(Redazione) - Fatuari - 03 - Dondolii e smembramenti
di Diego Riccobene
Apancoméne
era l’epiteto arcaico attribuito a un mito legato alla sfera di
Dioniso e Arianna.
La
fanciulla Erigone, «colei che è nata all’alba», creduta
epigonale della Signora del Labirinto presso l’isola rocciosa di
Ikarion, era figlia di Icario/Iacchus (anche lui alter-ego: di Bacco,
naturalmente). Costui portò il dono del vino presso quelle
selvatiche contrade e in segno di gratitudine i pastori autoctoni,
dopo aver libato il delizioso liquore e caduti nell’ebbrezza più
detrimentosa, lo uccisero selvaggiamente e lo seppellirono. Una delle
narrazioni eziologiche che riguardano la diffusione della vite in
terra ellenica riporta il curioso fatto che la prima pianta di
siffatta genìa fosse nata dal tumulo del dio. La sventurata
fanciulla sua figlia, accompagnata dalla cagna Maira (o anche, nel
corrispettivo maschile, Sirio) trova il cadavere del padre dopo una
lunga erranza e, prostrata dal dolore della perdita, secondo una
sinistra versione della vicenda si impicca all’albero cresciuto
sopra il cadavere di Icario stesso.1
Le
vergini di Atene celebrano questa ricorrenza durante il Giorno delle
Brocche, quando, così si tramanda, alcune di esse si lasciano
trascinare da un ipnotico dondolio sopra sedili sospesi per aria (le
“feste delle altalene”, Αἰώρα), fabbricati ritualmente da
ramaglie e foglie intrecciate: per rammentare l’evento luttuoso del
suicidio in illo
tempore simulano
l’oscillante movimento del cadavere avvinto tra i ceppi della
vegetazione e ormai privo del soffio vitale.2
Ancor più perturbante il seguente contributo di Igino:
cum
in finibus Athheniensium multae virgines sine causa suspendio sibi
mortem consciscerent, quod Erigone fuerat praecata, ut eodem leto
filiae Atheniensium adficerentur
(Iginio, Astronomica,
II, 4)
Esso
fa risalire la consuetudine simulativa a una leggenda per cui le
ragazze ateniesi fossero spinte a praticare auto-impiccagione,
novelle Erigoni esercitanti il ruolo di pharmakós nell’espiazione
di una morte archetipica.
Ragazza che si dondola spinta da un Sileno. Berlino, Staatliche Museum |
Come
che fosse, interpretiamo il dondolio in qualità di atto magico,
purificante. In primo luogo, la vicenda della fanciulla in cerca
dell’amato (padre o consorte) e che vede la querente essere
condotta al ritrovamento del corpo ormai scomposto da un velle
violento e mortuario, rievoca la sorte di Osiride e la disperata
cerca di Iside, protagonista di un rito misterico di ricomposizione
del cadavere tagliato in quattordici parti da Seth/Tifone: «per ogni
pezzo che Iside riusciva a ritrovare [...] costruiva una tomba. [...]
L’unica parte che non riuscì a trovare fu il membro virile».3
E così gliene fabbrica uno, e lo consacra.4
Si noti questo grazioso particolare precedente allo smembramento: la
dea, rinvenendo la bara dentro la quale Osiride era stato rinchiuso,
scopre che essa è stata avvolta da una fioritura meravigliosa di
erica, la stessa che sembra essere uno degli elementi costitutivi dei
sedili rituali atti al dondolio virginale.
Non
può quindi essere casuale che Erigone assuma aspetti della Grande
Dea cui in seguito sarà associato il culto di Artemide e, per
assimilazione, quello lunare. L’altalena oscilla,
ed è il suo pendere in uno stato di perpetuata alterità nei
confronti di sé stessa5
a violare in primis il senso della soglia imposta dall’atto
mimetico, quella che Aristotele risolverebbe pure col termine
“etico”; per quanto la Poetica
ragioni intorno ai modi con cui si imita, affermando che i poeti
«imitano uomini che agiscono ed è necessario che essi siano persone
nobili o spregevoli [...] imiteranno uomini migliori dell’ordinario
o peggiori» (Aristotele, Poetica, [1448a].6
Quindi verifichiamo un passaggio in linea fratturata o modulata, non
retta.
