(Redazione) - Fisiologia dei significati in poesia - 04 - Poiesis: analogia di una gestazione (Parte 2)

 

di Giansalvo Pio Fortunato

L’utilizzo, che è fatto nel precedente articolo, dell’Esser-ci coglie, certamente, una strada posteriore rispetto alla problematicità dell’Esser-ci in quanto Dasein. È chiaro, infatti, che l’Esser-ci, l’essere a noi, è figlio di un voluto dato per scontato della problematicità dell’Esser-ci; anche perché risulterebbe alquanto pretenzioso voler calare la dimensione poetica immediatamente in una sua matrice poietica, derivante inesorabilmente dal differenziamento ontologico di fattura heideggeriana. Eppure, continuo a chiedermi con voi quale sia il senso di questa enorme apertura visuale che si sta fornendo in questi ultimi due interventi; mi chiedo perché realizzare questa contestualizzazione ontologica per la poesia, che, almeno apparentemente, esula da tali tematiche esistenziali. In parte, nel precedente articolo [1], ho già fornito una risposta; ma qualche lettore, un po' più curioso, potrebbe compiere un ritorno entro la propria memoria e ricordare che il secondo Heidegger, esegeta di Hoderlin (per esempio) e soprattutto formulatore di nuove analisi sul linguaggio e sulla sua validità, si sofferma sul ruolo ontologico della poesia: dunque, ciò che sta avvenendo è una raccapricciante ripresa, banalmente ortodossa, del pensiero heideggeriano? Forse sì, perché è imprescindibile, per un’indagine sulla poesia, l’attuazione di un ricorso alle chiavi dell’esistenza; ed esempio eclatante di una visione estremamente pregnante della problematicità dell’esistenza, elevato a problema sull’Essere, è senza dubbio la filosofia di Martin Heidegger. Forse sì, perché il filosofo tedesco mi fornisce (non: fornisce) termini di dialogo storiografico nel pensiero che trovo particolarmente allettanti e – questo non va mai dimenticato – la possibilità di una teoresi definita e complessiva non esiste; anzi, molto probabilmente, non esisterà mai. Per cui, l’inquadratura, che al mio oggi si palesa maggiormente plausibile, è proprio entro la casa dell’ontologia. Riuscirebbe, allora, un esercizio di menzogna, soprattutto se di matrice auto-elaborativa ed elaborativa trasmessa, a funzionare adeguatamente? Per capirci: potrei scrivere di ciò che non sono, di ciò che non sento, di ciò che non esperisco, di ciò che non penso? Ne dubito.
Malgrado l’esercizio attoriale o, meglio ancora, di ipocrisia possa riuscire con estrema coerenza, esso è sempre portatore di una macchia, di una traccia irreversibile che porti dei vacillamenti e delle ombre lucenti, capaci di farsi riconoscere ad un occhio che va oltre la superficie. Se esiste una certezza entro la verità-aletheiatica [2], questa è, senza dubbio, l’impossibilità di una transizione che generi ex novo. E questo per due ragioni essenziali:
- transizionalità della transizione: l’essere della transizione stessa, che non è mai creativo o procreativo e non corrisponde ad una determinazione; è sempre posto, invece, come l’atto tra il prima ed il dopo
- la disvelità dell’aletheia: l’essere del disvelamento (sempre poietico) che si attua entro un prima ed un dopo, che sono palesamenti di un divenire. Lo scopo fondamentale dell’ her-vor-bringen [3] è, infatti, il portare qui dinanzi a sé che, portato qui dinanzi al sé, non è più il portato qui dinanzi a sé, ma è il qui dinanzi a sé. L’azione poietica è, dunque, procreativa, amante dell’assenza (intesa come protensione al non ancora), ma soprattutto non creatrice; dunque altamente gestatoria. Questo fa sì, chiaramente, che l’Esser-ci subisca un mutamento, un divenuto che non annichilisce il già stato, ma lo rimodula, mostrandone ancora avvisaglie.
Questo implica, allora, che, pur nell’esercizio di menzogna – che si articola, lo precisiamo, differentemente dall’errore per la sua corretta apprensione (senza elusione) che nega coscientemente e deliberatamente (con tutto il viscoso di dubbio che può esservi nel cosciente e nel deliberato) ciò che è stato appreso correttamente - , essa non riesce, o meglio, riesce solo ad una comprensione superficiale, che non va a toccare l’essenza dell’affermazione espressa. La verità – aletheiatica, che si regge proprio su questa transizione divenente, riesce a captare, infatti, il prima ed il dopo ed a renderlo manifesto, portando alla luce la verità (guarda caso) della propria posizione.
Quindi? Tutto questo a che pro? Tutto questo è ad un pro determinante: non posso pensare all’esistenza, dunque alla poesia, se non attraverso gli specoli che adesso mi paiono necessari ed insostituibili per interpretarla. E, seppur volessi negarli deliberatamente, essi troverebbero il modo di uscir fuori perché il mentire, soprattutto se su temi che richiedono un’elevata meccanicità razionale, altro non è che la transizione dal voler mentire sulla mia posizione al mentire sulla mia posizione. Ogni cosa, allora, perché datasi, è incontrovertibile ed imprime una macchia irreversibile nel nostro essere-al-mondo; quindi nel nostro comunicarci al mondo. Dinanzi, tuttavia, a questa via di abbattimento e di fragorosa responsabilità esiste anche un lato positivo estremamente accattivante e, assai spesso, poco colto dalla dimensione poetica; o meglio: colto, ma con la sola linea empatica e volta a cataclismatici pietismi a durata contingentata.
