(Redazione) - Voci dall'Umanesimo-Rinascimento - 01 - CON IACOPO SANNAZARO NELL’ARCADIA

 
di Gianni Antonio Palumbo

Non vi paia curioso che si sia scelto di inaugurare un nuovo percorso con la storia di un altro viaggio. È così che, per raccontarvi, senza alcuna pretesa di esaustività, momenti della storia della letteratura italiana dell’Umanesimo-Rinascimento, abbiamo scelto di partire dall’Arcadia di Iacopo Sannazaro.
Un prosimetro, inscritto nel solco di una tradizione che vedeva nella Vita Nova dantesca e nell’Ameto di Giovanni Boccaccio due tappe ineludibili. L’opera ci immerge nel mondo dall’aura sospesa di quella che geograficamente rappresentava una regione impervia della Grecia (in particolar modo del Peloponneso centrale), ma nell’immaginario poetico da Teocrito a Virgilio si trasformava in terra del canto e di sodalizi di pastori-poeti schermo all’identità di scrittori realmente esistenti. Come ha scritto Maria Corti, in questa costellazione l’autore “nell’atto in cui diviene personaggio che dice io, pastore, si fa anello fra la realtà simbolica del genere bucolico e la concretezza del suo momento storico”.
Iacopo Sannazaro operò a Napoli presso la corte aragonese in un delicato momento di trapasso. Fu figura di spicco dell’Accademia pontaniana e si distinse nella scrittura in volgare così come in latino. Arrivò addirittura a comporre, in lingua latina, egloghe aventi protagonisti non i canonici pastori, ma pescatori. Quando re Federico d’Aragona patì il tradimento del cugino Ferdinando il Cattolico e prese la via dell’esilio in Francia, Iacopo volle seguirlo, per poi tornare a Napoli dopo la morte del suo signore, nel 1504. Di lui si ricordano, tra gli altri, anche le rime e il poema De partu Virginis, un tentativo di coniugare allure e mitologia di classica matrice con la rivelazione cristiana.
A noi, però, interessa in questa sede il prosimetro noto come Arcadia. Un’opera ch’ebbe risonanza notevole a livello internazionale, per poi subire critiche considerevoli durante l’Ottocento, tra cui il celebre giudizio di Manzoni, che la definì una “scioccheria”. Anche altre forme di deminutio ebbero luogo. Tra queste la dura valutazione di Enrico Nencioni, che vide nell’Arcadiail lato sofistico del Rinascimento” a causa della “cieca idolatria del classicismo” da parte del suo autore. Proprio le ricerche di matrice filologica condotte con accurato lavoro di scavo in quel periodo rivelavano infatti come dietro immagini e numerosi versi di questo curioso testo si celassero fonti ben precise, rimodulate secondo le modalità più care al laboratorio sannazariano.
Noi percepiamo chiaramente la bellezza di quest’opera, fiore del temps jadis, struggente se la si sa leggere in profondità. Scritto dallo strano destino, fra l’altro: nacquero prima alcune egloghe spicciolate, attorno alle quali si agglutinarono il prologo, le dieci prose e altre egloghe sino a un numero sempre di dieci. In un secondo momento, l’autore compose le ultime due prose, le ultime due egloghe e (forse mentre era in Francia) lo stupendo commiato A la Sampogna; l’opera raggiunse così la sua struttura definitiva. Mentre lo scrittore era in Francia ne fu pubblicata per i tipi di Bernardino da Vercelli un’edizione scorrettissima, ‘pirata’, legata alla prima redazione. Da essa discesero ulteriori stampe. Fu così che Sannazaro ne volle allestita un’altra, la prima edizione autorizzata, uscita per le cure di Pietro Summonte, del 1504, presso Sigismondo Mayr.
Sin dall’incipit, che fu riecheggiato da Machiavelli nel Principe, e che sostanzialmente dà risalto alla bellezza spontanea frutto di natura, trionfatrice rispetto a quanto nato dall’arte e dall’artificio, l’opera mostra la complessità della sua costruzione, per poi immergerci nel “dilettevole piano” ai piedi del Monte Partenio. Qui i pastori conducono le greggi, dialogano tra loro, cantano in una dimensione idillica, non priva però di elementi perturbativi. Già dalla prima egloga s’intrecciano la melancolia d’amore del pastore Ergasto e l’insidia rappresentata dai lupi, spie del tempo della storia che irrompe nella quiete bucolica e la scompagina. Sin dal primo componimento emerge anche il virtuosismo tecnico di Sannazaro, che padroneggia l’uso di versi sdruccioli, cosa tutt’altro che semplice se si considera come il tessuto fonico della nostra lingua sia prevalentemente piano.