Nondimeno
si incorre in una condizione di sospensione estatica, che contempla
la possibilità di vedere
e com-muove verso un percetto di interiorità ben più fonda di
quella che abitualmente chiamiamo sentimento.
Tornando ad Aristotele, questo senso conosce, nella sua accezione di
terrore frammisto a sorpresa e pietà, una definizione ben precisa,
che è ἀναγνώρισις7,
riconoscimento,
ed è in tutto simile alla reazione manifestata dalla figlia di
Iacchus al cospetto della violenta agnizione della sorte del padre,
ovvero a quella prostrata e lagrimosa di Iside presso la bara del
marito. Si figuri, adesso, il movimento tipico dei fanciulli sospesi
nell’atto ondulatorio dell’altalena: essi, ciclicamente, si
avvicinano al basso e all’alto, agli astri e alle sfere inferiori,
nel decorrere della traiettoria: non è questa esattamente la movenza
di qualsiasi percorso iniziatico intrapreso dalle divinità
fondatrici? Alto, basso, alto; vita, morte, riconoscimento,
rigenerazione.
È
Ermes-Thot a rammentare – nuovamente qui cito parole di Plutarco –
che «la natura compie la creazione del cosmo proprio attraverso i
mutamenti qualitativi che la sua tensione verso l’intelligibile
reca con sé».8
Credo allora che l’impiccagione possa dirsi moto costitutivo e non
meramente oblatorio dell’esistenza, una sorta di vortex temporis
atto a diramare il Caos, di cui Tifone è abissale esponente, dato il
ramo genealogico che esiodicamente lo congiunge a Τάρταρος,
il katachthònio.
Il
Libro dei Morti riporta la seguente formula per impedire che sia
tagliata la testa a un uomo sceso nel regno delle ombre:
Non
sarà tolta la testa a Osiri, non sarà tolta la testa a me da parte
di Osiri-Unnefer, giustificato. Io sono ricostituito, io sono in
ordine, io sono [rinnovato], io sono ringiovanito. (Libro dei morti,
1794 – Cap. 43)9
Il
processo di ri-formazione del sé avviene tramite lo smembramento e
la ricostituzione delle singole parti, che pertiene allo stato
liminare della coscienza e dell’essere intesi come geometria
arcana, solo dopo aver seppellito, e lo ripete ancora Thot nella sua
ineludibile forma di officiante super partes, quanto rimanga di
materia sensibile, che è terrigena e vige ai confini della sostanza
aerea degli astri, ma che risulta ineludibile; d’altro canto,
sarebbe presupposto artificioso e fallibile assimilare il sé qui
presente con l’ego
occidentale e contemporaneo, quello che catastroficamente abitua a
rifugiare le piaghe del vissuto sotto bende scempie e intrise di
lirismo – forse a scopo di lenimento, certamente per ottenerne una
qualsivoglia contezza sformata dalla lente patetica del riconoscersi.
Bisognerà
essere consapevoli che la costruzione cosmica dello scorrere del
tempo è segnata da fortune alterne: il punto più basso è l’inizio
dell’ascesa, e il punto più alto è l’inizio della discesa: come
le Aiora, laddove la discesa è, per forza, un approdo nel reame
infero, oltre le acque non salate che scorrono per regioni ombrose.
Agnoscere
quella morte necessaria.
