(Redazione) - Leopoldo Lonati: Discorso senza un alito di vento - lettura di Anna Rita Merico (1)

 
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Polvere, granchi, testuggini, pioggia, foglie, biscia, api, platani, balena, acqua, neve, talpa, fragoline, lamponi, insetti, felci, more, balena, lampade, notte, fragoline di bosco. Un erbario. Un bestiario. Una lente sull’intera Natura adagiata in un Quolet immobile di tempo sacro, circolare.

Che supplichino ora. Che supplichino
Dio s’Egli ancora non si è stufato.
Che supplichino e invochino qualcosa.
Qualcosa che dia origine a qualcosa. 
(10. pg 22)

Perdita. Tagli di perdita. Si frantumano barriere tra le scale del vivente. La Poesia entra a scandagliare la perdita. Ne registra paesaggio tra polvere e fango. Sono solo gli elementi della natura a battere un segno di presenza, pur nello stremo delle forze. Tutto è riconoscibile nel proprio essere in preghiera. Anche il tempo percola via, muto, sigillato nel latteo di acque che raccolgono potenze sferrate. Di cosa si nutre il paesaggio di questi versi? Quale apocalisse dell’anima bordeggiano?

Dovevamo custodire il respiro.
Ecco che cosa dovevamo fare.
Custodire il fiato e invece è tutto…
Com’è ch’è tutto contaminato
(7. pg 19)

Di quale contaminazione segna la presenza questo dire? Spiritualità che si prosciuga lasciando la materia risucchiata nel dentro di sé. E’ tutto così tremulo, delicato. E’ pesante il passo lungo su queste pagine? E’ poesia del confine in cui la parola si trasmuta in gesto. Suono che si ritrae e lascia l’afono a dardeggiare nel ventre della pagina. Occorrono occhi attenti per la lettura di questi movimenti di vento da cui anela il passo verso il margine della parola. E’ un verso che si posiziona nel cuore del vivente e, da lì, pulsa presenza. La natura chiede di chiudere ogni possibile stato dell’essere ma senza lasciarlo nel trapasso. 

Custodire il fiato.

Un momento di silenzio vi prego.
Voglio dirvi di un palloncino giallo
in un mattino di vento d’inverno,
che il piede di un ragazzino schiacciò
(12. pg 24)

Il ritmo sale, poi s’impenna verso il basso. Il gioco potente dell’apparire e dello scomparire fa da padrone. Ciò che appare-scompare è riverso lungo e sopra la soglia lì dove la notte risucchia il giorno e il sonno agognato risucchia la veglia. Sospensione del travaglio che ingurgita lo sterno delle parole, il battito d’ali delle sillabe. Anche il cuore chiede sospensione, si stacca da battito di pensiero, s’aggrappa ad un desiderio di elevazione. Il verso chiede pausa, argine di silenzio. La stanchezza pastosa transita dal midollo delle ossa ai rami degli alberi. Anche il verso ripiega nel tremito di uno scorno pudico. Nulla è tradito dallo sguardo. E’ universo di mistero sospeso.

Acqua. Acqua che allaga i taccuini.
E’ acqua inquieta. Acqua alta. Acqua
Di cui non si vede il fondo. Non acqua
D’acquaio. Acqua-telaio dei pensieri
(25. pg 37)

E che la parola s’inondi nel diluvio di una partogenesi. Un Io poetico girovago attraversa nervature di terre che paiono dipinte da un Bosch tornato. In esse avviene ogni possibile mutamento in grembo di metamorfosi. Pulsare di forme sotto le maschere convenzionali della menzogna. Domande s’affastellano e si rincorrono. La parola cerca la propria origine impilata nel plancton dormiente alle spalle della creazione. Cuore e anima dissanguano. E’ viaggio di lento sprofondamento in sé. Abisso di cui mai si potrà dire il fondo. La poesia diviene scandaglio in fosse acquatiche. Accucciato nella stanza del labirinto lì dove pulsa il molle senza ossa di un foglio bianco.

