazioni, come il labbro leporino o il piede caprino), veniva esposto. La situazione era molto diversa nelle famiglie del ceto medio, nelle quali il neonato era il frutto di una pianificazione familiare, dettata da metodi contraccettivi oppure aborto. Da questo punto di vista, nulla è cambiato.
Il livello economico era decisivo in ogni fase. Se un bambino moriva, la matrona piangeva senza lacrime perché il suo pianto aveva un valore civico/educativo, mentre la donna di basso ceto, come una prefica qualsiasi, si gettava per terra ed urlava, manifestando dolore con le lacrime, offrendo a chi stava intorno la sua sofferenza soda. Il padre invece era molto meno coinvolto. Il lutto veniva anche stabilito in base all’età della morte del figlio: se il bambino aveva tra i 0 e i 3 anni, non c’erano riti funebri. Dopo i tre anni, il lutto aveva la durata di un mese per ogni anno di vita del figlio (fino a un massimo di 10 mesi). La sepoltura avveniva per cremazione e nei neonati, senza ancora denti, la sepoltura avveniva di notte con le fiaccole. 
Sulla relazione padre-figlia non abbiamo molte notizie. Abbiamo una scarsa documentazione. Di certo il
capofamiglia non era molto interessato all’educazione delle femmine e persino alla loro presenza all'interno del nucleo familiare. Di certo, con il loro crescere, sia il legame che le occasioni di incontro si facevano più rade. Di certo, non c'erano abbracci, non c'era contatto fisico, perché gli incesti erano frequenti e certe manifestazioni di calore potevano anche essere scambiate o percepite in modo
sbagliato. La scuola per le femmine è un capitolo a parte. Probabilmente, in prima battuta, non esistevano grandi discriminazioni a livello di istruzione elementare,  per il sesso,  per lo status. Di solito c’erano i liberalia” per le bambine e i bambini di ceti alti, i “servilia opera” per gli adolescenti/giovani di entrambi i sessi di estrazione plebea e servile: essi consistevano in esercizi, tecniche e lavori all’interno della famiglia, nell’ambito dei convivi o nell’intrattenimento privato dei patrizi. Infine c’era la “scuola di grammatica” (studi superiori), riservata ai ragazzi di ottimo ceto. Ecco, qui si creava uno scarto di genere, perché da questo erano escluse tutte le ragazze e anche i ragazzi di ceto modesto. A volte, alle donne delle famiglie agiate/colte era data la possibilità di continuare gli studi con maestri privati in casa. 
Di certo, la donna istruita era sentita come un pericolo, in modo ostile. Si pensi a certi ritratti sallustiani,
alle lettere di Seneca, ad alcuni sketch di Terenzio. Ma soprattutto alla satira contro le donne di uno dei
più feroci maschilisti, Giovenale. Per tutte le altre ragazze, in genere, l’istruzione finiva verso i 12 anni e la formazione era completata in casa attraverso l’educazione data dalla madre, la quale la instradava a
diventare brava moglie e madre. Le madri, addirittura, davano informazione alle figlie su come comportarsi la prima notte di nozze, visto che ci si sposava appena dopo il menarca, il primo flusso mestruale, tra gli 11 e i 14 anni. L'intento era quello di finalizzare tutto al soddisfacimento del marito, non al proprio. 
L’intento educativo nei confronti delle donne, a Roma, è quello di esaltare la capacità di ignorare o superare il dolore e di disprezzare il corpo, di liberarsi in maniera precoce del piacere e della carne: le immagini della sofferenza vengono proposte alle bambine fin da piccole per indirizzarle a credere che la sofferenza sia una via di salvezza. Già allora, e per gran parte del medioevo, le bambine venivano educate anche al controllo del comportamento visivo: lo sguardo non doveva essere invadente e aggressivo (elementi che potevano compromettere la memoria, la capacità di giudizio( sempre limitata nelle donne persino in una mente aperta come quella di Quintiliano), i saperi, i sentimenti, la salute e anche la verginità, ma doveva essere attento: non spostare le pupille troppo in altro o troppo in basso, ma mantenerle in posizione diritta, senza incrociare le proprie pupille con quelle di altre persone e senza inclinare la testa in avanti. 
Lo scandalo più temuto in famiglia è quello di una condotta immorale della figlia: le famiglie non temevano per i comportamenti dei giovani maschi, ma la minima imprudenza delle ragazze era un disonore e offesa per i genitori ed i parenti stretti. Erano i padri a procedere alla condanna, chiudendo le ragazze in una stanza e facendole morire di inedia.
L’impulsività tradizionalmente attribuita alle femmine era colpa gravissima. Le ragazze disobbedienti, che in epoca successiva verranno indirizzate al manicomio, venivano accusate persino della morte delle loro madri se non si comportavano nella maniera prevista. Allo stesso tempo, le madri venivano incolpate di non essere state in grado di educare bene le figlie e potevano essere ripudiate. In ultima analisi, l'educazione, come in altre epoche, si poneva come strumento di controllo sociale e culturale, come barriera tra i generi e soprattutto come diga rispetto alla possibilità di un ascensore sociale.
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BIBLIOGRAFIA
1- Eva Cantarella, Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi, Collana Varia, Milano, Feltrinelli, 2017
2- Vari siti sull'educazione dei bambini ed in particolare delle bambine
3- Eva Cantarella, Le donne e la città. Per una storia della condizione femminile, New Press, 2019
4- Eva Cantarella, Contro Antigone o dell'egoismo sociale, Collana Stile Libero Extra, Torino, Einaudi, 2024.
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