Plutarco,
nella sua sete didascalicamente infinita di aneddoti sincretici, si
prodiga nel racconto, non confermato tuttavia da fonti a lui
precedenti, che Ermes-Thot «abbia adattato i nervi estratti dal
corpo di Tifone all’uso di corde musicali».10
La corda è vibrante, oscillante
per sua precipua funzione, mezzo che crea lo straniamento sensoriale
iniziatico nell’operare il passaggio soglia a soglia di cui sopra:
«la ragione creò l’universo risolvendo in quest’accordo le
discordanze tra le singole parti».11
La musica può scaturire dalla coincidentia
oppositorum, pensando
alle argomentazioni esposte da Erissimaco nel Simposio,12
non estranee altresì alla dottrina ermetico/alchemica di
trasmutazione. Invero, un mito egizio risalente all’Antico Regno,
che coinvolge rispettivamente figlio e necator di Osiride, così
racconta: «Avvenne che si posero giunco e papiro ai due piloni della
casa di Ptah: sono Horo e Seth che si pacificano e si congiungono,
perché si sono affratellati e così la loro lotta, nel luogo in cui
essi si recarono; essi si sono riuniti della casa di Ptah, la
Bilancia delle due
terre».13
Ermes
costruirebbe dunque la lira, sotto l’ascendenza di Libra, e
produrrebbe armonia dal dondolio avvenuto in seguito a uno
smembramento. La stessa lira che è oggi strumento maneggiato per lo
più infondatamente da chi ama circondare di soffice velame la
propria vanità autoriferita.
Non
è forse che si debba essere pronti sempre, in ogni luogo,
all’impiccagione? A battere il colpo sulla disperata wasteland
post-moderna in cui è invece la donna dai lunghi capelli neri che
tira il proprio crine per arpeggiarlo, mentre pipistrelli-bimbi
illuminati di viola la incorniciano strisciando?14
A farsi apancoménai come ebbe in animo d’essere Erigone, nel
momento in cui il cadavere scomposto della consapevolezza sia dato in
mani testimoni e concupiscenti – a patto che queste stesse siano
dotate di una bastevole affezione verso la doppia natura, alta e
bassa, di cui il vivente si pasce?
Ogni
volta che percepisco all’interno di qualsivoglia forma d’arte
quel pronome imputridito, IO, ricordo (ossia, “riporto al cuore”)
che le cose chiedono d’essere sotterrate dopo averle scalfite con
la lama esperienziale, perché non c’è modo di salire senza
percorrere una traiettoria in qualche natura inversa, catabatica: e
che ogni laccio, ogni corda, ogni nervo, deve essere diviso e
tagliato prima della sua ricostruzione in forma elevata. Alto e
basso.
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NOTE
1
K. Kerény, Dioniso, Adelphi, Milano, 1992, p. 155.
2
Ibid.
3
Plutarco, Iside e Osiride, nella trad. di Marina Cavalli,
Adelphi, 1985, Milano, pp. 73-74.
4
Ibid., p. 74.
5
Riprendendo un argomento già in parte trattato in sedi precedenti,
è impossibile non cogliere particolarità affini col secondo
rituale iniziatico del germanico Wotan-Odino, che, nel tentativo di
impossessarsi della sapienza delle rune per trasmetterle al creato,
si impicca per nove giorni e nove lune all’Yggdrasill: un dio che
sacrifica sé stesso a sé stesso.
6
Aristotele, Poetica, trad. di D. Pesce, Bompiani, Milano,
2017, p. 55.
7
Ibid., p. 97, [1454 b].
8
Plutarco, Iside e Osiride, op. cit., p. 120.
9
Libro dei Morti, a cura di G Rosati, Paideia editrice,
Brescia, 1991, p. 76.
10
Plutarco, Iside e Osiride, op. cit., p. 120.
11
Ibid., p. 120.
12
In particolare nel passo si legge: «... e conservarsi il loro
amore, che è poi quello bello, quello celeste, l’amore di
Afrodite Urania; quello di Polimnia invece è l’amore pandemio,
volgare, che bisogna concedere con prudenza a coloro ai quali lo si
offre [...] E così nella musica, nella medicina, e in tutto il
resto, sia nelle cose umane come in quelle divine, occorre tenere
presenti, per quanto possibile, l’uno e l’atro Amore, dovunque
contenuti entrambi». (Platone, Simposio, 187 a-f, trad. di
N. Marziano).
13
Letteratura e poesia dell’Antico Egitto, a cura di E.
Bresciani, Einaudi, Torino, 1969, p. 17.
14
Cfr. T. S. Eliot. La terra desolata, V, 379-380.
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