Noi non siamo padroni di noi stessi
È questa un’assunzione fondamentale, priva dell’assetto cantilenante trito e ritrito, soprattutto entro la drammaticità dell’esistere che caratterizza l’essere-in-ogni tempo. E tale espropriazione, specifica di un nomadismo perpetuo che costituisce irreversibilmente l’uomo, traspira da ogni condizione e da ogni atteggiamento. È impossibile, come detto, mentire e non essere scorti, soprattutto se ad un occhio attento. È impossibile presentare una propria posizione e non riuscire a far trasparire il prima, l’indotto ereditario che monopolizza la risultante attuale e la esautora della sua auto-generazione. È impossibile scovare un momento che non sia un venire alla luce, più che un cominciamento totale ed immediato. Queste impossibilità, tuttavia, non immobilizzano l’uomo, ma lo emancipano: fanno calmierare il peso di una volontà dubitativa e procreativa, che sia in grado di rendere unico e vita-morte ogni cosa. È il significato stesso dell’Esser-ci dell’uomo, dell’essere presente entro un qui ed ora, in una totalità che non coglie la sola occasionalità, ma anche la trascendenza “legislativa” che radicalizza nel determinato qui e nel determinato ora; ma anche il significato dell’essere presente a se stesso, attraverso una matrice dubitativo-costruttiva. In virtù della limitatezza intrinseca, infatti, l’uomo rallenta lo scenario del vissuto, lo qualifica ed accetta la diaspora perpetua che si autoconfessa come tesa al vertere, all’assenza quale emblema del desiderativo. Ed è proprio qui, che entra in gioco il poieo; è qui che entra in gioco il mantenimento entro una dinamica procreativa, mai riprocreativa. Poieo è la responsabilità di un’umanità che si porta alla luce e che porta il mondo al suo sguardo, compiendo una soggettivazione del ciò, finalmente inteso come oggettivo. Poieo è la propria firma, per intenderci, che è scoperta, perché riconoscibile, perché atta al deiticco che è nuovo deittico, nuova affermazione esistenziale. L’uomo entro la poiesi (di cui la poiesi poetica è massima espressione) non fa altro che danzare sul cordolo e rivendicare per il cordolo non il volto della salvezza, ma la spaccatura sottilissima tra due immensità, che ora – seppur tanto più dolorose ed ambigue – sono notate, esistenti a noi stessi ed ai nostri vincoli. Il nostro microcosmo, quindi, è consapevolmente il nostro, perché non assolutizzato, ma permeato della parzialità di un possesso entro il coesistente: è nostro perché propriamente nostro e non di altri, per cui figlio del riconoscimento originario dell’esistenza di microcosmi altrui.
Tali considerazioni si esplicano inesorabilmente nel senso e nel significato di ogni azione poietica (poesia compresa, seppur con una casistica dovutamente particolare), che ha lo scopo di incarnare pienamente il senso di una transitorietà e di un divenire nel seno dell’esistere. L’her-vor-bringen, infatti, non è un riprocrare entro una matrice strettamente prospettica, presumibile dal portare qui dinanzi al sé, ma è a tutti gli effetti un’operazione gestatoria, che conduce un nuovo alla luce e lo getta nei nuovi già venuti alla luce. In tali termini, dunque, è proprio la matrice anti-aletheiatica (dunque a-oscurante) che costruisce il fenomeno; il quale non trapassa entro una semplice riduzione a radicale dicotomia tra realtà ed apparenza, ma, classificandosi già in un approccio vigorosamente ermeneutico, si compone come un pienamente Esser-ci, in una cosmologia totalmente rinnovata. L’operazione gestatoria, infatti, determina una transizione fenomenica, al pari dell’anatomia di una gestazione, capace di dare il senso dell’arricchito e del mutato, seppur non ex-novo. È questo il gioco insidioso ed affascinate della non padronanza di noi stessi: seppur mossi entro una matrice che possiamo determinare in ampie parti, in virtù di una transitorietà che richiede per sua stessa definizione determinazioni sempre nuove, non siamo mai pienamente in grado di creare ex-nihilo, perché l’ex-nihilo richiederebbe una stato di non transitorietà, capace di generare il pieno possesso e l’assoluto. Solo chi, infatti, è pienamente possessore (dunque chi è, non chi CI E’), può iniziare totalmente un nuovo ciclo, essendo pienamente compiuto e creatore solo del totalmente nuovo (diverso dal sé compiuto). La transitorietà e la finitudine sono, invece, garanti incontrovertibili del poieo, del venire alla luce, della traccia da reinvestire entro un nuovo Esser-ci.
In tal senso, allora, ogni operatività umana segue magistralmente questa fisiologia e la parola, a maggior ragione la poesia, ha questo dovere esistenziale, che richiede una responsabilità verso se stessi: la responsabilità di chi fa venire alla luce.
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NOTE
[1] precedente articolo : vedi Poiesis: analogia di una gestazione – Parte 1, Le Parole di Fedro, 26 luglio 2024; lo trovate qui
[2] verità-aletheiatica : dall’articolo, di cui sopra, la verità che, prendendo pienamente il significato etimologico, si divincola dal senso immanente o di corrispondenza tra reale ed apparente, per essere un venire alla luce, non essere più nascosto, come da ricostruzione heideggeriana
[3] her-vor-bringen : resa in tedesco (vedi sempre precedente articolo) del verbo poieo

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