Piccole riflessioni su "TOUJOURS CETTE IMAGE" di Edmond Jabès - di Sergio Daniele Donati

 

TOUJOURS CETTE IMAGE
(SEMPRE QUESTA IMMAGINE)
(da "Le Seuil le Sable: Poésies Complètes", Paris Gallimard, 1990)

Toujours cette image de la main et du front,
de l’écrit rendu à la pensée

(Sempre questa immagine della mano e della fronte,
della scrittura resa al pensiero)

Tel l’oiseau dans le nid, ma tête est dans ma main.
L’arbre resterait à célébrer, si le désert n’était partout.

(Come l'uccello nel nido, la mia testa è nella mia mano.
L'albero rimarrebbe a onorare, se il deserto non fosse ovunque.)

Immortels pour la mort. Le sable est notre part insensée d’héritage.
Puisse cette main où l’esprit s’est blotti, être pleine de semences.
Demain est un autre terme.

(Immortali per la morte. La sabbia è la nostra quota folle d'eredità.
Possa questa mano dove lo spirito si è raggomitolato, essere pieno di semenze.
Domani è un altro termine.)

Saviez-vous que nos ongles autrefois furent des larmes?
Nous grattons les murs avec nos pleurs durcis comme nos cœurs-enfants.

(Sapevate che le nostre unghie 
furono in passato lacrime?
Grattiamo i muri con i nostri pianti resi duri come i nostri cuori-bambini.)

Il ne peut y avoir de sauvetage
quand le sang a noyé le monde. Nous ne disposons que de nos bras
pour rejoindre, à la nage, la mort

(Non può esistere salvezza
quando il sangue ha annegato il mondo. 
Non ci restano che le nostre braccia,
per raggiungere, a nuoto, la morte.)

(Au-delà des mers, au-dessus des crêtes, minuscule planète non identifiée,
mains urnes, rondes mains comblées, échappées à la pesanteur.)

(Al di là dei mari, al di sopra delle cime, minuscolo pianeta non identificato,
mani urne, tonde mani colmate, evase dalla pesantezza.)


Lorsque la mémoire nous sera rendue, l’amour connaîtra-t-il enfin son âge?

(Quando la memoria ci sarà resa, l'amore conoscerà finalmente la sua epoca?)

Bonheur d’un vieux secret partagé.
À l’univers s’accroche encore l’espérance du premier vocable; à la main,
la page froissée.

(Felicità di un vecchio segreto condiviso.
Si aggrappa ancora all'universo la speranza della prima parola;
alla mano,
la pagina stropicciata.)

Il n’y a de temps que pour l’éveil.

(Non c'è tempo che per la consapevolezza.)
_______

Anzitutto premetto che questa poesia del grande Maestro Edmond Jabès è stata da me stesso indegnamente tradotta e la scelta di apporre la traduzione sotto ogni strofa - scelta del tutto inusuale e poco ortodossa - mi serve, e spero che serva anche a voi, a meglio poter sottolineare alcuni passaggi e parole chiave.
Poesia apparentemente dell'assenza di speranza questa magnifica di Jabès descrive un mondo in cui un deserto, non certo prolifico, invade ogni dove e non resta alla scrittura altro che una sorta di resa ad un pensiero ossessivo e mortifero. 
E l'essere umano vive in un mondo inondato di sangue e non gli rimane altro che nuotare nel rosso liquido, verso una morte certa. 

Eppure, sotto una pagina accartocciata o nei palmi delle mani - la mano, come le sabbie e i deserti, ricorre, con connotazioni diverse, tanto in questa e altre poesie del Maestro - si raggomitola, si cela un piccolo seme di speranza, o meglio di non-speranza che ossimoricamente non dispera.

Là nei luoghi più nascosti del nostro corpo, quelli che possiamo celare piegando un foglio (corpo e scrittura per il poeta sono sempre  connessi) o chiudendo a pugno la mano risiede la gioia di un segreto, il seme della parola. 
Ma quale parola?