Prose e liriche si susseguono, alcune nelle forme di dialoghi e gare canore, in un intarsio di fonti che da Teocrito a Virgilio ci conduce a Nemesiano, a Boccaccio, Petrarca, Dante, nel costante dispiegarsi di un’arte allusiva raffinatissima, in cui il nuovo appare – per dirla con parole di Rajna – perfetta “metamorfosi del vecchio”. Nascono quadri deliziosi, come quando il pastore Galicio, nell’egloga terza, canta le lodi dell’amata Amaranta, nome che, sulla scorta dell’etimologia – segnalata da Erspamer – legata al “non appassire”, finisce con l’alludere “al pudore della fanciulla” (Tateo). Dopo che Galicio ha intessuto l’esaltazione di questa fanciulla, la voce che dice io, non ancora ben distinta dal coro pastorale, si sforza di individuare Amaranta tra le giovani presenti e riesce nell’intento. Una ragazza, infatti, dal grembo pieno di fiori, non appena udito Galicio nominare ‘Amaranta’ lascia cadere sbadatamente quei boccioli, “seminando la terra di forse venti varietà di colori”. Un quadretto delizioso che, al di là degli addentellati letterari – numerosi e intrecciati –, regala istanti di pura grazia.
Idillio e inquietudine sottocutanea o patentemente espressa coesistono. Vediamo i pastori, secondo tradizione, celebrare le feste in onore di Pales, loro dea. Questo momento, debitore degli ovidiani Fasti, fornisce il destro per un altro pezzo di bravura, l’ekphrasis data dalla descrizione delle porte del tempio della dea, in uno stimolante intreccio di rimandi tra l’arte antica e quella moderna. Eppure, pur inscrivendosi nel solco della tradizione, il rito in onore di Pales, cui nell’opera seguiranno altri rituali, attraverso la preghiera di ‘appagare’ le “deità offese”, di scacciare “ogni incanto che nocevole sia” e tenere lontano il fascinum scagliato dagli occhi degli invidiosi, rende l’idea di un senso di precarietà e della consapevolezza di un’insidia sempre pendente. Quella che prenderà corpo sempre più nel corso del prosimetro, a dispetto dei rituali apotropaici.
È un mondo cui non manca la dimensione del richiamo a momenti tipici dell’epica. Per esempio, nella prosa undicesima, in cui si organizzano gare di atleti in onore della madre di uno dei pastori, Massalia (dietro cui si cela l’omaggio a Masella di Santomango, defunta madre di Sannazaro), subito appaiono chiare le memorie omeriche e virgiliane, nella struttura e nell’andamento dei giochi.
Ma la storia principale dove conduce? Ne entriamo a conoscenza nella prosa settima, quando il personaggio che dice ‘io’ vien fuori dal coro dei pastori e prende la parola raccontando le proprie vicissitudini. Si presenta come Sannazaro, riferendo poi il proprio soprannome, Sincero, ch’era quello con cui lo scrittore era identificato nell’Accademia Pontaniana. Innamorato senza speranza di una fanciulla, forse Carmosina Bonifacio, aveva tentato di sfuggire al tormento d’amore rifugiandosi nella quiete arcadica, un po’ come Petrarca cercava la solitudine ne’ più deserti campi. Eppure già il cantore di Laura sapeva che alla passione non è facile opporre rimedio. Alla storia di Sincero fa eco quella del pastore Carino, in una delle prose più interessanti. Anche quest’ultimo si era innamorato di una compagna di giochi e cacce. Tra l’altro Sannazaro descrive una di queste battute venatorie, in cui, come ben ha evidenziato Vecce, in una sorta di “teatro della crudeltà” “Gli uccelli (‘umanizzati’ nella rappresentazione dei loro sentimenti e delle loro sofferenze) mettono a nudo il fondo oscuro della follia umana, e diventano simboli di una violenza universale”. Efficace, in linea con il Lai de l’Ombre et de l’Anneau, è il modo in cui Carino rivela all’amata ch’è lei la donna tanto desiderata. Le dice, infatti, che vedrà nella fontana l’effigie della donna che lui ama; la compagna si specchia e scopre traumaticamente il desiderio dell’amico, mostrandosi subito sdegnosa. Tra i due, tuttavia, ritornerà a fiorire un sentimento d’amicizia e Carino, dopo aver coltivato, e quasi attuato, pensieri di suicidio si libererà dal furor amoroso.