Giù nella quiete. Giù nel profondo.
Con quell’occhio che non vuole mai nulla.
Con quell’occhio perfettamente aperto.
Che sia così o cosà, cosa vuoi
(54. pg 66)

Occhio di bestia. S’annida confine nell’arso. Il verso incontra l’infante. Poche parole calcate di notte. Poche parole al muro di pietre intasate negli interstizi delle dure ulcere del senso. Ogni quartina è l’archeologia di un mattone di sabbia e paglia che sale al petto. La traccia si perde. La poesia si rialza. L’infante perde la propria palla di pezza. Nessun io accoglie. S’apre la traversata. In fila sganghera le lettere tornano. Orfane di sé nell’incolore del senso sgusciato altrove. Una cruna attende filo per imbastire punti e suture.

E’ slavata la parola e slabbrata;
il già detto di nuove strade in cerca
si rifugia nel silenzio lungo
gli ombreggiati viali di una pagina
(88. pg102)

Il vento traduce echi di parole. Le dita intingono in acquasantiere di versi arsi. La parola s’accuccia nei nidi. Il poeta ha lingua gonfiata da parole che s’arrendono dinanzi all’uscita, il sotto delle papille è gravido di parole. Le parole brulicano eppure, immobili, abitano il dentro lasciando fredda la follia del cercarle. Ogni quartina. Ogni quartina. Ogni quartina. Terra e paglia. Terra e paglia. Terra e paglia. Una linea azimutale ride.

L’implacabile legge: la chance d’esser
sonnambulo carovaniere dentro
la nera tenerezza della notte.
Discorso senza un alito di vento.
(14. Pg 26)

In questa silloge: una fluida messe di endecasillabi custoditi in quartine. Un numero puntato ne segna indicazione di titolo. Una struttura fissa, ripetitiva, battente in ritmo di pulsazione.
Una silloge fatta di cadenze non scontate e di disobbedienze della parola. Il verso apre all’evocazione di significati e percezioni raggrumatisi durante un viaggio. E’ un andare che accade in un antro esistenziale esplorato con dovizia e attento scandaglio. Ogni parola s’adagia alla gruccia della precedente o della seguente. Un cordone ombelicale è sostanza del filo che le lega. Una silloge in cui la parola dipana avventura della spiritualità nel suo perdersi, nel suo esserci. Cammino ondivago in cui si mostrano, con estremo pudore, i nudi della spiritualità: la parola, la ricerca, il viaggio, la perdita, la luce, lo smarrimento, il dolore, la fede, la poesia.
Qui la dimensione esistenziale è avvolta in una dimensione temporale che, pur nella sua sospensione, s’impunta a seguire il calendario liturgico scandendo fasi di morte, rinascita, attesa. E’ un calendario tutto immerso in un paesaggio di archetipa natura. Un calendario che segue l’incedere attraverso il movimento, lo sguardo, il battito d’ali di viventi. L’attesa, animata dal desiderio, modula un doppio passaggio: venuta della fine della caduta, venuta di ciò che salva. S’accavallano i piani dei significati e si sgranano i simboli ricchi di antiche allusioni. Gli elementi naturali approdano nel doppio di un paesaggio metafisico e, da lì, mostrano nascondimento e apparizione dello Spirito. Tutto il vuoto attraversato consente alla poesia di essere ancora generata. L’attraversamento delle viscere del nulla consente nuova genesi. Su questa soglia Lonati si ferma e ci ferma quasi ad indicare che il dentro del suo versificare è nel processo che la Sua parola svela appena, lasciando ad ognuno il proprio d’una ricerca mai ultimabile sulla cui soglia noi possiamo, solo, scorgerci e riconoscerci.

(Anna Rita Merico)
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NOTA (DAL TITOLO)

1 - Leopoldo Lonati Discorso senza un alito di vento, Edizioni Casagrande, 2022. Con note di lettura di Aurelio Buletti e Renato Giovannoli.
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