Non certo una nuova parola, che altro non sarebbe che lo stesso deserto che ci circonda, il nuovo che distrugge e devasta e annega.
No, nei palmi delle nostre mani dimora, in un cantuccio e celato il seme della prima parola, quella che ha creato ogni cosa. 

E il risveglio, la consapevolezza non è una speranza ma una semplice passaggio senza alternativa. Ogni nostro tempo gli deve essere dedicato. Non c'è ormai più spazio per l'altro.

Magnifica composizione di contrasto e alternanza tra la descrizione tragica di un mondo che annega nelle sabbie e nel sangue e la strategia del nascondimento, del celarsi tra le pieghe del corpo in attesa di un risveglio. 

Non posso non leggere in questo un non detto che riguarda la Shoah, l'immensità della catastrofe e il nascondimento che ha permesso la sopravvivenza prima, la vita poi, al popolo ebraico ed ad altri popoli tristemente vittime di quella bestialità.

Davanti alle catastrofi non si gonfia il petto, sembra dirci il poeta, ci si fa piccoli, ci si nasconde tra le proprie stesse mani, o tra le pieghe di un foglio stropicciato, e si attende un evento di risveglio che avverrà, non perché la speranza lo sostiene, ma perché non può che essere, come l'inspirazione non può che essere dopo l'espirazione.

Ecco perché questa poesia, pur essendo la poesia della non speranza, non è una poesia disperata. 
Questo richiamarsi al piccolo e al nascondimento che è di tanta poesia sia ebraica che araba, ha un rapporto diretto con le sacre scritture bibliche in cui persino la presenza divina - mi riferisco ad esempio all'episodio di Elia -, davanti a fenomeni roboanti e drammatici (incendi, vento che spezza le montagne, terremoti) si cela in una voce sottile di silenzio che Elia percepisce, anzi sa percepire - come ci riesca non è dato saperlo.
E il fatto che il testo biblico utilizzi un evidente ossimoro (voce/silenzio) è una indicazione anch'esso del nascondimento. 
La parola che si cela nel suo apparente contrario, che allo stesso tempo della parola sacra è sempre la sorgente prima. 

Tra le assi delle baracche dei campi della morte durante la Shoah hanno trovato dei foglietti con delle poesie, non certo di speranza.
Là nascosta e accartocciata nei luoghi dell'orrore qualcuno ha salvato la parola, celandola,, quasi rendendola silenzio, perche, forse, fosse letta in futuro...e così è stato.

Io non so se il grande poeta si riferisse anche a questo in questa sua grande poesia ma so che ogni volta che la leggo - e credetemi l'ho fatto qualche migliaia di volte - non riesco a non pensare a quel riferimento e sento sempre il desiderio di accartocciarmi anche io tra le pieghe di un foglio.

Siamo sempre molto attenti a che la parola possa arrivare al lettore.
Ma, in questa sacrosanta attenzione al destinatario delle nostre balbuzie poetiche, rischiamo di dimenticare la necessità di nascondimento della parola in un mondo che annega, ora come allora, nella nostra insensata e sabbiosa quota di eredità.

Dimentichiamo, per produrne di nuove - e questo il poeta ce lo dice senza dirlo - che nostro onere e onore è salvare la prima parola, che è la fonte delle nostre, sempre che di possesso di una parola si possa parlare senza sentirsi piccoli e inadeguati.

Immensa poesia certo, ma soprattutto immenso insegnamento di fronte al quale dovremmo avere lo stesso pudore e ritrosia che ebbe Elia verso la Voce sottile di Silenzio, e coprirci il volto con un manto sacro, gesto pudico questo che, nel racconto biblico, apre a un dialogo tra la trascendenza e il profeta che dona al lettore brividi. 

Per la redazione
de Le parole di Fedro
Sergio Daniele Donati 

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