Nel mondo dei pastori non può mancare la magia, che del resto abitava tra le pagine di Teocrito con l’incantatrice Simeta ma anche di Virgilio; si pensi alla Bucolica VIII. Il mago dell’Arcadia è tale Enareto; gli studiosi hanno peraltro evidenziato che anche in questo personaggio Sannazaro celava un volto dell’ambiente culturale napoletano. Il suo maestro, Giuniano Maio, autore di un fortunato lessico, il De priscorum proprietate verborum; uomo che aveva fama di onirocritico che ben si sposa con la promozione a mago. Figura cui spetta il compito di escogitare, forte dell’esperienza, rimedi all’amore e ad altri mali.
Eppure il male alberga nella quiete dell’Arcadia. Il finale è potentissimo e si fece strada in un secondo momento, in piena crisi dei signori aragonesi. Siamo, anche qui pur nell’abile intarsio di materiali di tradizione, alla sezione più visionaria dell’opera. Quella in cui assistiamo all’incubo di Sincero: al canto di una Sirena segue lo schiaffo di un’onda che quasi lo sommerge e gli ottunde il respiro. Poi c’è l’immagine, controversa, dell’arancio “tronco dalle radici”, che da un lato riprende l’alloro tronco alla morte di Laura, ma dall’altro potrebbe alludere (arangio è anagramma di aragoni) a un tragico evento della casata, forse – suggerisce Vecce – la morte di re Ferrandino nel 1496. A questo punto Sincero si sveglia e passeggiando incontra una ninfa che lo conduce nella grotta da cui hanno origine tutti i fiumi. Un viaggio sotterraneo, figlio del percorso di Aristeo nelle Georgiche ma anche della catabasi dantesca. Ecco che qui emerge lo strazio dell’Et in Arcadia ego. Nel suo itinerario, mentre si avvicinano sempre più al fiume Sebeto, che bagnava l’antica Napoli, la ninfa evoca le città morte e, in particolare, la memoria di Pompei. Echeggia così una sentenza che riprende Seneca, ma ha una sua decisa potenza espressiva: “Strana per certo et orrenda maniera di morte, le genti vive vedersi in un punto tôrre dal numero de’ vivi! Se non che finalmente sempre si arriva ad un termino, né più in là che a la morte si puote andare”. Terminato il viaggio, in una geografia mentale in cui “l’Arcadia e la Campania si assomigliano e si avvicinano fino quasi a coincidere, a sovrapporsi” (Erspamer), Sincero si trova a Napoli e anche qui ode canti funebri, in ricordo dell’amata di Meliseo, pastore dietro cui si cela il grande Giovanni Pontano. La Filli di cui si piange la scomparsa era la moglie di Pontano, Adriana Sassone. Un’aura luttuosa pervade l’opera; i segni di morte dappertutto sembrano proiettare l’ombra della sciagura su una Napoli morente.Di fatto, il finale dell’Arcadia è l’addio a una stagione memorabile, quella che alcuni intellettuali avevano percepito inaugurata dall’ascesa della casata aragonese, da Alfonso il Magnanimo a Federico. Quell’addio si traduce nel commiato alla Sampogna, ossia al canto bucolico e al suo strumento principe. In futuro, lo scrittore si dedicherà soprattutto al poema latino, ma quel congedo lacrimoso sembra recare memoria sottocutanea delle salmodiche cetre appese alle fronde dei salici ad attestare l’impossibilità di modulare il canto se il cuore si contrae dallo struggimento. “Le selve son tutte mutole: le valli e i monti per doglia son divenuti sordi. Non si trovano più ninfe o satiri per li boschi; i pastori han perduto il cantare; i greggi e gli armenti appena pascono per li prati e coi lutulenti piedi per isdegno conturbano i liquidi fonti, né si degnano (vedendosi mancare il latte) di nudrire più i parti loro”. Uno scenario distopico in cui, rivolgendosi alla Sampogna, il poeta non può che esortarla a rattristarsi. “Attristati adunque, dolorosissima, e quanto più puoi de la avara morte, del sordo cielo, de le crude stelle e de’ tuoi fati iniquissimi ti lamenta”. 
Lo scrittore non le darà più voce. Forse a rimetterla in movimento sarà il vento, ma non perché musica possa risuonare ancora. Unico effetto di quell’istante di effimero ritorno alla ‘vita’ sarà un grido, voce di rabbia e dolore, che si leva col poco fiato che resta.




stampa la pagina

Commenti