(Redazione) - Parola eretica - 05 - "Realismo intensivo", la poesia di Gianfranco Isetta
di Gabriela Fantato
Ho il mento rivolto all’insù
seguiranno gli occhi
che si levano sempre
come appigli posticci
appoggiati sul viso
e, per vincere il vuoto,
stupiti da un barlume
di luci accese, indizi
per rintracciare un barco.
L’arcobaleno forse
Dovremmo interpretarlo quel tramonto
tra versanti riposti nella nebbia
per conquistarne il senso e l’intenzione
saper cogliere la sua apparenza
come rovescio di strana bellezza
che si interpone al sorgere del sole.
E si propone negli occhi l’ebbrezza
contro il bagliore regale di un cielo
a scivolare intento dietro un monte
seguiranno gli occhi
che si levano sempre
come appigli posticci
appoggiati sul viso
e, per vincere il vuoto,
stupiti da un barlume
di luci accese, indizi
per rintracciare un barco.
L’arcobaleno forse
La
poesia nasce dall’immaginazione? Oppure dai ricordi, dalle
esperienze di vita, dal contatto con la realtà? Difficile dirlo,
probabilmente in ogni testo si intrecciano questi elementi, ma
personalmente ritengo che dall’esperienza, quindi, dall’incontro
che ha anche scontro con il mondo scaturisca la migliore poesia,
nutrita da una forte capacità intuitiva e rielaborativa, come nel
caso di Gianfranco Isetta, come si vede in tutto il suo lavoro
poetico, ma in particolare nell’ultimo libro, L’acerbo
dei ricordi
(La Vita Felice, 2023) che è un’ opera che riconferma come la
parola poetica di questo autore scaturisca dall’intreccio
tra
i dati forniti dai sensi, l’intuizione improvvisa e il lavorìo di
costruzione per dare forma alla parola. È utile citare anche un
esergo del libro che ci fa pensare, in quanto si tratta di una frase
di Richard Feynman, autorevole studioso di fisica quantistica:
«Quelli che definiamo paradossi quantistici sono solo un conflitto
tra la realtà e il modo in cui pensiamo che debba essere», come a
dire che per il poeta di Castelnuovo Scrivia, come per il noto
fisico, è importantissimo superare i pregiudizi e le conoscenze date
per scontate ed è necessario anche scorgere ciò che va al di là
dell’evidenza immediata e che appartiene al reale, in quanto
elemento minuscolo che abita la materia, come è stato svelato dalla
fisica quantistica. Poiché il poeta non è uno scienziato, usa
l’intuizione e a seguire un lento lavorìo interpretativo, come
leggiamo in Interpretazione
del tramonto:
tra versanti riposti nella nebbia
per conquistarne il senso e l’intenzione
saper cogliere la sua apparenza
come rovescio di strana bellezza
che si interpone al sorgere del sole.
E si propone negli occhi l’ebbrezza
contro il bagliore regale di un cielo
a scivolare intento dietro un monte
e che vuole cambiare di ora in ora.
Le nostre mani aperte a risalire
la curva concava dell’orizzonte.
Le nostre mani aperte a risalire
la curva concava dell’orizzonte.
Il
poeta si pone di fronte alla realtà con totale
apertura,
senza posizioni psicologiche e senza pregiudizi, quindi, accetta
“l’incontro” con la realtà per coglierla e intuirne il
movimento interno, il divenire possibile. L’opera di Isetta,
proprio per come si offre a noi, ci obbliga a interrogarci sul
significato profondo di ciò che è scritto e, via via che ci si
inoltra nella raccolta, ci rendiamo conto che è difficile poterlo
collocare in un ambito preciso o in una poetica precostituita. Non si
tratta infatti di poesie di realismo
mimetico,
perché qui non si cerca di riprodurre la realtà con sguardo
oggettivo e distaccato, ma nemmeno si legge un intimismo
con elementi di scavo interiore, né tantomeno c’è una
sperimentazione
linguistica
nelle modalità che siamo abituati a trovare in certi testi della
Neoavanguardia. Ritengo, infatti, che questo autore possa rientrare
in una poetica specifica che ho delineato già tanti anni fa, in un
lavoro critico sulla poesia, realizzato da un ampio gruppo di autori,
dal titolo
Sotto la superficie
– Letture
di poeti italiani contemporanei (1970-2004),
Bocca edizioni, 2004. Si trattava di un’intuizione che ho più
volte ripreso anche negli editoriali della rivista da me ideata e
diretta per oltre dieci anni “La Mosca di Milano”. Che cosa
intendo con realismo
intensivo?
Credo
che ci siano poeti, come Isetta e altri di cui ho scritto, che
entrano in relazione con la realtà in un “rapporto chiasmatico”,
direbbe il filosofo Merleau-Ponty, e così superano la dicotomia tra
Soggetto e mondo, per cui si costituisce una parola
nuova
di poesia capace di esprimere la relazione
attiva
tra Io e mondo. Infatti, il poeta non solo entra in relazione coi
dati concreti, ma da questi è mosso e coinvolto, grazie ad un’acuta
percezione riesce a intuire le linee di sviluppo, le potenzialità
interne del reale e il minuscolo che abita ogni dato concreto e ogni
evento, cogliendo così l’invisibile
nel visibile,
direi, parafrasando ancora Merelau-Ponty, senza però attribuire a
ciò alcuna aurea misterica o intimistica. Il realismo
intensivo
che scorgo in certi poeti, quindi, è un
intreccio
di Io e mondo, così che entrambi si modificano reciprocamente, tanto
che la parola poetica è frutto di esperienza, intuizione, memoria,
rielaborazione e visione. Questa mia ipotesi, nel caso della ricerca
poetica di Isetta, trova conferma anche per il fatto che il poeta ha
alcuni interlocutori di stampo scientifico, come si coglie appunto
nella citazione già riportata, unita a una grande curiosità
che va a ricercare il senso profondo del reale, là dove lo sguardo
non lo coglie immediatamente.
La
poesia per Isetta è una via
di conoscenza,
una scoperta,
possibile grazie a un’acuta sensibilità che solleva il “velo di
Maya”, potremmo dire, aprendo la strada all’intuizione
dell’invisibile. Occorre aggiungere un altro elemento che accomuna
poesia e filosofia: pensiamo ad Aristotele, che poneva alla base del
sapere filosofico la meraviglia
e, infatti, lo sguardo di Gianfranco Isetta è colmo di quello
stupore
che è proprio dei fanciulli e che è la stessa meraviglia
che
guida il filosofo verso la conoscenza. Aggiungo infine che il poeta
di Castelnovo Scrivia ha un grande amore (anzi, una vera passione!)
per il mostrarsi della vita in tutte le sue forme, il che gli
permette di intuire il legame armonioso
e complesso
che unisce ogni fatto agli altri e che li stringe insieme in un
Tutto, unione armonica della del mondo, creando un equilibrio “sacro,
e che noi umani dovremmo saper scorgere e proteggere, pare volerci
dire Isetta, come leggiamo in Corde
semplici:
« Ho bisogno/ di corde semplici / per trattenere il sacro / e i
suoni dell’inverno / con l’artificio delle dita // anche del
pianto / silenzioso della neve / per estrarne un brillìo /
inaspettato / che mi regali / un transito felice / con ali di
sapienza / nell’aria generosa».
Non
posso evitare di sottolineare il labor
limae che
l’autore attua nella sua ricerca linguistica, infatti possiamo
notare come i termini vengano distillati con assoluta cura, anche al
fine di realizzare spesso nei testi una metrica di endecasillabi e
settenari, secondo la più autorevole tradizione italiana: ogni
termine viene scelto per nominare con esattezza il pensiero o
l’esperienza dell’autore che ama la precisione del dettato
poetico, come leggiamo in Leviga
il verso,
un testo che appare come una dichiarazione di poetica: «Goccia su
goccia / leviga il verso/ che ne trattiene il suono// a consumarne
l’ansia / di liberarsi in volo sino / alla nudità della parola».
Numerose sono le riflessioni attorno al ruolo della parola in questo
libro, proprio per il continuo lavorìo sulla lingua che caratterizza
questo poeta e cito Si
svela alla parola:
«Si svela al giorno / quella parola incisa / sulla pietra / da una
nuova luce // e anche il suono, / che ora la pronuncia, / su quella
nota incerta / segnala un cielo / appena aperto che già si
discolora. // (o forse è l’avvio di un canto / che culla la
sera?).». La poesia di Gianfranco Isetta non è semplice, seppure si
offra alla lettura in un’apparente immediatezza: è proprio vero
che la complessità sta nella semplicità ottenuta come risultato di
un esercizio di sottrazione e di intensificazione di termini e
immagine, come nel caso dei versi di Gianfranco Isetta.
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